| |
HOME
CERCA
CONTATTI
COOKIE POLICY 
GIALLO PASSIONE 
Ada Mainardi
Il fuoco della passione
Ada più giovane di trent’anni
suscitò al settantenne Arturo una passione intensa, al limite della
violenza, ma ricca di senso del gioco e di rituali feticisti come il
dono di fazzoletti intrisi del sangue mestruale di lei..

Ada
Mainardi ricordava ancora il profumo di resina e legno
antico della sala prove al Teatro alla Scala, quel
pomeriggio di primavera del 1936. Aveva trentanove anni,
un matrimonio solido con Enrico, il violoncellista che
la adorava con la stessa devozione con cui accarezzava
le corde del suo strumento, e una vita che scorreva tra
concerti, ricevimenti e le chiacchierate con Wally e
Wanda, le figlie di Arturo Toscanini. Era stata proprio
attraverso di loro che il Maestro l’aveva notata anni
prima, quando era ancora una ragazza spensierata, non
ancora la signora Mainardi.
Ma fu solo dopo,
molto dopo, che qualcosa cambiò. Toscanini, quasi
settantenne, con i capelli bianchi come la schiuma delle
onde che aveva diretto in mille sinfonie, la guardava in
modo diverso. Non era più lo sguardo del patriarca
severo, del genio intransigente che terrorizzava
orchestre intere. Era un fuoco lento, nascosto dietro
occhiali spessi e silenzi carichi di elettricità.
Accadde in una villa sul lago di Como, durante una
di quelle pause estive che Enrico concedeva alla
famiglia per sfuggire al caldo milanese. Toscanini era
lì per riposare, o almeno così diceva; in realtà,
fuggiva da New York, dalle pressioni della NBC. Ada era
arrivata con il marito per un weekend informale,
invitata da Wally. Enrico suonava con altri musicisti
nel giardino, il violoncello che piangeva arie di Brahms
sotto il sole pomeridiano.
Ada si era
allontanata, attratta dal silenzio della biblioteca
affacciata sull’acqua. Indossava un abito leggero di
lino bianco, i capelli raccolti in una crocchia morbida,
e sfogliava un volume di partiture dimenticate. Fu lì
che lo trovò, seduto in una poltrona di velluto logoro,
con un sigaro spento tra le dita e lo sguardo perso nel
lago.
«Maestro.» Disse lei piano, sorpresa. «Non
vi aspettavo qui.» Toscanini alzò gli occhi. Quegli
occhi neri, penetranti, che avevano domato tempeste
musicali. «Ada» Mormorò, usando il suo nome come una
nota bassa, vibrante. «Siediti. Enrico è occupato con i
suoi amici, e io... io ho bisogno di parlare con
qualcuno che capisca.»
Parlarono per ore. Di
Beethoven, di Verdi, della follia del mondo che si
preparava a un’altra guerra. Ma sotto le parole, c’era
altro. Ada sentiva il calore della sua presenza, il modo
in cui le sue mani tremant, segnate da decenni di
bacchetta, sfioravano l’aria quando descriveva un
crescendo. Era un uomo che aveva diretto il destino di
note e musicisti, eppure in quel momento sembrava
fragile, umano.
Quando il sole cominciò a calare,
tingendo il lago di arancione, Enrico chiamò dalla
terrazza. Ada si alzò, ma Toscanini la fermò con un
gesto. «Aspetta» Disse, la voce rauca. Si alzò a sua
volta, chiudendo la porta della biblioteca. Erano soli.
Il mondo fuori svanì: il riso degli amici, il suono del
violoncello, il battito delle onde.
«Ada.» Iniziò
lui, avvicinandosi. La sua mano, calda e callosa, sfiorò
la sua guancia. «Ho diretto sinfonie che hanno fatto
piangere migliaia di persone. Ho sfidato dittatori, ho
creato bellezza dal caos. Ma niente... niente mi ha
preparato a questo.» Fece una pausa, gli occhi fissi nei
suoi. «Mi sono innamorato di te. Non come un vecchio
sciocco, non come un capriccio. È un fuoco che brucia da
anni, da quando ti ho vista ridere con le mie figlie.
Hai trentanove anni, io ne ho quasi settanta. Il mondo
dirà che è follia. Ma io lo dico lo stesso: ti amo, Ada.
Con tutta l’anima di un uomo che ha vissuto troppo e
troppo poco.»
Lei rimase immobile, il cuore che
martellava come un timpano in un finale di Mahler. Non
rispose con parole. Toscanini si chinò, lentamente, come
se temesse di rompere l’incanto. Le sue labbra
sfiorarono le sue, un bacio timido, esitante, poi più
profondo, appassionato. Sapeva di tabacco e di lago, di
anni di comando e di solitudine repressa. Ada chiuse gli
occhi, le mani che si aggrappavano alla sua giacca,
sentendo il calore del suo corpo contro il suo. Fu un
bacio che durò un’eternità compressa in pochi secondi:
il primo, il sigillo di una passione che avrebbe sfidato
età, matrimoni e convenzioni. Quando si separarono,
ansimanti, Toscanini le prese il viso tra le mani.
«Questo è solo l’inizio», sussurrò. «Il nostro concerto
privato.» E Ada, per la prima volta, seppe che il fuoco
della passione non conosceva età.
E successe,
certo che successe! Qualche settimana dopo si erano
visti in gran segreto nel piccolo appartamento di via
Borgonuovo. Era stata una di quelle notti in cui il
tempo si contraeva: Arturo era arrivato trafelato da un
concerto alla Scala, ancora con la cravatta allentata e
il sudore della tensione sul collo. L’aveva baciata con
urgenza, come se dovesse dirigerla e poi avevano fatto
l’amore come se non fosse la prima volta, come se i loro
corpi conoscessero già a memoria ogni respiro, ogni
urgenza.
Poi, mentre si rivestivano in silenzio,
Ada aveva notato una macchia rossa sul lenzuolo. Senza
pensarci, aveva preso il fazzoletto di seta dalla
borsetta e l’aveva usato per pulirsi tra le gambe. Poi
gli aveva detto: «Tienilo tu. Un ricordo della tua
musa.» Lui l’aveva guardato, annusato a lungo e poi
l’aveva piegato con cura e infilato nel taschino interno
della giacca, accanto al cuore.
Quel fazzoletto
macchiato di russo nei mesi successivi era diventato il
suo fedele compagno e il suo talismano, a Berlino, a
Parigi, a Vienna, il Musikverein gremito, i Wiener
Philharmoniker in attesa del cenno della bacchetta, e
Arturo sul podio, con in tasca quel segreto sanguigno.
Durante il Daphnis et Chloé, nei passaggi più sensuali,
quando le arpe tremavano e i legni sussurravano, lui
stringeva quel fazzoletto tra le dita, come se il suo
corpo fosse lì, sul palco, a guidarlo. Una volta, in un
telegramma arrivato da Stresa, aveva scritto in un
inglese stentato: “Your blood in my pocket. I conduct
with your pulse. A.”
Ada aveva riso, ma poi si
era commossa. Nessuno l’aveva mai desiderata così: non
Enrico, con la sua dolcezza prevedibile, non gli
ammiratori che le mandavano fiori dopo i concerti.
Arturo la voleva con una fame antica, quasi pagana. E
lei si era chiesta spesso se fosse amore o dipendenza.
Ada teneva strette quelle lettere immaginando il
Maestro, venerato come un dio dai musicisti, che
profanava la santità di Bach con pensieri carnali. Aprì
il biglietto. “Amo la tua bocca e i tuoi baci, quelli
terribili che bevono la vita…”
Lui la scriveva
in francese quando era euforico (“Ma chère, ton absence
me ronge comme un allegro furioso”), in italiano quando
era geloso (“Chi era quell’uomo al tuo fianco a Monaco?
Rispondi o impazzisco”) e in un inglese approssimativo
quando temeva che le poste intercettassero le sue
lettere bollenti. Una volta, dopo un litigio lei aveva
tardato a rispondere, distratta da un viaggio di Enrico
a Lipsia, Arturo le aveva mandato un biglietto furioso:
“Mi tratti come un vecchio! Ma sono vivo, Ada, vivo per
te! Se non vieni a Milano il 3 dicembre, brucerò tutto:
le lettere, il fazzoletto, me stesso!”
Lei era
andata. Ovviamente. Era il 3 dicembre 1936. Nevicava
leggero su Milano, e l’appartamento di via Borgonuovo
era caldo, con il camino acceso e una bottiglia di
Barolo aperta. Arturo l’aspettava in maniche di camicia,
i capelli bianchi spettinati, gli occhi rossi di chi non
aveva dormito. «Non brucerai niente.» Gli aveva detto
lei, togliendosi il cappotto. Lui l’aveva guardata, poi
aveva tirato fuori il fazzoletto dalla tasca, ancora lì,
dopo Vienna, dopo Salisburgo, dopo un’altra tournée. Lo
aveva appoggiato sul tavolo, accanto al vino. «Lo porto
sempre con me. È la mia partitura segreta.» Ada si era
avvicinata, aveva preso il fazzoletto, l’aveva annusato.
Profumava di lui: tabacco, colonia, e qualcosa di
metallico, di sangue ormai secco. «Sei pazzo, Arturo.»
Poi lui l’aveva baciata, con la stessa urgenza
di sempre, ma questa volta più lenta, come se volesse
imprimere ogni secondo nella memoria. Le sue mani
tremanti le avevano slacciato il vestito, e quando erano
finiti sul divano, con la neve che batteva contro i
vetri, lui le aveva sussurrato all’orecchio: «Quando
dirigo, chiudo gli occhi e vedo te. Nuda. Con questo
sangue sulle cosce. È l’unico modo in cui riesco a
finire un concerto.» Ada aveva riso, poi aveva pianto.
Non sapeva più dove finiva il desiderio e dove iniziava
la paura. Ma quella notte, mentre Milano dormiva sotto
la neve, aveva capito una cosa: Quel fazzoletto non era
un feticcio. Era un voto. Un voto che nessuno dei due
avrebbe mai rispettato fino in fondo, ma che li avrebbe
legati per anni, tra lettere, telegrammi, e silenzi
carichi di musica.
Una sera, a New York – era il
1937, Enrico era in tournée a Praga – Arturo l’aveva
fatta venire con un pretesto: “Devi sentire la Missa
Solemnis prima della prima”. L’aveva accolta nel suo
appartamento all’Hotel St. Regis, con le finestre aperte
sul traffico di Manhattan e una bottiglia di Chianti
aperta sul pianoforte. Aveva suonato per lei, a porte
chiuse, il Credo di Beethoven al pianoforte, ma a metà
aveva smesso. Si era voltato, l’aveva guardata. «Vieni
qui.» L’aveva baciata con violenza, spingendola contro
il muro, le mani che cercavano la pelle sotto il
vestito. Poi, ansimando, aveva preso una partitura dalla
pila – era la Missa, aperta sul Sanctus – e ci aveva
scritto sopra, con la matita, mentre lei slacciava il
suo vestito di seta e si mostrava in lingerie: «Qui, tra
queste note, ti possiederò. Quando canteranno ‘Pleni
sunt coeli’, io sarò dentro di te. Verremo insieme.» E
così era stato. Ada aveva gridato nel momento esatto in
cui le voci di Bach esplodevano in un Amen trionfale.
Arturo era crollato su di lei, tremando, le lacrime agli
occhi. «Ecco» Aveva detto, la voce rotta. «Il miracolo.»
Lei sapeva che non era un’esagerazione. Arturo
viveva ogni amplesso come un’apoteosi. Dopo, restava
immobile, il respiro corto, come se temesse di non
svegliarsi più. Una volta le aveva detto: «Se dovessi
morire dentro di te, Ada, sarebbe la fine perfetta.
Meglio di qualsiasi sinfonia.» Lei non rispondeva. Lo
accarezzava soltanto, i capelli bianchi tra le dita, e
pensava a Enrico, a Praga, che probabilmente in quel
momento stava correggendo un allievo sul fraseggio di un
adagio. Due mondi. Due uomini. Uno che la amava con
dolcezza. L’altro che la divorava con musica e sangue.
Parigi, 11 novembre 1937. Hôtel Meurice, rue
de Rivoli. Ada era arrivata la sera prima, con la scusa
di un concerto di Enrico al Théâtre des Champs-Élysées.
Arturo l’aveva aspettata nella suite 312, la stessa che
usava sempre quando dirigeva all’Opéra. Aveva fatto
portare via i fiori, i giornali, persino il pianoforte a
coda: voleva solo silenzio. E lei. Entrò alle dieci di
sera. Pioveva, e il cappotto di Ada gocciolava sul
parquet. Lui era in smoking, la cravatta già slacciata,
i capelli bianchi lucidi di brillantina. Non disse una
parola. Chiuse la porta a chiave, girò la chiave due
volte, come se temesse che il mondo potesse irrompere.
Poi la guardò. Solo quello. Ada sentì il cuore
fermarsi. «Sei qui.» Disse lui, con la voce bassa, quasi
un sussurro. Lei annuì. Arturo si avvicinò, le tolse il
cappotto con lentezza, come se scartasse un dono. Le sue
dita tremavano. «Ho settanta anni.» Mormorò. «E tu ne
hai trentanove. Il mondo dirà che è peccato. Ma io ho
diretto Tristano cento volte, e mai ho sentito un
preludio così.» Ada rise piano. «Non siamo in teatro,
Arturo.» «No» Rispose lui. «Siamo in paradiso.» La
baciò. Non come a Milano, non come a New York, non come
sul lago. Qui era diverso. Era fame. Era preghiera.
La portò sul letto senza accendere la luce. Solo la
lampada del comodino, un bagliore dorato che disegnava
ombre sulle tende di damasco. Ada sentì le mani di lui
sulle sue spalle, sul collo, poi più giù. Lui si fermò
un istante, la guardò. «Sei bellissima» Disse. «E sei
mia.» Ada non rispose. Gli prese la mano, la guidò tra
le sue cosce. «Qui» Sussurrò. «Il tuo piccolo fiore.»
Arturo chiuse gli occhi. Un gemito gli sfuggì dalla
gola. Poi fu tutto veloce e lento insieme. Si cercarono
con urgenza, ma ogni tocco era misurato, come se
seguissero una partitura invisibile. Ada sentì il suo
peso, il suo respiro caldo sul collo, le sue dita che
stringevano le sue anche. Quando entrò in lei, Arturo si
fermò. «Aspetta.» Disse. «Voglio ricordarlo per sempre.»
Ada gli accarezzò il viso. «Allora ricordalo così.»
Riprese a muoversi, lentamente, poi più forte. Ada
inarcò la schiena, i gemiti che le sfuggivano senza
controllo. «Ada» Lui ansimava. «Ada mia…» Lei gli
afferrò i capelli, lo baciò con violenza. «Insieme.»
Sussurrò. «Ora.» E venne. Arturo gridò e si lasciò
andare dentro di lei, il corpo che tremava, le lacrime
che gli rigavano le guance. Rimasero così, avvinghiati,
sudati, ansimanti. Dopo, lui le baciò la fronte, le
mani, i seni.
La mattina dopo, prima di partire
per Bruxelles, Arturo le scrisse una lettera. La infilò
nella partitura del Tristano che aveva sul tavolo:
“…Dimmi che ricorderai l’11 novembre… avrei voluto
morire subito perché sentivo di aver raggiunto l’estrema
delle felicità…” Ada la lesse sul treno per Milano
accanto a suo marito ignaro di tutto. La tenne stretta
al petto per tutto il viaggio. Da allora, ogni lettera
arrivava su carta intestata di alberghi: Hôtel Adlon,
Berlin, The Savoy, London, Ritz, Madrid… Sempre la
stessa grafia nervosa, sempre le stesse parole: “Il tuo
piccolo fiore mi manca. I tuoi gemiti mi perseguitano.
Gli angolini più segreti del tuo corpo… li sogno ogni
notte.”
Ma anche Ada scriveva a volte seduta nel
suo piccolo studio: “Bello e terribile ché all’ebbrezza
si mescola il peccato…” Scriveva di getto con le parole
che le uscivano come un canto, un Stabat Mater profano.
Quando finiva, piegava il foglio in quattro, lo infilava
in una busta anonima. Sul fronte, con la sua calligrafia
più neutra: Antonio Trascuri. Fermo Posta, Ufficio
Centrale. Milano.
Sapeva che Arturo sarebbe
passato a ritirarla di persona, travestito da uomo
qualunque, col cappotto scuro, cappello calato sugli
occhi, occhiali spessi. Lo faceva sempre, da anni. Eh sì
perché Arturo era sposato con Carla, ma Ada non era
gelosa, sapeva che sarebbe tornato sempre da lei con la
stessa tenerezza con cui accarezzava le sue figlie. Le
diceva: «A Carla devo tutto. Ma tu… tu sei la mia
Messa.» Ada capiva. Sapeva che non sarebbe mai stato suo
per sempre. Ma ogni lettera, ogni incontro, era un Amen
rubato al cielo.
Una volta, a Bayreuth, dopo una
prova del Parsifal, l’aveva trascinata nel camerino.
Aveva chiuso la porta a chiave, spento la luce, e
l’aveva presa lì, in piedi contro il muro, con il
costume di Kundry ancora appeso nell’armadio. «Sento
Wagner nella tua carne» Le aveva sussurrato
all’orecchio, mentre le sollevava la gonna. «Il Gral sei
tu.» Era stato rapido, brutale, perfetto. Un’altra
volta, a Lucerna, l’aveva aspettata in albergo con una
sorpresa: sul letto, una copia della Divina Commedia
aperta sul canto V dell’Inferno. «Leggi» Le aveva
ordinato. Ada aveva iniziato: “Amor, ch’a nullo amato
amar perdona…” Lui l’aveva interrotta con un bacio, poi
l’aveva spogliata lentamente, seguendo il ritmo dei
versi. «Paolo e Francesca.» Aveva detto. «Ma noi non
cadremo. Noi voleremo.» E l’aveva amata sul tappeto, con
la finestra aperta sul lago, mentre il vento portava
dentro l’eco lontana di un’orchestra che provava il
Tristano.
Il loro amore durò sei anni. Dal
novembre 1936 al novembre 1942. Ada li contava come si
contano i movimenti di una sinfonia: Allegro con fuoco,
Adagio doloroso, Scherzo furioso, Finale precipitoso.
L’ultimo atto si consumò in una lettera. Una sola.
Arrivò a Berlino, dove Ada si era rifugiata con Enrico
per sfuggire ai bombardamenti su Milano. Era il 14
novembre 1942. La busta era anonima, come sempre, ma la
grafia sul retro – Antonio Trascuri – tremava più del
solito. Ada l’aprì con le mani fredde. “Ada, mi hai
tradito nell’anima. Non solo come donna, ma come
musicista. Hai osato dire, l’ho saputo da Wally, che la
mia Nona è ‘fredda’, che ‘manca di abbandono’. Mi hai
paragonato a uomini senza spina dorsale, senza sangue.
Tu non hai mai capito. Mai. Addio. Non scrivermi più.
Arturo”
Ada lesse quella lettera due volte. Poi
la bruciò nel camino. Non pianse. Sapeva che sarebbe
finita così: non con un bacio, non con un addio
sussurrato, ma con un’accusa. Arturo non perdonava. Né
in musica, né in amore. Eppure era stata una frase
insignificante detta a Wally, distrattamente, dopo un
concerto: «Papà è grandioso, ma a volte… troppo rigido.
Manca un po’ di calore.»
Wally l’aveva riferito.
Arturo non aveva dimenticato. Sei anni di lettere, di
amplessi, di “piccolo fiore” e “angolini segreti”
cancellati da una frase sussurrata. Ada non lo rivide
più. Lui tornò da Elsa. Elsa Kurzbauer, la “strega”
austriaca che vent’anni prima aveva fatto scandalo a
Milano. Arturo le scrisse da Riverdale, su carta della
NBC: “Strega! Ti amo ancora. Ti desidero ancor più
intensamente. Torna da me. Ada è stata un errore. Tu sei
la mia vera musa.”
Ed Elsa tornò. Sposata,
divorziata, perdonata da Carla (che la invitava persino
a villa Pauline). Ada lo seppe da un’amica comune. Rise.
Amaro. Arturo era così: Tradiva Carla, ma le scriveva
ogni sera. Lasciava Geraldine Farrar al Metropolitan con
un “addio” secco. Faceva un figlio con Rosina Storchio,
poi lo nascondeva al mondo. Diceva a Elsa “sei
l’ultima”, poi cercava Ada. Diceva ad Ada “sei
l’ultima”, poi tornava da Elsa.
Un Don Giovanni
con la bacchetta al posto del mantello. Ada chiuse il
cassetto delle lettere. Seicento. Trecento telegrammi.
Un fazzoletto macchiato di sangue. Una partitura del
Liebestod con una macchia di rossetto. Era il novembre
del 1942. Bruciò tutto. Tranne una cosa. L’ultima
lettera di risposta, mai spedita. “Mio Dio, mio tutto,
mi accusi di non averti capito. Ma tu non hai mai capito
me. Ti ho dato il corpo, l’anima, il sangue. Tu hai
preso tutto… e poi mi hai punito per un pensiero. Addio,
Arturo. Dirigi pure la tua Nona. Io vivrò la mia.”
Ada la piegò. La mise in una busta. Sopra scrisse:
Maestro Arturo Toscanini. Villa Pauline, Lago Maggiore.
Poi la strappò. E la gettò nel fuoco. Fine della
sinfonia.
|

IMMAGINE GENERATA DA IA ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA


Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori.
Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.
If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti

|
|