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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE

MARIE DUPLESSIS E ALEXANDRE DUMAS
L’Amore Tragico della
Signora delle Camelie
Settembre 1844, Parigi. La sala risplendeva sotto la luce dei
candelabri, e io, Marie Duplessis, la cortigiana di quel mondo
effimero, danzavo tra lusso e vuoto. Ad un tratto lo vidi, Alexandre
Dumas, il suo tormento prometteva amore e passione che avrebbe
bruciato ogni cosa, persino noi

Io, Marie Duplessis, la
cortigiana che Parigi adorava, all’epoca ventenne vissi
una delle storie più romantiche del XIX secolo, che
ispirò il romanzo La signora delle camelie e l’opera La
Traviata di Giuseppe Verdi. La loro relazione, intensa
ma breve, fu segnata da passione, contrasti sociali e un
profondo senso di fatalità.
Settembre 1844,
Parigi. La sala risplendeva sotto la luce dei
candelabri, il brusio delle conversazioni si mescolava
al tintinnio dei calici di champagne. Ero abituata a
quegli ambienti, ai salotti dove gli sguardi mi
cercavano, dove ogni mio gesto era studiato, ogni
sorriso calibrato. Oh sì ero Marie, Marie Duplessis, la
cortigiana che Parigi adorava, invidiava e disprezzava,
una ragazza di vent’anni che aveva imparato a danzare
sul filo della vita, tra il lusso e il vuoto, tra
l’effimero e la seduzione.
Ero seduta su un
divano di velluto rosso con una posa che sembrava
casuale, ma che avevo perfezionato come un’arte. Il mio
abito di seta nera, lasciava intravedere le curve del
busto, mentre la scollatura impreziosita da un pizzo
nero metteva in risalto il mio seno perfetto. Dal capo
scendeva misteriosa una veletta leggera, un velo di
tulle che mi copriva appena gli occhi, rendendo il mio
sguardo un enigma che ogni uomo in quella sala
desiderava almeno catturare. Tra le dita, un ventaglio
di piume viola e nere danzava regolare perché ero
cosciente che ogni mio gesto fosse osservato, ogni
sorriso pesato. La calza velata, di un bianco candido
che traspariva appena sotto l’orlo dell’abito sollevato
con studiata noncuranza, imprigionava gli sguardi come
una rete. Ero preda, sì, ma anche regina, una femmina
che conosceva il potere del proprio fascino e lo
brandiva con la precisione di una spada.
Intorno
a me, la sala palpitava di corteggiamenti. Gli uomini si
avvicinavano come falene attratte dal calore della mia
fiamma, ciascuno con la sua strategia, ciascuno convinto
di poter conquistare ciò che gli altri non avevano.
C’era il conte de Mornay, con i suoi baffi impomatati e
il tono arrogante, che si chinava verso di me offrendo
un calice di champagne con un sorriso che tradiva la sua
presunzione. “Mademoiselle Duplessis, senza di voi,
Parigi non sarebbe la stessa.” Disse, la voce untuosa,
mentre i suoi occhi scivolavano sul mio seno generoso.
Risposi con un sorriso lieve, lasciando che il ventaglio
si muovesse appena, un gesto che diceva tutto e nulla.
“Siete troppo gentile, conte.” Replicai, ma non era lui
che volevo.
Dietro di lui monsieur Laurent, un
banchiere corpulento che sudava sotto il tight, le mani
cariche di anelli che scintillavano mentre gesticolava.
Si sedette accanto a me, senza invito, troppo vicino:
“Marie, mia cara, ho un gioielliere che aspetta solo un
vostro cenno per creare un collier degno di voi.” Lo
guardai attraverso la veletta con gli occhi socchiusi e
lasciai che il silenzio si prolungasse quel tanto da
metterlo a disagio. “I gioielli sono belli, monsieur, ma
brillano solo se chi li dona ha luce propria.” Risposi,
e il ventaglio si chiuse con un colpo secco. Si alzò,
confuso, mentre io trattenevo un sorriso.
Altri
si avvicinarono: un poeta dai capelli lunghi che
declamava versi sdolcinati, un ufficiale in uniforme che
parlava di battaglie come se potessero impressionarmi,
un giovane aristocratico che inciampava nelle sue stesse
parole, intimidito dalla mia presenza. Li ascoltavo,
rispondevo, ridevo quando era necessario, ma il mio
cuore era altrove, sospeso in un’attesa che non sapevo
ancora definire. Ero lasciva, sì, ma non per loro. Ogni
movimento del ventaglio, ogni incrocio delle gambe che
lasciava intravedere la calza velata, ogni sguardo che
lanciavo da sotto la veletta era parte di un gioco che
dominavo. Ero la preda che sceglieva il cacciatore, la
donna che si offriva solo per ingannare, la regina che
governava con un battito di ciglia.
Eppure, in
mezzo a quella danza di desideri, sentivo un vuoto.
Quegli uomini vedevano in me un trofeo, un sogno da
possedere, ma nessuno vedeva Marie, la ragazza che si
nascondeva dietro il trucco e il lusso. Nessuno, fino a
quando i miei occhi non incontrarono i suoi. Alexandre
Dumas, un giovane sconosciuto ai più, con il peso di un
nome celebre e un’ombra di tormento nello sguardo.
Quando lo vidi, fermo in un angolo della sala e la coppa
di champagne in mano, il ventaglio mi scivolò quasi
dalle mani. Per la prima volta, quella sera, mi sentii
davvero nuda, non per il desiderio, ma per la promessa
di qualcosa di vero. Le voci a Parigi correvano ed io
sapevo che Alexandre, figlio del grande scrittore,
autore di “I tre moschettieri” e “Il conte di
Montecristo”, e di Catherine Laure Labay, una sarta,
viveva il suo stato di figlio illegittimo come una
vergogna. La relazione dei suoi genitori non era mai
stata formalizzata, tanto che venne riconosciuto dal
padre all’età di sei anni. Lo osservavo e pensavo
che non fosse affatto come gli altri uomini che
frequentavano quei circoli: non aveva l’arroganza dei
nobili né la freddezza calcolata degli uomini d’affari.
C’era in lui una fragilità che mi colpì, un’ombra di
dolore che riconobbi, perché era la stessa che portavo
dentro di me. Mi osservava da lontano, e il suo sguardo
non era quello di chi vuole possedere, ma di chi cerca
disperatamente un’ancora, un senso. Mi sentii nuda sotto
quegli occhi, non per il desiderio, ma per la loro
intensità, come se vedessero oltre la mia maschera di
cortigiana.
Quando si avvicinò, con il suo passo
incerto disse semplicemente: “Mademoiselle Duplessis.”
Non ricordo cosa risposi, ma ricordo il calore che mi
attraversò quando i nostri sguardi si incrociarono
davvero. I suoi occhi, di un castano profondo, erano
pieni di domande, di sogni, di una fame che non era solo
per me, ma per qualcosa di più grande, qualcosa che
anch’io, nel segreto del mio cuore, desideravo. In quel
momento, per la prima volta dopo tanto tempo, non mi
sentii solo un oggetto di desiderio, ma una donna vista,
davvero vista. Poi si presentò: “Sono Alexandre
Dumas, e… beh, non potevo fare a meno di notare la
vostra presenza stasera. Siete… siete la stella più
luminosa in questa sala.”
Lo osservai, fermai il
ventaglio per un istante: “Monsieur Dumas… Una stella,
dite? Parigi è piena di stelle, e molte brillano più di
me… ma ditemi, cosa vi porta a interrompere la vostra
serata per parlare con me?” Alexandre arrossì, ma non
distolse lo sguardo: “Non è stata una decisione,
mademoiselle. È stato… un richiamo inevitabile. Vi ho
vista, e improvvisamente tutto il resto è svanito.” Fece
un passo verso di me, la voce più bassa: “Non so come
spiegarlo, ma sento che c’è qualcosa in voi, qualcosa di
vero, che va oltre tutto questo…”
Sorpresa da
quella schiettezza dissi: “Siete audace, monsieur Dumas,
o forse solo molto giovane. Questo “teatro”, come lo
chiamate voi, è la mia vita, la mia platea e il mio
palcoscenico. E in questo mondo di luci, la mia figura è
un lusso che pochi si possono permettere. Ditemi, cosa
vedete quando mi guardate?” Alexandre deglutì: “Vedo…
una donna che porta il peso di mille sguardi, ma che non
si piega. Vedo una bellezza che non è solo nei vostri
tratti, ma in qualcosa di più profondo, qualcosa che… mi
fa desiderare di conoscervi, non solo di ammirarvi.”
Poi sorridendo aggiunse; “Forse sembro folle, ma non
riesco a tacere. Perdonate la mia mia intraprendenza.”
Lo fissai, colpita dal suo ardore genuino: “Folle,
forse, ma una follia che mi piace.” Mi appoggiai con
civetteria allo schienale del divano in modo che lui non
perdesse alcun dettaglio della mia eleganza: “Siete
diverso, Alexandre. Non so se sia una benedizione o una
condanna, ma mi incuriosite… Ditemi, cosa fareste se vi
dicessi che sono una donna che brucia tutto ciò che
tocca?” Lui mi guardo, questa volta serio, e con
voce ferma rispose: “Brucerei con voi, mademoiselle... E
lo farei con gioia.” Trattenni il respiro consapevole
che quell’incontro avrebbe cambiato la mia vita e per la
prima volta quella sera, mi sentii vista, non come la
cortigiana, ma come Marie. Poi dissi: “Che il cielo ci
protegga, allora… Sedetevi, Alexandre...”
Da
quella sera, Alexandre divenne il mio pensiero costante.
Ci ritrovammo presto, nei salotti, nei teatri, e poi,
lontano dalla città, nella quiete di
Saint-Germain-en-Laye, dove il mondo sembrava
dissolversi e lasciarci soli. Lì, tra i prati verdi e il
silenzio della campagna, scoprii un uomo che mi amava
con una dedizione che mi spaventava e mi incantava. Ogni
giorno mi portava fiori, rose, gigli, ma soprattutto
camelie, e io, che ero abituata ai gioielli e alle
promesse vuote, trovavo in quei gesti una poesia che mi
faceva tremare.
Presi l’abitudine di indossare
una camelia sul petto, bianca per venticinque giorni,
rossa per cinque, un codice silenzioso che solo lui
capiva. Ogni volta che me la appuntavo, pensavo a lui,
al suo sorriso timido, al modo in cui mi guardava come
se fossi la sua salvezza.
La nostra passione era
un fuoco che bruciava tutto: il tempo, la ragione, le
convenzioni. Quando eravamo insieme, il mondo fuori
smetteva di esistere. Le sue mani tremavano quando
sfioravano le mie, la sua voce si spezzava quando mi
parlava d’amore. E io, che avevo imparato a tenere il
cuore chiuso, mi ritrovavo a cedere, a lasciarmi andare.
Con Alexandre non ero la cortigiana, non ero la donna
che doveva calcolare ogni passo. Ero Marie,
semplicemente Marie, una ragazza che sognava un amore
impossibile.
Ogni nostro incontro, ogni tocco,
ogni parola sussurrata era un atto di ribellione contro
il destino che già sentivo pesare su di me, contro la
malattia che mi rubava il fiato e la società che mi
aveva marchiata come cortigiana. Con Alexandre, per la
prima volta, non ero solo un corpo da desiderare: ero
Marie, una donna che amava, che si perdeva, che scopriva
l’amore non solo nella carne, ma nell’anima.
Spesso fuggivamo dalla città, rifugiandoci nella quiete
di Saint-Germain-en-Laye. Lì, in quella piccola casa
circondata da querce, trovavamo il nostro angolo di
mondo. Le stanze erano semplici, lontane dal lusso dei
miei appartamenti parigini, ma per me erano un paradiso.
Alexandre chiudeva la porta, e con quel gesto chiudeva
fuori ogni regola, ogni aspettativa. Mi guardava con
occhi che tremavano di desiderio e venerazione, come se
fossi una divinità e, al tempo stesso, la creatura più
fragile che avesse mai conosciuto.
Una sera,
ricordo, mi disse; “Marie sei così bella che ho paura di
sognare.” Mi prese le mani, e il suo tocco era caldo,
esitante, ma pieno di una devozione che mi fece tremare.
Non era il tocco di un amante qualunque, di quelli che
avevo conosciuto prima, uomini che cercavano solo il
piacere o il prestigio di possedermi. Alexandre mi
toccava come se volesse memorizzare ogni linea del mio
corpo.
Mi alzai, lasciando che l’abito scivolasse
appena, scoprendo una spalla. Ero io, non la cortigiana
che seduceva con gesti calcolati. Io, Marie, che
desiderava lui, non per il suo nome o il suo denaro, ma
per ciò che vedevo nei suoi occhi: un amore puro,
disperato, che rispecchiava il mio. Lo attirai verso di
me, e quando le sue labbra sfiorarono le mie, sentii le
sue mani, tremanti salire lungo la schiena, come fossero
una delicata poesia. Già lui mi stava scrivendo!
Mi sentii indifesa e fragile… e pensare che in
passato coi tanti amanti passati nel mio letto ero stata
una maestra nel dare piacere, nel trasformare il mio
corpo in un’arma di seduzione. Con loro, l’atto fisico
era un contratto, un mezzo per sopravvivere in un mondo
che non perdonava una ragazza come me, nata nella
povertà e salita al lusso con il solo capitale della mia
bellezza.
In quel momento con Alexandre, avvertii
quanto tutto fosse diverso. La nostra intimità era
semplicemente un abbandono, una perdizione soggiogata
dai sensi. Quando ci amavamo, non c’era calcolo, non
c’era distanza. Nella penombra di quella stanza, sentivo
un pudore che non avevo mai conosciuto. Il mio corpo,
che tanti avevano ammirato e desiderato, mi sembrava
improvvisamente fragile sotto il suo sguardo. Ma
Alexandre non mi guardava come gli altri. I suoi occhi
non cercavano solo la mia pelle, ma ciò che c’era
dentro: il mio dolore, i miei sogni, la mia paura di non
essere abbastanza. “Sei perfetta, Marie.” Mi ripeteva e
le sue parole non erano vuote lusinghe, ma una
dichiarazione che mi faceva commuovere.
Quando la
prima volta mi prese tra le braccia, fui io a pregarlo
di continuare: “Non smettere Alexander, ti prego, voglio
essere solo tua!” Mi baciava il collo, le spalle, il
seno, e ogni bacio era un sussurro d’amore,
un’implorazione silenziosa di non lasciarlo mai. Io, che
avevo sempre controllato ogni momento di passione, mi
ritrovavo a cedere, a perdermi in lui. Il mio respiro si
mescolava al suo, i nostri corpi si intrecciavano in un
ritmo che non era solo desiderio, ma una comunione
profonda, un modo per dirci ciò che le parole non
potevano esprimere. Ogni gemito, ogni tremore era un’eco
del mio cuore, che si apriva a lui come le mie cosce
disponibili e vogliose.
Quando raggiungevamo
l’apice, non era solo il piacere a travolgerci, ma la
consapevolezza di esserci trovati, di essere, per un
istante, una cosa sola. Dopo, restavamo abbracciati, il
suo petto contro la mia schiena, il suo respiro che mi
accarezzava i capelli. Mi sussurrava parole d’amore,
promesse impossibili, e io, ero ostinata a credergli.
Anche la mia tosse, che a volte mi strappava dal suo
abbraccio, sembrava meno crudele in quei momenti, come
se il nostro amore potesse sfidare persino la vita e
tanto meno morte.
E in quel paradiso sapevo
benissimo quanto amarlo nel profondo fosse un rischio
che non avevo mai corso. Con gli altri, ero stata
intoccabile, una regina che concedeva il suo favore
senza mai appartenere davvero. Con lui, invece, mi
sentivo esposta e una parte di me si spezzava, perché
sapevo che il nostro amore era condannato. La mia
malattia, il mio stile di vita, le sue difficoltà
economiche erano catene che ci stringevano sempre di
più. Ma più sentivo il peso di quella verità, più mi
abbandonavo a lui, come se ogni bacio, ogni carezza
potesse rubare un istante al destino.
Nei momenti
più belli, sentivo una fitta nel petto, un presagio,
un’ombra che comunque non potevo ignorare: io vivevo di
lussi che lui non poteva sostenere, un mondo che ci
separava come un abisso. E una sera gli dissi la verità
con una sincerità che mi costò cara. “Alexandre, io sono
una donna che ama alla follia, che sperpera centomila
franchi l’anno. Non posso essere diversa da ciò che
sono.” Vidi il dolore nei suoi occhi, ma anche una
determinazione che mi spezzò il cuore. Lui voleva
salvarmi, voleva credere che il nostro amore potesse
cambiare il destino. Ma io sapevo che non era possibile.
Ogni dono che mi faceva, ogni franco che spendeva, era
un passo verso la rovina, e io non potevo permetterlo.
Lo amavo troppo per lasciarlo cadere con me.
La
nostra storia durò un anno, un anno di estasi e
tormento. Quando ci separammo, nel 1845, fu come
strapparmi un pezzo dell’anima. Non gli dissi della mia
malattia, non volevo che restasse per pietà. Gli scrissi
una lettera, parole che ancora oggi mi bruciano: “Torna
alla tua vita, Alexandre. Io non sono fatta per essere
amata come tu desideri.” Ma la verità era che lo amavo
più di quanto avessi mai amato chiunque, e proprio per
questo dovevo lasciarlo andare.
Quei momenti a
Saint-Germain, quelle notti in cui ci perdevamo l’uno
nell’altra, rimasero impressi in me come un tatuaggio
sull’anima. Anche quando la tubercolosi iniziò a farsi
sentire drammaticamente, il ricordo di Alexandre mi
accompagnò fino all’ultimo respiro. Con lui, avevo
imparato che l’amore, anche se tragico, poteva essere
più grande della vita stessa. E in quel fuoco, in quella
perdizione, avevo trovato, per un breve, glorioso
momento, la vera Marie.
Prima che la malattia mi
portasse via definitivamente nel febbraio del 1847,
seppi che Alexandre non mi aveva dimenticata. Aveva
iniziato a scrivere il suo romanzo: “La signora delle
camelie”, l’opera che mi rese eterna, trasformando il
nostro amore in un canto che il mondo avrebbe ascoltato
per sempre. Margherita Gautier ero io, con le mie
camelie, il mio cuore spezzato, la mia passione che
bruciava più forte della morte. Mentre esalavo
l’ultimo respiro, pensai a lui, al nostro primo
incontro, a quello sguardo che aveva cambiato tutto. E
sorrisi, perché anche nella tragedia, avevo conosciuto
l’amore vero, e questo nessuno avrebbe mai potuto
portarmelo via. Morii sola, in una stanza piena di
lusso, ma vuota d’amore.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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