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STORIE DI ROMA
 

IL DIARIO SEGRETO DI GIULIA MINORE
Moglie infelice, amante appassionata
Nipote di Augusto Giulia racconta la sua vita proibita: dalla passione travolgente per il suo amante Decimo Giunio Silano fino al dolore dell'esilio eterno sulle isole Tremiti.
(Vipsania Giulia Agrippina 19 a.C. – Isole Tremiti, 28 o 29)
 

 
 
Kalendis Ianuariis, anno ab Urbe condita 760 (1 gennaio 7 d.C.)
Oggi ho compiuto ventisei anni. Il nonno Augusto mi ha mandato un messaggio attraverso i suoi emissari: parole di augurio formali, ma fredde come il marmo del suo palazzo. Vivo ancora nella nostra casa sul Palatino, con Emilio Paolo, mio marito. Abbiamo iniziato i lavori per la villa in campagna, un luogo di pace lontano dal caos di Roma.

Ho filato la lana per ore, come mi ha insegnato il nonno da bambina, per dimostrare la mia virtù di matrona romana. Eppure, mentre le dita muovevano il fuso, la mente vagava verso versi letti di recente: quelli di Publio Ovidio Nasone, che descrive l'amore come un'arte, un gioco di seduzione. "Fallite fallentes!" Dice lui. Ingannate chi vi inganna. Roma è piena di tentazioni, e io, nipote dell'imperatore, devo essere irreprensibile.

Idibus Martiis, anno 761 (15 marzo 8 d.C.)
Emilio è spesso assente, impegnato in affari senatoriali. Ho incontrato Decimo Giunio Silano a un banchetto. I suoi occhi mi hanno seguito per tutta la sera. Abbiamo parlato di poesia, di Ovidio e delle sue elegie. Lui rideva delle mie citazioni dall'Ars Amatoria: "Approfitta dell'età, che scivola via e non ne segue una così bella quanto fu bella la precedente. Ci sarà un tempo in cui tu, che ora lasci fuori casa gli amanti, dormirai, fredda e vecchia, nella notte solitaria e non troverai al mattino la soglia cosparsa di rose»."
Ho riso anch'io, ma dentro sentivo un brivido. Non è amore, è avventura, come dice il poeta. Roma pulsa di vita dopo le guerre civili: lusso, ozio, piaceri. Perché negarseli? Il nonno predica virtù antiche, ma io sono giovane. Ho filato lana oggi, come sempre, per registrare la mia giornata virtuosa. Ma le parole non dicono tutto.

Nonis Iuniis, anno 761 (7 giugno 8 d.C.)
È successo. Con Decimo Giunio Silano, in segreto. Il cuore batte forte al ricordo. Non è stato come con Emilio, c’era fuoco e passione che è diventata in un attimo reale. Sì è accaduto ciò che da settimane covavo nel cuore come un segreto proibito. Emilio era partito per le sue ville in Campania, lasciando la casa sul Palatino silenziosa e vuota. Avevo invitato pochi amici fidati per una cena col pretesto di leggere versi nuovi.

Ovidio era presente, i suoi occhi brillavano, come se sapesse. Forse ha visto troppo, o forse ha favorito l'incontro perché tra loro c’era Decimo e i suoi occhi mi avevano cercata per tutta la sera, tra un sorso di Falerno e una citazione dall’Ars Amatoria. Quando gli altri se ne sono andati, siamo rimasti soli nel peristilio, sotto il cielo di giugno punteggiato di stelle.

L’aria era calda, profumata di rose e di mirto. Le torce nei bracieri proiettavano ombre danzanti sulle colonne. Decimo si è avvicinato piano, come chi teme di spaventare un cerbiatto. Mi ha sfiorata con un tocco lieve della mano. «Giulia.» Ha sussurrato. «Da mesi sogno questo momento.» Non ho risposto con parole. Gli ho afferrato la mano e l’ho condotto attraverso l’atrio, oltre il tablino, fino al mio cubicolo. Le ancelle erano state congedate con un pretesto; la casa era nostra.

Ho chiuso la porta. La luce della lucerna a olio disegnava linee dorate sul suo volto. L’ho baciato per prima, con una fame che non sapevo di avere. Le sue labbra erano calde, esperte, diverse dal dovere freddo dei baci coniugali. Lui ha sciolto la stola che mi avvolgeva, facendola scivolare a terra come un velo inutile. Indossavo solo la tunica intima di lino finissimo; lui l’ha sollevata piano, poi ha ammirato il mio corpo nudo. Insieme ci siamo distesi sulle lenzuola fresche di lavanda. Le sue dita sul mio seno, le mie gambe vogliose aperte all’amore. Sentivo il bisogno di concedermi e gli ho slacciato la tunica, accarezzandogli il petto, le spalle larghe segnate da vecchie cicatrici di campagne militari.

Non c’era fretta: ci siamo presi tutto il tempo che Roma ci negava. Quando infine ci siamo uniti, è stato come un’onda lenta che sale e travolge. Ogni movimento era una risposta, ogni sospiro una promessa. Lui è entrato in me ed io ad ogni colpo lo ringraziavo per quanto mi sentissi finalmente donna. Sentivo il suo respiro sul collo, il calore del suo corpo che si fondeva col mio. Non era il dovere di una matrona, non era l’obbedienza a un marito: era desiderio puro, quello che Ovidio descrive nei suoi versi: l’avventura che brucia e consuma.
Ridevamo piano tra un bacio e l’altro, sussurrandoci cose che il giorno dopo sarebbe stato pericoloso ripetere. Mi ha chiamato «mia domina» ed io «mio conqueror».

Quando l’alba ha iniziato a tingere di rosa le tende, siamo rimasti abbracciati, sudati, soddisfatti. Lui tracciava cerchi lenti sul mio seno, io gli accarezzavo i capelli. «Decimo dimmi che non sarà l’unica volta, dimmi che tornerai da me.» Gli dissi. «Ogni volta che vorrai.» Ha risposto baciandomi la fronte. Poi si è rivestito in silenzio ed è uscito dalla finestra sul giardino, svanendo nell’ombra prima che i servi si svegliassero. Ora sono sola nel letto ancora caldo del suo profumo. Il cuore batte forte, un misto di gioia e terrore. So che è pericoloso. So che il nonno Augusto non perdona. Ma stanotte ho vissuto, davvero vissuto, per la prima volta. Se domani dovessi pagare per questa notte, che almeno valga il prezzo.
Ovidio ne è stato testimone, almeno in parte, ho pena per lui… Dicono che il suo carmen sia immorale, ma lui canta la Roma vera, quella dei portici, dei teatri, dei convivi. Non le matrone, ma donne libere nei piaceri. Ho promesso a Decimo discrezione. Il nonno non deve sapere.

******

Non è finita quella notte. Non poteva finire lì. Non lo nego! Ieri, al tramonto, Decimo è tornato. Si è seduto vicino al tempietto di Venere. Mi aspettava seduto sulla panchina di marmo, avvolto in un mantello scuro, con un sorriso che mi ha fatto tremare le ginocchia prima ancora che mi toccasse. Non abbiamo parlato molto. Le parole erano superflue. Mi ha preso la mano e mi ha condotta di nuovo nel mio cubicolo, ma questa volta con una fretta diversa, come se il tempo ci inseguisse.

Si è liberato del mantello in un gesto solo. Io ho lasciato cadere la stola senza nemmeno scioglierla. Ci siamo guardati un istante, nudi sotto la luce calda, e ho visto nei suoi occhi qualcosa di selvaggio, di possessivo, che mi ha fatto sentire completamente sua. Questa volta non c’era tenerezza lenta. C’era fame. Mi ha spinto contro la parete, le mani forti sui miei fianchi, la bocca che reclamava la mia con urgenza. Mi ha sollevato, le mie gambe intorno alla sua vita, e mi ha presa lì, in piedi, senza aspettare il letto.

Ho soffocato un grido contro la sua spalla, mordendogli la pelle per non farmi sentire dalle guardie lontane. Poi mi ha portata sul letto, come una preda conquistata. Era padrone del mio corpo, sì: decideva lui il ritmo, lui dove toccare, dove mordere, dove far scorrere la lingua fino a farmi inarcare e tremare. Mi faceva volare, ogni tocco era una promessa, ogni spinta un comando dolce e irresistibile. Mi ha girata, mi ha preso dietro, le mani intrecciate ai miei polsi sopra la testa, sussurrandomi all’orecchio cose che mi hanno fatto arrossire anche nel buio. «Sei mia, Giulia. Solo mia.»

E io lo ero. Completamente. Non c’era più Roma, non c’era Augusto, non c’era Emilio. Solo lui che entrava in me, che mi riempiva, che mi portava oltre ogni limite fino a farmi scoppiare in un piacere così intenso da farmi piangere silenziosamente contro il cuscino. Quando è finito, siamo rimasti avvinghiati, sudati, ansimanti. Mi ha accarezzato i capelli a lungo, baciandomi la nuca, le spalle, come se non volesse mai smettere di toccarmi. «Sono pazzo di te.» Ha sussurrato. «Non posso stare senza questo corpo, senza questa pelle, senza il tuo sapore.» E io ho sorriso nel buio, sapendo che era vero. Ora è andato via di nuovo, svanito nell’ombra come un sogno. Ma so che tornerà. E io lo aspetterò, con il cuore che batte forte e il corpo ancora fremente del suo possesso. Che gli dèi ci proteggano, perché questo fuoco ci consumerà entrambi.

Pridie Kalendas Septembres, anno 761 (31 agosto 8 d.C.)
Il mio ventre si arrotonda. Il bambino è di Decimo, non può essere di Emilio, lui è partito da mesi. La paura mi stringe il petto. Augusto ha occhi ovunque. Stamane ho sentito delle voci: il poeta Ovidio è stato convocato al palazzo. Forse mio nonno gli vuole chiedere qualcosa di quella prima notte, forse lui ha scritto troppo. Il nonno odia lo scandalo, specialmente nella sua famiglia. Mia madre Giulia è ancora esiliata a Ventotene per i suoi amori. Non voglio fare la sua fine, non voglio che mi tocchi la stessa sua sorte…

Kalendis Octobribus, anno 761 (1 ottobre 8 d.C.)
È finita. Augusto ha scoperto tutto. Mi ha convocata: il suo volto di pietra, la sua voce come lame affilate di coltelli. "Adulterio!" Ha gridato. Decimo ha fatto in tempo a fuggire. Ovidio... dicono sia stato relegato a Tomi, ai confini del mondo, per il suo "error", non so bene se sia accusato di aver visto o con i suoi versi di aver favorito il nostro legame. Emilio, mio marito, è accusato di connivenza, ossia di aver favorito il legame con il mio amante. Ma non è vero, lui non sapeva nulla, molto probabilmente Augusto ha preso a pretesto la mia infedeltà per scongiurare qualche attività sovversiva da parte di mio marito. Lui verrà a breve giustiziato! Oddio, tutta colpa mia! Chiedo perdono agli Dei. Non so che fine farò…

La sentenza di mio nonno non ammette appelli. Come mia madre sono stata relegata in una piccola isola rocciosa, ma non a Ventotene, bensì a Tremerus, nell'Adriatico, lontana da Roma. Partirò domani. Niente vino, niente lusso, solo guardie e solitudine. Il nonno ha ordinato: il bambino, se nascerà, sarà esposto sulle rocce.

Idibus Novembribus, anno 762 (15 novembre 9 d.C.), da Tremerus
Sono qui da settimane. L'isola è aspra, venti freddi dal mare, rocce calcaree e poche alberi. Vivo in una villa modesta, concessa dalla nonna Livia, che mi manda sussidi. I soldati vigilano: nessun uomo può avvicinarsi senza permesso. Filo la lana tutto il giorno, come da bambina, per passare il tempo. Il ventre è pesante. Penso a Roma, ai banchetti, al lusso, alle risate con Decimo. Ai versi di Ovidio, che ora piange il suo esilio nei Tristia. Siamo puniti per aver vissuto la pace che Augusto ha conquistato: piaceri invece di antiche virtù.

Kalendis Ianuariis, anno 763 (1 gennaio 10 d.C.), Tremerus
Il dolore mi spezza il cuore, in un modo che nessuna parola potrà mai raccontare interamente. Le doglie sono iniziate all’alba, con il mare in tempesta che sbatteva contro le rocce dell’isola come un lamento degli dèi. La levatrice mandata da Livia – una donna greca taciturna di nome Myrrha – è rimasta con me tutto il giorno nella piccola stanza della villa. Non c’erano ancelle fidate, solo due guardie fuori dalla porta e il vento che urlava tra le crepe dei muri. Ho partorito al tramonto. Una figlia. Piccola, perfetta, con un ciuffo di capelli scuri e le mani minuscole che si stringevano come se già cercassero di aggrapparsi alla vita. L’ho tenuta al petto per un istante soltanto, il tempo di un battito. Piangeva piano, un suono così dolce e fragile che mi ha trafitto il cuore più di qualsiasi lama.

Myrrha ha cercato di avvolgerla in un panno pulito, ma la guardia è entrata senza bussare. Portava l’ordine sigillato di Augusto: il bambino, nato in esilio da una madre adultera, era da considerarsi illegittimo. Non doveva vivere. Ho urlato con tutta me stessa. Per la prima volta da quando sono qui, ho urlato con tutta la voce che avevo in corpo. Mi sono aggrappata alla bambina, l’ho stretta contro di me, le ho baciato la fronte umida, ho sentito il suo odore di latte e di vita appena nata. «È mia! È mia figlia!» Gridavo, mentre le lacrime mi accecavano.

La guardia me l’ha strappata dalle braccia con una forza che non dimenticherò mai. Le sue mani grandi hanno chiuso il piccolo corpo nel panno, come se fosse un oggetto qualunque. Myrrha ha abbassato lo sguardo, incapace di aiutarmi. Io mi sono alzata dal letto, ancora sanguinante, debole, e ho cercato di seguirlo barcollando fino alla porta. Mi hanno trattenuta. Due braccia forti mi hanno bloccata mentre lui usciva nella notte. L’ho visto dalla finestra, illuminato dalla torcia. Ha camminato fino al promontorio più esposto dell’isola, dove le rocce scendono a picco sul mare in burrasca. Là, secondo l’antica usanza dell’expositio, ha deposto la mia bambina su una pietra nuda, senza protezione, senza pietà. Il vento gelido di novembre l’ha investita subito. Il suo pianto si è fatto più debole, portato via dalle onde.

Sono crollata in ginocchio sul pavimento freddo. Non avevo più voce per urlare. Solo singhiozzi che mi scuotevano il corpo come convulsioni. Myrrha mi ha coperta con una coperta, mi ha fatto bere un po’ d’acqua, ma nulla poteva fermare il vuoto che mi si apriva dentro.

Ora è notte fonda. Il mare continua a ruggire. Non sento più il suo pianto. Solo il silenzio terribile che segue. Hanno ucciso la mia figlia perché ero io la madre. Perché ho amato Decimo. Perché ho osato vivere invece di esistere. Se c’è un aldilà, piccola mia, perdonami. La tua madre non ha avuto la forza di salvarti. E tu, Augusto, che ti dici padre della patria, che hai predicato virtù e pietas per tutta la vita, possa tu un giorno sentire questo stesso vuoto nel cuore.

Nonis Maiis, anno 782 (7 maggio 29 d.C.), Tremerus
Vent'anni qui. L'isola è ancora una prigione: mare ovunque, uccelli che gridano come lamenti. Ricordo la leggenda di Diomede, sepolto qui, i suoi compagni mutati in uccelli. Forse anch'io diventerò un'ombra. Tiberio è imperatore ora, ma nessuna grazia. Livia è morta, i sussidi ridotti. Mi sento stanca, i capelli grigi. Roma è lontana, ormai è solo un sogno. Ho filato lana fino all'ultimo, per riempire i giorni vuoti. Morirò qui, seppellita sull'isola, lontano dal Mausoleo. Nessuna rosa sulla soglia, come diceva Ovidio. Solo vento e mare. Addio.


 

 


 
IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA

 






 
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