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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE

SIMONETTA VESPUCCI E SANDRO
BOTTICELLI
La Venere di Sandro
Mi chiamo Simonetta, e la mia vita è stata un soffio di
primavera, fragile e splendente. A Firenze, tra le feste dei Medici
e i sogni di un pittore, ho conosciuto Sandro Botticelli. Il suo
sguardo ha cambiato il mio destino, intrecciando il mio volto ai
colori dell’eternità.

Sono Simonetta, nata
Cattaneo, e la mia vita, breve come un soffio di
primavera, è stata intrecciata di bellezza, amore e un
destino che mi ha fatto diventare immortale. Firenze, la
città che mi ha accolta come sposa di Marco Vespucci, mi
ha fatto incontrare, tra le mura di palazzo Medici e i
giardini di Careggi: Sandro Botticelli. Non so se le mie
parole possano rendere giustizia al tumulto di quel
primo incontro, né alla tensione che mi ha attraversata
quando posavo per lui, o al sentimento che, come un filo
dorato, ci ha legati.
Era il 1470 quando lo vidi
per la prima volta. Ero appena arrivata a Firenze, una
giovane sposa di sedici anni, con il cuore ancora pieno
dei venti marini di Portovenere e il peso di un
matrimonio combinato con Marco, un uomo gentile, ma
distante, più preso dai suoi affari che dal mio sorriso.
La corte dei Medici era un turbamento di colori, musiche
e poesie, e io, con la mia bellezza che tutti lodavano,
mi sentivo come una farfalla intrappolata in una rete di
sguardi. Lorenzo il Magnifico, con la sua mente acuta e
il suo fascino discreto, mi accolse come una sorella, e
fu lui a presentarmi a Sandro.
Ricordo ancora
quel giorno. Ero nel palazzo di via Larga, vestita di
seta azzurra, i capelli sciolti come piaceva a Lorenzo.
Lui mi diceva che sembravo una stella caduta dal cielo
di Dante. Quando Sandro entrò notai immediatamente i
suoi occhi profondi e le sue mani che sembravano parlare
prima ancora della sua voce.
Lorenzo lo presentò
come il suo pittore, un artista capace di catturare
prima dell’aspetto l’anima della bellezza. Mi guardò, e
giuro, rimasi turbata e incapace di respirare. I suoi
occhi non erano solo curiosi, ma affamati, come se
vedessero in me qualcosa che io stessa ignoravo.
“Simonetta.” Disse. “Permettetemi di ritrarvi un
giorno.” Arrossii, non abituata a tanta attenzione
diretta, e annuii senza sapere cosa mi aspettava.
Alcuni giorni dopo mi chiamò nella sua bottega, un
luogo pieno di odori di pigmenti e tele, con la luce che
filtrava dalle finestre come un dono divino. Mi chiese
di posare per uno stendardo, quello che poi sarebbe
stato portato da Giuliano al torneo del 1475. “Voglio
dipingervi come Venere, ma anche come Minerva.” Mi
disse. “Una dea che unisce bellezza e saggezza.”
Ricordo ancora la sua mano leggera come un velo
sulla mia spalla. Mi fece sedere su una sedia di legno e
stese un drappo di seta fino a coprirmi un fianco. La
prima volta che mi chiese di spogliarmi, il cuore mi
batteva così forte che temevo lo sentisse. Non era solo
il pudore, era la consapevolezza di essere vista in
profondità oltre la mia pelle, non come la sposa di
Marco o la musa di Lorenzo, ma come Simonetta, una donna
con sogni e paure.
Mi tolsi il corpetto con mani
tremanti, il cuore che batteva un ritmo selvaggio contro
le costole. La seta scivolò lungo la mia pelle come una
carezza lenta, quasi peccaminosa, lasciando un brivido
caldo che mi attraversò la schiena, accendendo ogni
nervo. Il suo sguardo, carico di un rispetto che mi fece
quasi male, si abbassò per un istante, ma sentivo il
peso della sua presenza, il calore del suo desiderio
trattenuto che aleggiava nell’aria come un profumo
inebriante. Quando finalmente mi scoprii, vulnerabile e
tremante, i suoi occhi tornarono su di me, ardenti,
eppure così pieni di reverenza che mi sentii quasi
sciogliere. “Siete perfetta.” mormorò, quasi un sussurro
spezzato da un’intensità che non era solo un
complimento, ma una confessione che mi avvolse come un
abbraccio. Il mio corpo vibrava di un desiderio che non
osavo nominare, un fuoco che mi consumava dall’interno,
mentre ogni battito del mio cuore implorava di essere
più vicina, di fondermi con quell’attimo eterno in cui i
nostri sguardi si intrecciavano, nudi di ogni finzione.
Posare per lui era come danzare senza muoversi. Ogni
pennellata sembrava un tocco, ogni suo sguardo un
dialogo silenzioso. Sentivo il suo respiro, a volte
irregolare, quando si avvicinava per studiare un
dettaglio del mio viso o delle mie mani. C’era una
tensione tra noi, non detta, ma viva, come un fuoco che
bruciava piano. Non era solo attrazione fisica, anche se
negarlo sarebbe una menzogna: il modo in cui i suoi
occhi seguivano le linee del mio corpo mi faceva sentire
viva, desiderata.
Sandro vedeva in me qualcosa
di eterno, una bellezza che non era solo mia, ma di
tutte le donne, di tutte le dee. E io, in lui, vedevo un
uomo che non dipingeva solo con le mani, ma con quel
trasporto d’artista che galleggiava tra il sacro e il
profano.
Non so dire quando l’attrazione divenne
amore. Forse non fu mai amore come lo intendevano i
poeti, non quello che cantavano per me Lorenzo o
Giuliano. Con Giuliano, sì, c’era stata una passione, un
gioco di sguardi e promesse durante il torneo, quando mi
proclamò regina e mi offrì l’elmo di Verrocchio. Ma con
Sandro era diverso. Era un amore fatto di silenzi, di
momenti rubati tra una pennellata e l’altra, di
confessioni mai pronunciate. Non ci sfiorammo mai, non
come amanti, eppure ogni volta che posavo per lui
sentivo che mi apparteneva, e io a lui.
Quando
dipinse La nascita di Venere, anni dopo, io non ero più
solo Simonetta. Ero diventata un simbolo, un’idea. Non
so se sia davvero il mio viso quello che emerge dalle
acque, come dicono alcuni, perché la critica lo mette in
dubbio, e forse hanno ragione. Ma quando guardo quel
dipinto, sento ancora il suo sguardo su di me, quel modo
di dipingermi come se fossi più di una donna, come se
fossi la primavera, il mare, la bellezza stessa.
Ricordo le ore in cui posavo per lui, il freddo
della bottega, il calore dei suoi occhi. Ricordo come mi
chiedeva di girare il capo, di lasciare che i capelli
cadessero in onde, come se fossi davvero Venere che
nasceva dalla spuma. “Simonetta.” Mi disse una volta,
“Voi non siete solo qui, ora. Siete per sempre.” E
forse aveva ragione. Anche se la morte mi ha colta
troppo presto, a ventitré anni, sento che una parte di
me vive ancora in quei dipinti, nei suoi colori, nei
suoi sogni. Sandro non mi ha solo dipinta, mi ha resa
eterna. E io, Simonetta, lo amerò per sempre, in quel
silenzio che solo l’arte può contenere.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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