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I RACCONTI DI AMARSI CHE CASINO


VENEZIA DEL 500
Il racconto del cronista mascherato
Venezia, primavera del 1578. Io, Ludovico da Crema, cronista al servizio della Gazzetta Serenissima, ho ricevuto un incarico speciale: raccontare la vita delle carampane...



 

 
Venezia, primavera del 1578. L’aria umida dei canali si mescola al profumo di spezie scaricate dalle galee al porto, mentre la nebbia si dirada, svelando le calli brulicanti di mercanti, garzoni e donne ingioiellate.

Io, Ludovico da Crema, cronista al servizio della Gazzetta Serenissima, ho ricevuto un incarico speciale: raccontare la vita delle carampane, le prostitute di Venezia, nel cuore pulsante del loro mondo, il Ponte delle Tette. Non un resoconto qualunque, ma un’immersione vera, un viaggio tra le ombre di questa città che di giorno brilla di sfarzo e di notte si tinge di vizi.

Per non destare sospetti, mi travesto da cliente. Indosso un mantello di velluto nero, un cappello a tesa larga e un fazzoletto giallo annodato al collo con noncuranza, come fanno i forestieri in cerca di avventure. La mia meta è Ca’ Rampani, il palazzo trasformato in casa chiusa, dove le donne si affacciano alle finestre, mostrando il seno nudo per attirare i passanti.

Curioso, attraverso il Ponte delle Tette al tramonto, quando le campane della terza ora risuonano e le carampane, con i loro cappelli rossi e le chopine alte mezzo metro, si mescolano alla folla.
Il ponte è un caos di voci: mercanti che contrattano, marinai ubriachi che barcollano, e donne, alcune giovani e sfacciate, altre segnate dal tempo, che chiamano e invitano i passanti ad ammirare i loro seni prosperosi.

Mi avvicino a una finestra di Ca’ Rampani, una donna dai capelli rossi Tiziano, raccolti in una retina d’argento, mi fissa. Indossa una veste di raso verde, aperta sul petto, e un cappello rosso piumato. La guardo, penso sia adatta per il mio reportage.
«Forestiero, cercate compagnia?» Mi chiede con la voce musicale, come il suono di liuto.
«Forse sì, Madonna» Rispondo, fingendo un accento padovano. «Ma sono curioso di sapere chi siete, prima di… concludere affari.»
Lei perplessa, ma divertita, mi chiede: “Non vi bastano le mie tette?” Sorride agitandole e poi fermandole con tutte e due le mani.
“Beh sì…” Dico pensando che lei o un’altra sarebbero in fondo la stessa cosa.

«Girate l’angolo allora ed entrate nel primo portone alla vostra sinistra.»
Varcata la soglia, l’odore di muffa dei canali lascia spazio a un profumo di garofano e cera bruciata. L’interno di Ca’ Rampani è più sobrio di quanto immaginassi: un salone con arazzi sbiaditi, un tavolo di legno e alcune sedie. Lei mi accoglie nel salone: «Mi chiamo Isabella, e qui dentro non si parla solo di affari.» Poi mi conduce in una stanza più piccola, illuminata da candele. Credo sia il posto dove esercita il suo mestiere.
Sul letto, coperte di broccato, alle pareti, specchi incrostati di salmastro. Si siede su una sedia, togliendosi il cappello, e mi invita a fare lo stesso.
«Allora, padovano…» Inizia, scrutandomi. «Perché sei qui? Non hai l’aria di chi cerca solo carne.»
Deglutisco, mantenendo la maschera. «Voglio capire, Madonna Isabella. Si dice che le carampane siano il cuore segreto di Venezia. Com’è la tua vita?»

Isabella ride. «La mia vita? È un gioco di specchi, forestiero. Di giorno sono una regina, con i miei vestiti sgargianti, il mio raso che scintilla al sole, i miei capelli che fanno invidia alle cortigiane del Canal Grande. Ma di notte, quando rientro dopo la terza campana, sono solo una donna che paga le tasse alla matrona e frustate se sgarra.»
«Frustate?» Chiedo, fingendomi sorpreso.
«Oh, sì…» Risponde, accendendosi una pipa di terracotta, poi aggiunge. «La Serenissima ci tollera, ci coccola persino, perché teniamo gli uomini lontani dal “peccato contro natura”. Ma guai a uscire dal rigo. Non possiamo girare in gruppo, non possiamo bere nelle osterie, e in Quaresima o a Natale dobbiamo sparire, come fantasmi. E poi c’è il fazzoletto giallo, questo…» Dice, indicando il panno al suo collo. «Un marchio, perché tutti sappiano chi siamo.»
«Ma tu sembri… diversa.» Azzardo. «Non come le straniere malmesse che ho visto sul ponte.»

Isabella si alza, avvicinandosi a uno specchio. Si guarda, come se cercasse un ricordo. «Non sono sempre stata così. Ero una ragazza di Murano, figlia di un vetraio. Quando mio padre morì, la fame mi portò qui. All’inizio ero una di quelle malmesse che hai visto sul ponte, a vendere carne a etti per pochi soldi. Poi ho imparato. Ho capito che a Venezia il desiderio si vende come la seta: più lo fai brillare, più lo pagano. Del resto sotto questi vestiti siamo tutte uguali… e quello che tutti cercano è solo un taglio nella pelle… Ora sono una carampana di rango, ma non mi illudo: anche noi invecchiamo, e quando i capelli si fanno grigi, Ca’ Rampani ci sputa fuori e amici come prima…»

Mentre lei parla, mi guardo intorno. «Qui sembra una prigione dorata…» Commento, scribacchiando mentalmente ogni parola per il mio articolo.
«Lo è…» Dice, tornando a sedersi. «Ma sai qual è il vero paradosso? Qui, in questa città di mercanti, noi siamo merci, ma anche mercantesse. Io scelgo i miei clienti, forestiero. Non tutti entrano in questa stanza. E la matrona? Prende la sua parte, ma sono io a decidere quanto valgo e chi possa apprezzare le mie grazie. Non è libertà, ma è già qualcosa.»

Isabella si alza di nuovo, e con un gesto lento e teatrale, come se fosse sul palco di un teatro, inizia a slacciare la veste di raso verde. La stoffa scivola a terra, rivelando la sua lingerie: una camiciola di seta bianca, trasparente quanto basta per lasciare intravedere le curve del corpo, ornata da pizzi neri che si intrecciano sul seno e scendono fino all’ombelico. Sotto, un corsetto di velluto rosso, stretto in vita da nastri di seta, che esalta la sua figura. Le gambe, avvolte da calze di seta nera trattenute da giarrettiere ricamate con fili d’argento che sembrano scolpite. Non posso non ammirarla, ogni dettaglio è studiato, ogni laccio sembra un’arma di seduzione che parla di lusso e lussuria, lontana anni luce dalle straniere malmesse del ponte.

«Ti piace ciò che vedi, padovano?» Chiede, appoggiandosi al bordo del letto con un sorriso malizioso. «Ora parliamo di affari. Per un’ora con me, sono dieci ducati, ma non bado al tempo, se si sfora, la parte in più te la regalo. Ti offro compagnia, piacere e, se vuoi, una conversazione che non troveresti nemmeno nei palazzi del Canal Grande.» Si ferma un attimo, chiude gli scuri e in penombra riprende. «Se cerchi qualcosa di più… particolare, il prezzo sale a quindici. Ma bada bene, forestiero, niente di ciò che si sussurra nelle osterie, niente servizi contronatura, perché qui non si fa nulla che la Serenissima non approvi.»

«Dieci ducati?» Chiedo, fingendo di soppesare l’offerta. «È un prezzo da cortigiana d’alto bordo.»
«Lo è.» Risponde, incrociando le braccia. «Io non sono una di quelle che si accontentano di due soldi. Qui hai il meglio, forestiero. E se non puoi permetterlo o cerchi qualcosa di volgare, la porta è là e potrai sfogare i tuoi bisogni con una di quelle sul ponte.»

Isabella si avvicina con una grazia che sembra danzare nell’aria, ogni movimento fluido, come se il suo corpo fosse abituato a comandare gli sguardi senza mai alzare la voce. La luce delle candele gioca sulla sua pelle, accendendo riflessi dorati che esaltano la morbidezza del seno. Sento il cuore accelerare, il mio respiro si fa corto, non più solo per il gioco della finzione, ma per un’eccitazione che mi coglie impreparato. Certo sì, mi sono finto cliente, ma non avevo previsto il mio trasporto. Lei si avvicina e poggia le sue labbra sulle mie, poi le socchiude lasciando a me l’ardire di fondermi in un bacio liberatorio.

«Sai, padovano… di solito non bacio i clienti. Le labbra sono un dono troppo intimo, qualcosa che si concede solo per amore, non per ducati, ma tu sei diverso, ho capito subito che non sei qui per il solo piacere della carne.» Sorride ed io non posso non ringraziarla per quel gesto, pensando che anche le carampane hanno un loro confine che nemmeno il mestiere della seduzione permette di valicare.

Con un gesto lento Isabella scioglie la retina d’argento che trattiene i suoi capelli. Le ciocche rosse brillano come un tramonto veneziano liberandosi in una cascata che scivola sulle spalle e sul petto. Ogni ciocca sembra viva, mossa da un respiro proprio, ed io non posso fare a meno di allungare le mani, rapito come sono dalla sua morbidezza che mi invita a toccarla. Lei lo nota, e con un sorriso complice e prendendomi una mano con una delicatezza che contrasta col suo mestiere, mi chiede: «Vuoi toccare, tesoro?»

Ormai lontano dal ruolo del cronista, lascio che le mie dita sfiorino la sua pelle. È morbida, come seta appena tessuta, calda sotto il mio palmo, e ogni contatto mi accende. Le mie mani scivolano lungo il suo braccio fermandosi sui suoi fianchi generosi, dove il corsetto di velluto rosso segna il confine tra la seta del corsetto e la pelle nuda. La sensazione è inebriante come se stessi toccando un’opera d’arte che respira.

Isabella mi guarda, i suoi occhi verdi brillano nella penombra, e si lascia sfuggire un piccolo sospiro, quasi un gioco per alimentare la mia eccitazione, oppure, mi illudo, qualcosa che sente davvero. «Ti piace, vero?». Sento il sangue pulsare nelle tempie, il corpo teso come una corda di liuto. Ogni dettaglio di lei è un invito che mi trascina lontano dalla mia missione.
Scuoto la testa, dal cronista che voleva solo parole per il suo articolo, mi ritrovo ora a lottare contro un desiderio che mi rende umano.

Lei si siede sul bordo del letto con un leggero movimento che schiude la sua grazia. «Vieni, forestiero. Il Paradiso ti attende!» Dice sfidandomi. «Non serve fingere con me. So cosa vuoi, anche se non lo dici.» Ormai confuso mi avvicino con il mantello di velluto nero che scivola a terra e la mia eccitazione ormai impossibile da nascondere.

Isabella, con un gesto lento, mi accoglie, la stanza, con i suoi specchi incrostati e le coperte di broccato, si appanna ai miei occhi, lasciandomi sospeso nella magia del momento.
«Dieci ducati per un’ora…» Ripete lei indicandomi la soglia, ma il tono è diverso ora, più intimo, come se anche lei fosse catturata dall’alchimia di quegli istanti. «O forse, padovano, vuoi qualcosa di più? Dimmi, cosa cerchi davvero? Ma ti ripeto l’anima non è in vendita!» Ormai sono nelle sue mani e le sue gambe sono di una morbidezza spaventosa. Mi rendo conto che il mio racconto non sarà mai solo un articolo. Isabella, con la sua grazia, la sua morbidezza, i suoi capelli sciolti, il suo corpetto e la sua seduzione ha reso tutto così facile e nel contempo magico ed io per la prima volta non so cosa scrivere se non quei gemiti caldi che riempiono tutta la stanza...

Mentre il suono delle campane batte la terza ora, Isabella si raddrizza raccogliendo la veste, ma senza indossarla. «La terza ora! Devo tornare alla finestra, o la matrona mi farà pentire. Ma dimmi padovano, sei soddisfatto, ti è piaciuto? Tornerai?»
Sorrido, scuotendo la testa. «Non lo so, Madonna. Ma porterò con me la tua storia.»

Esco da Ca’ Rampani, mentre riattraverso il Ponte delle Tette, lo sguardo di Isabella alla finestra mi segue, mescolandosi al brusio delle carampane e al lamento dei canali. Torno alla mia locanda, prendo la penna e inizio a scrivere. Sì vero, non sarà solo un articolo, ma un ritratto di Venezia, una città che brilla di luci e si nutre di ombre.

 



ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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