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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE

NOCE DI COCCO
L'incontro tra Jeanne
Hébuterne e Amedeo Modigliani
Sono Jeanne Hébuterne, e questa è la mia storia, la mia voce, il mio
cuore che batte ancora nei colori di Parigi, nei vicoli di
Montparnasse, nei bistrot fumosi e nei quadri di Amedeo che
porteranno per sempre il mio volto...

Era il 1917, avevo
diciannove anni, e Parigi era un sogno febbrile. Le
strade di Montparnasse brulicavano di vita: artisti con
le mani macchiate di colore, poeti che declamavano versi
al vento, donne eleganti che passeggiavano sotto gli
ombrellini, e il profumo di pane appena sfornato che si
mescolava al fumo delle sigarette.
I bistrot,
come La Rotonde e Le Dôme, erano il cuore della città.
Entravo in quei locali con mio fratello André, le pareti
erano tappezzate di schizzi, i tavoli coperti di
bicchieri di vino e discussioni accese sull’arte, la
libertà, la vita. L’aria era densa di risate, di
promesse e soprattutto sogni. Mi chiamavano Noix de
Coco, per il contrasto tra le mie lunghe trecce castane
e la mia pelle così pallida da sembrare eterea. Non ero
solo una ragazza: ero già una musa, posavo per Tsuguharu
Foujita, che catturava la mia figura con tratti
delicati, ma non avevo ancora trovato il fuoco che
avrebbe incendiato la mia anima.
Poi, una sera,
lo vidi. Amedeo Modigliani. Era seduto a un tavolo
d’angolo a La Rotonde, con un bicchiere di assenzio in
mano, gli occhi profondi come abissi e un sorriso che
sembrava sfidare il mondo. I suoi capelli erano
scompigliati, la camicia sgualcita. Mi avvicinai, quasi
senza volerlo, attirata da una curiosità che non
riuscivo a spiegare. Quando i nostri sguardi si
incrociarono, lui mi disse: “Sei tu?” “Io?” Risposi
confusa. “Sei quella che stavo cercando. Non lo
senti? L’arte ti chiama, e io voglio dipingerti.” Non
capii subito cosa intendesse, ma se per lui ero la
modella che stava cercando, lui invece per me era l’uomo
che avevo aspettato senza saperlo: “Mi chiamo Jeanne.”
Lui rispose: “Amedeo...” Poi mi prese la mano e
aggiunse: “E tu, Jeanne, sei quel quadro che non ho
ancora dipinto.”
La mia vita, fino a quel
momento, era stata un quadro dipinto da altri. Ero nata
a Parigi, in una famiglia cattolica rigida, dove mio
padre, Achille, un ebreo convertito, e mia madre,
Eudoxie, custodivano le apparenze come un tesoro. Ero
una ragazza obbediente, educata, con un amore segreto
per l’arte che tenevo nascosto come un peccato.
Disegnavo di nascosto, schizzi di volti e paesaggi, ma
non osavo mostrarli a nessuno. Mio fratello André,
con il suo spirito libero, mi aveva portato a
Montparnasse, e lì avevo trovato un mondo che mi
chiamava. Posare per Foujita era stata la mia ribellione
silenziosa, un modo per sentirmi viva, per essere più di
una figlia devota. Ma con Amedeo, tutto cambiò.
Cominciammo a frequentarci, e presto mi chiese di posare
per lui. “Vieni nel mio atelier, Jeanne.” Mi disse una
mattina, mentre camminavamo lungo la Senna con il sole
che si rifletteva sull’acqua. “Voglio vedere la tua
anima su una tela.” Emozionata risposi: “Non sono
sicura di essere così interessante.” “Tu non
capisci.” Disse, fermandosi e guardandomi negli occhi.
“Non è solo il tuo viso. È ciò che sei. È la luce che
porti. Fidati di me.”
Le sessioni di posa erano
magia pura. Il suo atelier in Rue de la Grande Chaumière
era un caos di tele, tubetti di colore spremuti,
bottiglie di vino vuote e libri sparsi sul pavimento.
L’odore di trementina e fumo riempiva l’aria, e la luce
entrava dalle finestre sporche, illuminando il suo viso
concentrato. Mi faceva sedere su una sedia di legno, o a
volte sul letto disfatto, e mi guardava a lungo prima di
prendere il pennello. “Non muoverti, Jeanne.” Il suo
tono era dolce, ma anche autoritario. “È difficile
stare ferma quando mi guardi così…” Rispondevo,
scherzando, ma arrossivo sotto il suo sguardo intenso.
“Non ti sto solo guardando.” Replicava, con un mezzo
sorriso, il pennello che danzava sulla tela. “Sto
cercando di catturare ciò che il mondo non vede. La tua
essenza.” I suoi occhi mi studiavano, ed ogni
pennellata era un dialogo silenzioso tra noi. Mi
ritraeva con il collo allungato, gli occhi grandi e
vuoti, come se vedesse in me una divinità, una creatura
ultraterrena. “Sei la mia luce.” Mi sussurrava, e io mi
sentivo bella, non per vanità, ma perché lui mi vedeva
così.
Una sera, dopo una sessione di posa, mi
prese le mani e disse: “Jeanne, non voglio solo
dipingerti. Voglio vivere con te. Vuoi essere mia?”
“Amedeo…” risposi con un gemito e il cuore in gola: “lo
sono già tua.” Il nostro legame cresceva come un
fuoco che nessuno poteva spegnere. Passavamo le giornate
a camminare per Parigi, lungo la Senna, tra i banchi di
libri usati e polverosi, o nei giardini di Luxembourg,
dove ci sedevamo a guardare il cielo. “Un giorno.”
Mi disse una volta, sdraiato sull’erba, “I miei quadri
saranno in ogni museo. E tu sarai lì, in ogni tela, per
sempre.” “Non mi importa dei musei.” Risposi,
accarezzandogli i capelli. “Mi importa di noi, qui,
ora.”
La sera, tornavamo nei bistrot, dove Amedeo
beveva troppo, rideva troppo, viveva troppo. La sua
tubercolosi lo consumava, ma lui la ignorava, come se
l’arte fosse più importante della sua vita o che in
qualche modo potesse salvarlo. “Non hai paura?” Gli
chiesi una notte, mentre eravamo soli nel suo atelier.
“Di cosa?” Rispose, accendendo una sigaretta. “Della
malattia. Del futuro.” Mi guardò, serio per un
momento, poi sorrise. “Con te accanto, Jeanne, non ho
paura di niente. Tu sei il mio futuro.”
Lo amavo
per questo, per la sua furia di vivere, per la sua
innata trasgressione, per il modo in cui mi faceva
sentire parte di qualcosa di eterno. La mia famiglia,
però, non vedeva la poesia in lui. Per loro, Amedeo era
un fallito, un ebreo, un alcolista, un uomo indegno. Mi
imploravano di lasciarlo, mi minacciavano, ma io non
ascoltavo. “Non capiscono…” Dissi ad Amedeo, una
sera, mentre piangevo per le parole dure di mia madre.
“Non devono capire.” Rispose. Non sapevo bene il motivo
perché non dovessero capire, ma scelsi lui, contro
tutti.
Andammo a vivere insieme in una casa
decadente con i muri scrostati e il freddo che entrava
dai vetri rotti. Non importava: eravamo noi due, e
questo bastava. Ogni quadro che dipingeva era un atto
d’amore. Mi ritrasse più di venti volte, e in ogni opera
c’era un pezzo di noi: la nostra passione, la nostra
fragilità, il nostro sogno di eternità. Quando posavo,
non ero solo una modella: ero la sua ispirazione, la sua
ragione di creare. Disegnavo anch’io, in segreto, e lui
mi incoraggiava, guardava i miei schizzi con orgoglio.
“Hai talento, Jeanne. Non nasconderlo. Il mondo deve
vedere ciò che sai fare.” “Non sono come te. Tu sei
un genio.” “E tu sei la mia musa. E senza di te, non
sarei niente.”
Certo sì, la nostra vita insieme
non fu solo rosa e fiori, Amedeo era bello e la sua
bellezza non sfuggiva alle altre donne. Nonostante
vivessimo insieme la sua vita non cambiò affatto, sempre
in giro nei caffè e sempre pieno di donne e nuove
avventure. Prima di me aveva avuto una intesa relazione
con la poetessa Beatrice Hastings e fu per colpa sua se
Amedeo iniziò a fare uso pesantemente di alcol e droghe.
Ed anche durante la nostra relazione so che frequentava
due sue ex amanti come Simone Thiroux e Lunia
Czechowska.
Insomma continuava a frequentare i
caffè e a spendere denaro per i suoi vizi, lasciandomi
da sola a casa, ma il nostro amore rimaneva un mondo a
parte, un sogno anche se la realtà non smetteva di
inseguirci. Quando scoprii di essere incinta, nel 1918,
la paura si mescolò alla gioia. “Amedeo…” Gli dissi
tremante. “Avremo un figlio.” Lui mi guardò, gli
occhi lucidi, e mi abbracciò forte. “Un figlio nostro?
Sarà bello come te, e libero come me.”
Ma Amedeo
era malato, sempre più debole, e la mia famiglia non ci
dava pace. Fuggimmo in Costa Azzurra, sperando che il
sole e il mare potessero guarirlo. A Nizza nacque la
nostra bambina, Jeanne, il 29 novembre 1918. La tenni
tra le braccia e guardai Amedeo, che sorrideva
nonostante la tosse che lo tormentava. “È perfetta,
come te.” Disse lui. “È nostra.” Risposi con le
lacrime agli occhi. “E noi siamo una famiglia.”
Ma la felicità durò poco. Tornammo a Parigi, e la sua
salute crollò. Io ero di nuovo incinta, ma lui non ce la
faceva più. Lo vedevo spegnersi, e ogni colpo di tosse
era un coltello nel mio cuore. La notte del 24
gennaio 1920, Amedeo morì. Ero lì, accanto a lui, e
quando chiuse gli occhi, il mondo si spense con lui.
“Non lasciarmi, Amedeo…” Sussurrai, stringendogli la
mano, ma lui non poteva più rispondermi.
Nonostante avessi un figlio in grembo non potevo
immaginare una vita senza di lui, senza la sua voce, i
suoi quadri, il suo amore. E così il giorno dopo salii
al quinto piano della casa dei miei genitori. Guardai il
cielo, e lo vidi: Amedeo, che mi tendeva la mano,
sorridendo. “Vieni, Jeanne…” Sembrava dirmi. E io andai.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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