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STORIE DI ROMA 
DAL DIARIO DI GIULIA MAGGIORE
La scandalosa Giulia
Figlia di Augusto, elegante e
raffinata, bella, corteggiata, ricchissima, colta. Ebbe tre mariti e
diversi amanti, amava il lusso ed era amata dal popolo, ma il padre
non le perdonò mai la sua sregolatezza e i suoi numerosi tradimenti
(ottobre 39 a.C. – 14)...

Il
giorno in cui venni al mondo, Roma pianse due volte. La
prima per il pianto di una neonata che nessuno voleva
accogliere con gioia, la seconda per il rotolo di
divorzio che già veniva sigillato nella casa di mia
madre Scribonia sul Palatino. Era l’ottobre del 39 a.C.
Mio padre, Gaio Ottavio, allora trentenne e già padrone
del mondo senza ancora saperlo, si trovava nella villa
quando le levatrici annunciarono: «È una femmina». Non
ci fu silenzio. Ci fu un tonfo. Quello del sigillo
d’argilla che mio padre spezzò con troppa forza contro
il tavolo, facendo cadere la tavoletta cerata dove aveva
scritto il nome che avrebbe voluto dare a un figlio
maschio.
«Giulia»! Disse soltanto, come se
sputasse una sentenza. Poi uscì senza guardarmi. Mia
madre, che aveva trentasei anni e già due matrimoni alle
spalle, mi strinse al petto ancora sporco di sangue e
placenta. Singhiozzavo, ma non per me, ma per ciò che la
mia nascita significava. Tre mesi dopo, esattamente
novantatré giorni, mio padre lasciò mia madre e sposò
Livia Drusilla, nonostante fosse incinta di un altro
uomo, Tiberio Claudio Nerone. Eppure mio padre la volle
lo stesso, la strappò al marito legittimo con la stessa
freddezza con cui aveva strappato me a mia madre.
Ottenne la “podestà plena” su di me per legge: mia madre
Scribonia non poteva più nemmeno toccarmi senza il suo
permesso.
Così crebbi nella casa del Palatino, i
miei compagni di giochi erano i figli della mia matrigna
Livia che aveva avuto dal precedente matrimonio. Ossia
Tiberio più grandicello e Druso appena nato. Livia mi
guardava come si guarda un errore che qualcun altro ha
commesso. Mio padre mi guardava poco, e solo per
controllare se crescevo abbastanza bella da servire ai
suoi progetti.
Una sera d’estate, mentre le
cicale cantavano oltre le mura, lo sentii dire a Marco
Agrippa, con quella voce bassa che usava quando parlava
di cose serie: «Se fosse stato un maschio, oggi avrebbe
già la toga praetexta. Invece ho una figlia. Pazienza.
Anche le figlie servono, se sanno stare al loro posto».
Agrippa rise, una risata da soldato, e io, nascosta
dietro una colonna del peristilio, strinsi i pugni così
forte che le unghie mi lasciarono mezzelune rosse nei
palmi. Da quel momento decisi che non avrei mai occupato
il posto che mi avevano assegnato. Avrei occupato tutto
lo spazio che volevo, anche a costo di far crollare il
tetto sulle loro teste. E così cominciò la mia vita, la
vita di Giulia, figlia di Augusto, nipote ripudiata di
Roma, donna che il mondo avrebbe amato odiare e odiato
amare.
******
A tre anni non sapevo
ancora parlare bene, ma già sapevo che il mio corpo non
era mio. Era una moneta di scambio che mio padre teneva
nel borsello, in attesa del giorno in cui avrebbe
comprato con me una provincia, un esercito, una pace
duratura. E così una mattina di primavera del 36 a.C.,
mio padre mi fece portare nel tablino dove c’erano solo
uomini: lui, Agrippa, Mecenate e, seduto in fondo su una
sedia troppo grande per il suo corpo di bambino, Marco
Antonio Anthyllo. Lui aveva dieci anni, capelli rossi
come suo padre, occhi inquieti come un puledro chiuso in
gabbia.
Mi misero in piedi su uno sgabello perché
arrivassi all’altezza degli occhi del mio futuro sposo.
Indossavo una tunichetta bianca con il bordo porpora che
Livia aveva fatto cucire apposta. Mi avevano pettinato i
capelli con l’olio e divisi in sette trecce, come una
bambina grande. «Guarda la tua sposa, Anthyllo». Disse
mio padre con quel tono che non ammetteva repliche. Il
bambino mi fissò. Io lo fissai. Lui arrossì fino alle
orecchie. Io gli feci la linguaccia. Tutti risero, anche
Marco Antonio che era appena arrivato da Brindisi con la
flotta, odoroso di salsedine e vino greco. Batté una
mano sulla spalla di mio padre. «Augusto, tua figlia ha
già più carattere di mio figlio.» Fu firmato lì, su una
tavola di cedro profumato d’Oriente: Giulia, figlia
di Gaio Ottavio Cesare, promessa in sposa a Marco
Antonio Anthyllo, figlio di Marco Antonio triumviro.
La dote: la pace tra i due uomini più potenti del
mondo. Il mio corpo: la colla che avrebbe dovuto tenere
insieme l’impossibile. Anthyllo mi portò un regalo: un
anellino d’oro con un piccolo scarabeo egizio. Me lo
infilò al dito con mani tremanti. Era troppo grande, ma
lo portai lo stesso per tre giorni, finché Livia non me
lo tolse la sera, con un sorriso che non arrivava agli
occhi. «I fidanzamenti dei bambini sono come i trattati
tra barbari». Mi disse mentre mi spazzolava i capelli.
«Servono solo finché non si trova un accordo migliore.»
Aveva ragione.
Quattro anni dopo, quando le navi
di mio padre e quelle di Marco Antonio si scontrarono ad
Azio, io avevo sette anni e giocavo con le bambole nella
villa di Miseno. Sentii le ancelle sussurrare che
Cleopatra era fuggita, che Antonio si era ucciso, che
Anthyllo era stato decapitato per ordine di mio padre.
Avrebbe dovuto compiere a breve quindici anni. Non
piansi. Non sapevo ancora piangere per gli altri. Ma
quella notte sognai il bambino dai capelli rossi che mi
metteva l’anello al dito, e nel sogno l’anello era
diventato una catena di ferro che mi stringeva il collo.
Il risveglio fu peggiore del sogno: Livia entrò nella
mia stanza con un vassoio di focaccine al miele.
«Mangia, Giulia. Oggi è un giorno di festa. Roma ha
vinto.»
Guardai l’anello che non c’era più, il
dito nudo, e capii che la pace di Brindisi era durata
quanto un battito di ciglia di una bambina di tre anni.
E che il mio primo matrimonio era finito prima ancora di
cominciare, con la testa del mio sposo infilata su una
picca davanti alle mura di Alessandria. Da allora, ogni
volta che mio padre mi prometteva a qualcuno nuovo, io
pensavo ad Anthyllo. E sorridevo. Perché avevo imparato
molto presto che a Roma le bambine di tre anni possono
essere armi più pericolose di qualunque legione. Basta
aspettare che crescano.
******
Al
tempo non mi rendevo conto di essere figlia di un uomo
molto potente. All’inizio credevo che tutti i padri del
mondo avessero il diritto di far decapitare un ragazzo
di 15 anni solo perché portava il nome sbagliato.
Credevo che tutti i padri potessero entrare in Senato e
far tremare quattrocento toghe solo alzando un
sopracciglio. Credevo che fosse normale svegliarsi una
mattina e scoprire che la tua famiglia, da un giorno
all’altro, era diventata discendente di Venere.
Una sera mio padre rientrò tardi nella villa del
Palatino. Lo sentii salire le scale a passi lenti, come
se portasse sulle spalle tutto il peso del Tevere. Entrò
nella mia stanza, cosa rarissima, si sedette sul bordo
del letto e mi guardò a lungo. Io finsi di dormire, ma
sbirciavo tra le ciglia. «Giulia». Disse piano. «Da
domani non sarò più Gaio Ottavio, figlio di un banchiere
di Velletri che prestava soldi a usura. Sarò Gaio Giulio
Cesare Ottaviano, figlio del Divo Giulio, nipote di
Venere di Enea, sangue di Venere. E tu sarai Giulia
Caesaris filia. Ricordalo». Poi mi baciò la fronte, una
cosa che non aveva mai fatto, e uscì.
Il giorno
dopo Roma era piena di banditori che gridavano la nuova
verità: il ragazzo magro che era stato adottato nel
testamento di Cesare, quindi era figlio di un dio. Il
banchiere di Velletri era sparito, cancellato come una
riga su una tavoletta cerata. Io capii solo che mio
padre poteva cambiare il proprio passato con la stessa
facilità con cui cambiava le mie balie.
Quel
giorno mi portarono sul palco imperiale. Sotto di noi,
migliaia di persone gridavano «Caesar Divi filius!» e
gettavano fiori. Mio padre mi teneva la mano al suo
fianco, come si tiene uno scudo prezioso. Una vecchia
matrona, vedendomi, esclamò forte: «Guarda! La nipote di
Venere in persona»! Io mi voltai verso mio padre e gli
chiesi: «Papà, è vero che il tuo vero padre faceva il
banchiere a Velletri»? Ci fu un silenzio di ghiaccio.
Anche le trombe smisero di suonare per un istante. Mio
padre non batté ciglio. Mi strinse la mano un po’ più
forte e rispose abbastanza forte perché tutti
sentissero: «No, piccola mia. Il mio unico padre è stato
ucciso alle idi di marzo. E ora siede tra gli dèi». La
folla scoppiò in un applauso delirante. In quell’istante
capii che mio padre poteva cancellare un intero albero
genealogico con una sola frase e che, essere figlia di
un uomo così potente, significava vivere dentro una
storia che lui riscriveva ogni mattina, e guai a chi
ricordava la versione precedente.
Da allora smisi
di fare domande. Ma dentro di me custodii sempre, come
un piccolo talismano segreto, il nome vero di mio nonno:
Gaio Ottavio, usuraio di Velletri, morto di gotta quando
mio padre aveva quattro anni. Perché anche le figlie
degli dèi, a volte, hanno bisogno di sapere da quale
fango sono nate, prima che qualcuno lo ricopra d’oro e
lo chiami divino.
******
Ormai ero
cresciuta e mi rendevo conto benissimo che la mia
adolescenza era diversa da quelle delle mie coetanee. Mi
svegliavano quando era ancora buio. Alle prime luci
dell’alba Livia in persona veniva nella mia stanza con
una lucerna in mano e mi tirava giù dal letto. «Le
principesse romane filano la lana prima di pensare ai
poeti». Diceva, era il suo saluto quotidiano. E così
imparai ben presto a cardare, a filare, a tessere. Le
mie mani, che un giorno avrebbero stretto coppe d’oro e
amanti proibiti, prima impararono a sanguinare per le
schegge del fuso. Sedevamo tutte insieme nell’atrio
della casa, in cerchio: io, le mie due ancelle libere,
Marcella maggiore, Marcella minore, Antonia maggiore,
Antonia minore, e persino la dolce Ottavia, mia zia, che
dopo Azio, rimasta vedova di Antonio, era venuta a
vivere da noi con i suoi cinque figli e il suo dolore
ancora fresco.
Sette donne, sette fusi, sette
rocchi di lana grezza. Livia passava tra noi come un
centurione, controllava la tensione del filo, pizzicava
le orecchie a chi lo faceva troppo grosso. «Se la figlia
di Cesare non sa filare meglio di una schiava, come
pretenderà di governare una casa imperiale»?
Mio
cugino Marco Claudio Marcello di quattro anni più grande
di me, l’unico maschio oltre a Iullo, aveva il permesso
di studiare con il grammatico greco mentre noi
lavoravamo. Ogni tanto si affacciava sulla soglia, mi
faceva una smorfia e spariva. Era bello come un Apollo
di Prassitele e già sapeva di essere l’erede designato.
Io lo odiavo e lo adoravo nello stesso respiro. La zia
Ottavia non parlava quasi mai di suo marito Antonio e
della sua amante Cleopatra.
Livia ci imponeva
anche di cucinare, di macinare il farro, di fare il
garum in piccole anfore. Una volta mio padre entrò in
cucina mentre stavo impastando il pane e mi trovò con la
farina fino ai gomiti. Si fermò sulla soglia, sorpreso.
Poi sorrise. «Ecco la vera figlia di Roma». Disse. «Non
quella che indossa la stola di Coa, ma quella che sa
fare il pane se domani il mondo crollasse». Quella
frase me la ricamai dentro come una medaglia. Ma la
sera, quando Livia chiudeva la porta del gineceo
cambiava musica. Allora arrivavano i precettori greci,
quelli veri. Filosofia, retorica, poesia. Imparai Omero
a memoria prima di Saffo, ma Saffo la imparai lo stesso,
di nascosto, con Antonia minore che mi faceva la guardia
alla porta. Imparai a suonare la cetra così bene che
persino Apollo si sarebbe voltato. Imparai a parlare con
gli occhi, a sorridere con mezza bocca, a far cadere una
spilla “per caso” in modo che un uomo si chinasse a
raccoglierla.
Perché sì, mi insegnavano
l’austerità, ma mi insegnavano anche il potere. E in
mezzo a tutto questo, noi bambine cresciute troppo in
fretta diventammo una piccola repubblica segreta. Ci
raccontavamo bugie, ci scambiavamo nastri, ci giuravamo
amicizia eterna sul sangue di un dito punto. Marcella
maggiore mi insegnò il primo bacio, con la mano, dietro
un pilastro. Antonia minore mi prestò il suo primo libro
di poesie erotiche. Iullo Antonio, che aveva la mia età,
mi difendeva quando Livia era troppo dura.
E
Marcello… Marcello una sera d’estate, mentre le cicale
urlavano e Roma dormiva, mi prese per mano nel giardino
e mi portò dietro la fontana di marmo. «Un giorno sarai
mia moglie». Mi sussurrò. «E allora non filerai più la
lana. Te lo giuro». Avevo quattordici anni. Lui
diciotto. Non gli credetti, ma gli permisi di baciarmi
lo stesso, perché anche le figlie di Cesare, educate a
filare la lana come contadine, a volte hanno bisogno di
credere che esista un angolo del mondo dove non ancora
conquistato da Livia e da suo padre. Quell’angolo durò
poco. Ma la lana, quella, la filo ancora dentro di me,
ogni volta che ricordo quelle mattine fredde, le dita
blu, il profumo di pane appena sfornato e il suono dei
sette fusi che giravano all’unisono come un piccolo
esercito di donne destinate a comandare il mondo senza
mai poterlo ammettere.
******
Poi le
cose cambiarono… A quattordici anni mi tolsero il fuso
dalle mani e mi diedero in mano uno specchio d’argento.
«Basta lana grezza». Disse Livia una mattina, entrando
nella mia stanza con due schiave che portavano una
cassapanca di cedro. «Da oggi indosserai solo seta di
Cos trasparente come nebbia. Da oggi imparerai a
camminare in modo che ogni passo faccia voltare un
senatore».
E così fu. La mia matrigna Livia fece
in modo che ricevessi la giusta educazione per una
ragazza romana aristocratica. I precettori cambiarono.
Arrivarono le maestre di portamento, ex cortigiane
liberate che avevano servito Messalina la vecchia, le
parrucchiere di Capri, il medico greco che mi spalmava
il viso con latte d’asina e miele di Imetto perché la
pelle restasse «come quella di Venere appena uscita dal
mare». Imparai a entrare in una sala senza far rumore,
ma facendo rumore dentro ogni petto maschile. Imparai a
ridere coprendomi la bocca con due dita, lasciando
intravedere solo l’angolo degli occhi. Imparai a dire
«no» con un sorriso che significava «forse domani».
E mentre Livia affilava la mia bellezza come una
lama, mio padre affilava i miei matrimoni come frecce.
Non avendo eredi diretti maschi, mi propose una serie
infinita di matrimoni di stato. Era evidente che, come
del resto avevo intuito sin da piccola, mi utilizzava
come pedina per i suoi giochi politici, offrendomi a
figure importanti della vita pubblica ed aristocratica
romana.
Il primo nome che sentii fu quello di
Cotisone, re dei Geti. Aveva quarant’anni più di me e
puzzava di latte di cavalla fermentato. «Servirebbe a
chiudere il confine danubiano». Disse mio padre ad
Agrippa, pensando che non lo sentissi, ma io lo sentii e
vomitai la cena dietro una colonna. Poi fu la volta del
figlio di Marco Antonio, Iullo era mio cugino, quello
con cui giocavo da bambina. Mio padre ci pensò
seriamente: avrebbe sanato la ferita di Azio, avrebbe
fatto vedere al popolo che il sangue di Antonio tornava
nella famiglia. Ma Livia si oppose. «Troppo pericoloso».
Sussurrò. «Il ragazzo ha gli occhi di suo padre». E il
progetto morì lì.
Poi venne Marco Claudio
Marcello, mio cugino, l’Apollo del Palatino. Quello del
bacio dietro la fontana. Lui piaceva a tutti: a Ottavia,
a mio padre, persino a me. Eravamo belli, giovani e
ricchi, eravamo cresciuti insieme nella stessa casa e ci
conoscevamo bene, il popolo ci adorava. E così nel 25
a.C., a sedici anni appena compiuti, mi misero la stola
nuziale e la corona di verbena. Marito e moglie. L’erede
e la figlia unica. Sembrava tutto perfetto, ma non
vennero figli anche perché quel matrimonio durò solo due
anni. Marcello morì di una febbre improvvisa a Baia, a
diciannove anni, bello come sempre.
Roma pianse
per mesi. Io no. Imparai che anche l’amore, nella mia
famiglia, ha una data di scadenza decisa da mio padre.
Dopo il lutto, la lista ricominciò. «Ti darò ad
Agrippa». Disse mio padre un giorno, senza guardarmi.
Più che una promessa mi sembrò una minaccia! Agrippa
aveva quarantadue anni ossia venticinque più di me. Era
il braccio destro di mio padre, l’uomo che aveva vinto
ad Azio. Era vedovo, con i figli grandi, di rango
modesto e assolutamente privo di ascendenza
aristocratica.
Ma nonostante i miei no, mio padre
non sentì ragioni e nel 21 a.C. appena diciottenne mi
fece sposare Marco Vipsanio Agrippa. Lui era gentile, a
modo suo. Mi chiamava «Domina mea» anche a letto. Mi
regalò isole intere per il mio compleanno. Io gli diedi
cinque figli in nove anni: Gaio, Giulia minore, Lucio,
Agrippina, Agrippa Postumo. Ma ogni volta che partorivo,
mio padre entrava nella stanza, guardava il neonato e
chiedeva soltanto: «È maschio sano»? Quando
rispondevano sì, sorrideva. Quando rispondevano femmina,
il sorriso si spegneva. Capii che non sarei mai stata
una madre, ma un allevamento di futuri Cesari. E mentre
crescevo i miei bambini, mentre sorridevo ai banchetti,
mentre lasciavo che Agrippa mi prendesse tutte le sere
come si prende una provincia, dentro di me contavo i
giorni. Perché sapevo che mio padre, se Agrippa fosse
morto in battaglia, mi avrebbe cercato un altro marito.
E che la lista non sarebbe mai finita finché non fossi
stata troppo vecchia, o troppo scandalosa, o morta.
E infatti Agrippa morì, tra le mie braccia, in una
villa di Campania, con il mare che sbatteva sotto le
finestre. Aveva cinquantun anni, la gotta che gli aveva
gonfiato le articolazioni, ma fino all’ultimo giorno era
stato l’uomo che faceva tremare i re e sorridere le
folle. Quando il corteo funebre entrò a Roma, la plebe
gli gettò montagne di fiori. Io camminavo dietro la
lettiga, incinta di otto mesi, velata di nero, e sentivo
la gente gridare: «Piangi, Giulia, piangi per il padre
dei tuoi figli»! Piansi. Ma non solo per lui. Piansi
anche per la vita che finiva lì: i viaggi, le province
che mi elevavano a regina, le città che mi offrivano
corone d’oro, i templi dove il mio nome era inciso
accanto al suo. Con Agrippa ero stata quasi imperatrice.
Dopo Agrippa sarei stata solo una figlia scomoda.
******
Tre mesi dopo il funerale mio
padre mi convocò nel tablino. Ero appena riuscita a
partorire Agrippa Postumo, avevo ancora il ventre molle
e le mammelle gonfie di latte. Anche questa volta mio
padre e la mia matrigna si erano dati da fare,
scegliendo per me Tiberio, il figlio di Livia, e quindi
mio fratellastro. Lui aveva quarantadue anni, la faccia
di un’aquila incazzata e l’allegria di un funerale di
Stato. Io ne avevo ventinove, cinque figli, e un corpo
che faceva ancora voltare i littori quando passavo.
Quella sera mio padre mi disse: «Sposerai Tiberio».
«Tiberio è già sposato». Risposi. «Lo sarà stato».
Aggiunse fissandomi negli occhi.
A quel punto
sorrisi e feci buon viso a cattivo gioco: «Come
desideri, padre». Dentro, però, qualcosa si ruppe
definitivamente. E decisi che se dovevo essere una
pedina per tutta la vita, almeno avrei imparato a
muovermi da sola sulla scacchiera. Tiberio per
sposarmi dovette divorziare da Vipsania Agrippina, la
figlia di primo letto di Agrippa. Tiberio l’amava
profondamente e da cui aspettava un figlio, Druso
minore.
E così fu. Mio padre lo costrinse a
ripudiare sua moglie in pubblico, nel portico di Pompeo,
davanti a metà Senato. Vipsania uscì piangendo, Tiberio
la seguì con gli occhi e scoppiò in singhiozzi così
forti che i littori dovettero portarlo via di peso. Da
quel giorno mi odiò. E io odiai lui. Le nozze furono
un funerale mascherato da festa. Io indossai la fiamma
nuziale, lui la toga come un condannato. Durante il
sacrificio il fegato della vittima sacrificata diventò
nero. L’aruspice impallidì. Ma mio padre disse: «È solo
fumo». Ma tutti capimmo.
La prima notte Tiberio
entrò nella camera nuziale più simile ad un sepolcro
illuminato da candele che tremavano come anime inquiete.
L’aria era densa di incenso e di un silenzio opprimente,
rotto solo dal fruscio delle vesti di Tiberio. Si tolse
la corona di mirto – simbolo di nozze e di fertilità –
con un gesto stizzito, quasi la considerasse un peso
inutile, e la gettò sul pavimento di marmo con un tonfo
sordo. I suoi occhi, freddi e calcolatori come quelli di
un esattore di tasse, si posarono su di me, Giulia, la
figlia dell’imperatore, ridotta a merce di stato.
«Facciamo in fretta». Disse, la voce rauca e priva di
calore, come un ordine impartito a un servo. Non ci
fu tenerezza, né passione, né il minimo sussurro di
desiderio. Fu un atto meccanico, frettoloso, un dovere
coniugale svuotato di ogni emozione. Le sue mani erano
ruvide, il suo corpo pesante e distante; si mosse con
l’efficienza di chi adempie a un contratto sgradito,
senza guardarmi negli occhi, senza un bacio o una
carezza.
Io giacqui lì, rigida come una statua,
il cuore che batteva per l’umiliazione. Finì in pochi
istanti, un’unione sterile come il suolo di un deserto.
Poi si girò dall’altra parte, il suo respiro si
trasformò presto in un russare profondo e animalesco. Io
rimasi sveglia, gli occhi fissi sul soffitto affrescato
con amorini paffuti che si inseguivano in un eterno
gioco d’amore, le ali dorate e i sorrisi beffardi.
Pensai: «Se questa è la mia vita fino alla morte, tanto
vale morire subito». Un nodo di disperazione mi
stringeva la gola; il mio spirito ribelle, abituato alle
libertà di Roma, ai sussurri d’amore veri, si ribellava
a quell’unione imposta. Tiberio non era un marito, ma
una prigione vivente. Ma poi sorrisi. Perché Roma non
aveva ancora visto niente.
Le notti successive
non furono diverse: atti rapidi, silenzi ostili, sonni
separati. Tra noi non ci fu mai amore, solo un
matrimonio politico, orchestrato da Augusto per
consolidare il potere, un’alleanza di sangue e
ambizione. E in poco tempo mi riscoprii una donna
vivace, sensuale, assetata di vita e di piaceri. Cercai
altrove il fuoco che Tiberio mi negava, mentre lui si
rifugiava nel suo mondo di disciplina e risentimento.
Un solo figlio nacque da quell’unione: un
maschietto gracile, nato prematuro, che visse appena
undici mesi. Quando morì, Tiberio non venne nemmeno al
funerale. Io lo seppellii da sola, con le mie ancelle,
nel mausoleo di Augusto ancora in costruzione. Mentre
calavo la piccola urna nella nicchia, pensai: «Ecco
l’unico figlio che abbiamo avuto insieme. E nemmeno lui
ci ha voluto.» Dopo di quello non ci toccammo più.
******
Mio padre ci aveva regalato una
villa magnifica sul lungotevere, quella che oggi
chiamano Farnesina: giardini pensili sul fiume,
affreschi cubiculari più audaci di qualunque bordello
della Suburra, una biblioteca che odorava di cedro e di
libertà. Lontano dal Palatino, lontano dagli occhi di
Livia, lontano dal Foro dove tutti fingevano di essere
Catoni mentre si ubriacavano di Falerno. Là
cominciai a vivere. La mattina mandavo via le ancelle e
vestivo con tuniche così trasparenti che si vedeva
l’ombelico, stole color zafferano o porpora di Tiro che
costavano quanto una villa a Baia, sandali con le suole
d’oro. Mi facevo acconciare i capelli in stile
alessandrino, con riccioli che cadevano sulle spalle
nude, e portavo alle orecchie e alle caviglie perle
grosse come noci.
Quando uscivo, Roma si fermava.
«Ecco passa la figlia di Augusto». Sussurravano. E poi,
subito dopo: «Dicono che…» Dicono bene. Spalancavo le
porte della mia casa a tutti quelli che mio padre odiava
o temeva. Li amavo tutti, sì. Ma non come si ama un
marito. Li amavo come si ama il fuoco: per scaldarsi,
per bruciarsi, per dimostrare che si è ancora vivi.
Decisi che quel corpo che, mio padre aveva usato,
Agrippa aveva posseduto e Tiberio rifiutato, in quel
momento fosse solo mio. Ebbi amanti a decine. Figli di
consoli, tribuni giovani, cavalieri ricchi, poeti,
soldati e millantatori. Venivano la sera, mascherati
da banchetti letterari, e se ne andavano all’alba con le
labbra gonfie, gli occhi pieni di me e la bocca che
sapeva ancora del mio nettare denso e copioso. Li
sceglievo con cura: sempre sposati, sempre potenti,
intoccabili. Perché se dovevo cadere, volevo cadere
facendo rumore, trascinando giù metà del senato con me.
Sempronio Gracco veniva a recitare versi contro
la monarchia travestita da repubblica. Veniva a casa mia
avvolto in un mantello scuro, si toglieva la maschera
solo quando la porta era chiusa. Dopo, mentre gli
slacciavo la tunica o in ginocchio mentre gli davo
piacere con la mia bocca, lui mi sussurrava: «Un giorno,
Giulia, userò il tuo corpo per uccidere tuo padre». Io
ridevo e succhiavo, avida di quel maschio. «Usalo pure.
Ma prima fammi godere». Rispondevo. E allora lui mi
prendeva con forza contro il muro dell’atrio senza più
dire una parola
Ce n’erano altri. Un pretore che
mi scriveva versi sul seno con il mosto denso pugliese.
Un edile che mi portava corone di rose e poi le usava
per legarmi i polsi. Un giovane Apollodoro di Pergamo,
ballerino, che mi faceva cose che nemmeno le etère di
Corinto osavano. Tito Labieno portava i libri proibiti
di suo padre, salvati dal rogo per ordine di Augusto.
Ovidio, ancora giovane e già pericoloso, leggeva i primi
Amores. Bevevamo vino di Chio non tagliato con la neve
del Terminillo, ballavamo scalzi sui mosaici, facevamo
l’amore nei pergolati mentre i flautisti suonavano fino
all’alba.
******
Mi concedevo a tutti,
ma tra quei tutti, uno solo lo amavo davvero. Iullo
Antonio. Mio cugino e quasi ex marito. L’ultimo
superstite del sangue di Marco Antonio. La prima volta
che venne nella mia casa, mi baciò la mano troppo a
lungo. Io gliela lasciai baciare. Tiberio, mio marito,
era in Campania a ispezionare acquedotti. «Sei diventata
bellissima, Giulia». Mi disse Iullo. «Lo sono sempre
stata». Risposi. «Solo che prima non me lo
permettevano». E ridevamo, ridevamo forte, ridevamo per
svegliare i morti della famiglia che mio padre aveva
seppellito. Lui, il bambino con cui dividevo il pane
appena cotto rubato in cucina, il ragazzo che mi
difendeva da Livia, l’uomo che ora portava nel viso
l’ombra di suo padre Marco Antonio e nel sangue lo
stesso fuoco che aveva bruciato il mondo. Con lui non
era solo sesso. Era ritorno a casa. Ci incontravamo di
nascosto nella mia villa o nella sua casa sull’Aventino,
o nei giardini di Sallustio quando la luna era alta.
Parlavamo poco. Ci guardavamo molto. Poi ci
riconoscevamo. Una notte, dopo aver fatto l’amore sul
pavimento della biblioteca tra rotoli aperti di Catullo
e Calvo, mi disse con la voce rotta: «Se tuo padre non
fosse chi è, ti avrei sposata il giorno che hai compiuto
sedici anni». Io gli accarezzai la cicatrice sul
sopracciglio, la stessa che aveva da bambino, quando era
caduto dal pero. «Se mio padre non fosse chi è».
Risposi. «Io non sarei chi sono. E forse non ti vorrei
così tanto». Ci amavamo come due sopravvissuti a una
strage familiare. Come due fantasmi di una Roma che non
esisteva più. Come due bambini che si erano giurati
fedeltà eterna e ora, adulti, mantenevano la promessa
nel solo modo possibile: tradendo tutti, tranne noi
stessi.
Tiberio era lontano. Mio padre pensava
che stessi solo “facendo la difficile”. Non sapevano che
stavo scrivendo la mia personale guerra civile, una
battaglia alla volta, un letto alla volta, un bacio alla
volta. E al centro di tutto c’era sempre Iullo. L’unico
che quando mi guardava non vedeva la figlia di Augusto.
Vedeva solo Giulia. E per quello, lo amai fino alla
fine. Fino al giorno in cui mio padre decise che
l’amore, come tutto il resto, era un lusso che sua
figlia non poteva permettersi.
******
Una notte, dopo troppi calici, salii su una tavola e
declamai: «Io sono la figlia di Cesare, ma non sono la
schiava di Cesare. Se Roma vuole una dea, le darò una
dea che scopa, ride e sputa sulle leggi di bronzo»!
Applaudirono tutti. Qualcuno pianse. Qualcuno corse a
riferire. Ma io continuavo a essere me stessa. Perché
per la prima volta in vita mia non ero mai stata così
felice come quando ero finalmente, sfacciatamente,
scandalosamente me stessa.
Tiberio tornava ogni
tanto, puzzolente di sudore e di dovere, e trovava la
casa piena di gente, di musica, di profumo di amanti.
«Sei impazzita?» Mi chiedeva». Con quella voce di
ghiaccio. «No». Rispondevo io, sdraiata su un triclinio
con un calice in mano e un uomo o una donna accanto.
«Sto solo vivendo la vita che mio padre mi ha negato per
trent’anni». Lui stringeva i pugni, ma non poteva
toccarmi. Ero intoccabile. Ero la figlia di Augusto. E
proprio per questo, prima o poi, sapevo che mio padre
avrebbe mandato le sue legioni. Ma fino ad allora, che
Roma bruciasse pure di pettegolezzi. Io bruciavo di più.
E bruciavo viva. E mai, mai, mi ero sentita così libera.
Lui partì per la Pannonia, poi per la Germania.
Quando una sera tornò da Rodi, dove si era auto-esiliato
per non dovermi più vedere, e mi trovò nel peristilio
con un calice in mano e un giovane questore che mi stava
baciando il collo, disse semplicemente: «Domani al Foro
cerca di tenere le mani dentro la stola. La plebe
comincia a contare i tuoi amanti ad alta voce». E se ne
andò nella sua ala della casa. Non lo rividi per tre
mesi. Quella fu la conversazione più lunga che avemmo
sull’argomento.
Io continuai la mia vita, fiera
di me stessa, perché in fin dei conti ero sempre stata
una donna fedele, perché i miei cinque figli
somigliavano tutti ad Agrippa: lo stesso naso dritto, la
stessa mascella quadrata, gli stessi occhi grigi da
soldato ed il figlio nato da Tiberio somigliava come una
goccia d’acqua al padre! E questo perché «Facevo
salire a bordo altri passeggeri quando la nave era già
carica». Non ero pazza, né sprovveduta. Sapevo contare i
giorni del ciclo meglio di un astrologo caldeo. Sapevo
quando potevo giocare, e quando dovevo chiudere la
porta. I miei amanti arrivavano nei giorni sicuri. Nei
giorni pericolosi invece c’erano stato solo i miei
uomini ufficiali: Agrippa prima e Tiberio dopo.
Sei figli, sei ritratti perfetti. Nessuno poté mai dire,
mai provare, che fossero nati fuori dal matrimonio.
Quando, anni dopo, mio padre mi accusò pubblicamente di
adulterio, non poté toccare la legittimità dei miei
figli. E quella fu la mia ultima, silenziosa vittoria su
di lui. Perché Roma poteva chiamarmi puttana quanto
voleva, ma i miei bambini portavano il nome di Cesare, e
nessuno (neanche l’imperatore) poteva toglierglielo. E
questo, alla fine, era l’unico potere che una donna come
me poteva davvero tenere in pugno.
******
Tutti i matrimoni mi erano stati imposti senza un
briciolo d’amore e per giunta senza chiedere un mio
parere, per cui non rinunciai mai alle mie compagnie. A
Roma non si parlava d’altro e ad un certo punto mio
padre, consigliato da Livia, non tollerò più il suo
comportamento. Fino a quel momento mio padre, seppur
irritato, si era limitato a qualche reprimenda in
privato, quella volta decise di non risolvere lo
scandalo in privato. Era la sera del del 2 a.C. quando
mi diede in pasto all’opinione pubblica scrivendo una
lettera al Senato e denunciando così il mio
comportamento da adultera e descrivendomi come una
prostituta. I miei amici vennero qualificati tutti come
miei amanti in quanto secondo la relazione erano stati
partecipi e consenzienti a quelle orge.
Più che
una lettera fu una sentenza di morte civile. Il console
la lesse con voce tremante, mentre i senatori sedevano
immobili come statue di sale. Io non ero presente,
alle donne era proibito entrare in Curia, ma Roma la
imparò a memoria in poche ore. «Giulia, figlia mia e
disgrazia mia, hai profanato il nome di Cesare, il mio
nome, il nome di Roma. Non più contenta di corrompere la
propria casa, hai portato la tua lussuria nei luoghi
sacri della città: sui rostri, nel Foro, persino sui
gradini del tempio di Vesta. Di notte, travestita da
meretrice, ti sei offerta a chiunque nella Suburra. Di
giorno hai trasformato i portici in postriboli. Hai
avuto rapporti con decine, forse centinaia di uomini,
molti dei quali sposati, molti dei quali miei amici,
tutti complici di questa vergogna. Io, Augusto, padre
della patria, non posso più considerarti figlia mia».
Seguiva l’elenco dei nomi. Iullo Antonio in testa.
Poi Sempronio Gracco, Appio Claudio Pulcro, Scipione,
Quinzio Crispo, Tito Quintio Crispino… e tanti altri.
Ovidio non era nella lista, troppo giovane e troppo poco
nobile, ma il suo nome circolò lo stesso nei corridoi.
Finirono tutti esiliati o costretti al suicidio. Iullo
si uccise quella stessa notte. il poeta Ovidio venne
mandato in esilio sul lontano Mar Nero, Appio Claudio
Pulcro e Scipione si tagliarono la gola in prigione
prima del processo. La mia liberta Febe, che aveva
rifiutato di testimoniare contro di me, si impiccò nel
carcere Mamertino con la mia stola porpora. Quella notte
i pretoriani sfondarono le porte all’alba. Una schiava
urlò. Io non urlai. Presi solo il mantello più pesante e
dissi: «Almeno fatemi salutare i miei figli». Non me lo
permisero.
Mio padre non mi fece processare,
applicò direttamente la sua lex Iulia de adulteriis
coercendis, la legge che aveva fatto scrivere proprio
lui contro le mogli infedeli. Mi condannò all’esilio
sull’isola di Ventotene che allora si chiamava
Pandataria. Uno scoglio di due chilometri quadrati
battuto dal maestrale, con una villa diroccata, tre
cisterne d’acqua piovana e un solo albero di fico che
faceva ombra a malapena a una capra.
Quando la
nave salpò dal porto di Ostia, Roma era in festa. La
plebe che un tempo mi acclamava ora gridava: «Puttana!»
Mi gettarono uova marce e letame. Io rimasi in piedi a
prua, con il vento che mi strappava i capelli, e risi.
Risi così forte che le guardie si spaventarono. Perché
avevo trentotto anni, ero ancora bellissima, e sapevo
una cosa che loro non sapevano ancora: Il mio nome non
sarebbe morto con me su quella roccia in mezzo al mare.
Sarebbe rimasto per sempre nella bocca di Roma: come
maledizione, come leggenda, come desiderio.
Mio
padre annullò d’ufficio il mio matrimonio con Tiberio
senza nemmeno avvertirlo. Lui era in Dalmazia a
massacrare ribelli e lo seppe settimane dopo e non
scrisse una riga. A me fu concessa la sola compagnia di
mia madre Scribonia che scelse di seguirmi. Aveva
sessant’anni, la schiena dritta, gli occhi ancora fieri.
Salì sulla nave senza che nessuno glielo ordinasse.
«Sono stata ripudiata per causa tua il giorno che
nascesti». Mi disse sul ponte. «Ora è giusto che ripudi
il mondo insieme a te.» E rimase. Per quattordici anni
fu la mia unica voce umana.
Fu un periodo
tristissimo. Non esistevo più! Lì le regole erano
feroci, scritte di pugno da Augusto e lette ogni mese
dal centurione di guardia: Divieto assoluto di vino.
Divieto di stoffe colorate, solo lana grezza. Divieto di
bagni caldi, profumi, specchi, gioielli. Divieto di
uomini sull’isola, i soldati stessi erano scelti tra i
più vecchi o gli eunuchi. Chiunque volesse farmi visita,
persino i miei figli, doveva inviare a Roma altezza,
colore dei capelli, cicatrici visibili, segni
particolari e un certificato di «integrità morale»
firmato da Augusto in persona.
Naturalmente
nessuno venne mai a trovarmi. Roma festeggiò per tre
giorni. Mio padre fece sacrifici a Castore e Polluce
«per la purificazione della città». Livia sorrise per la
prima volta in pubblico. Io, sull’isola, imparai a
contare le onde. Ogni onda un amante morto. Ogni onda un
figlio che non potevo abbracciare. Una notte, dopo sette
anni di silenzio, Scribonia mi trovò sulla spiaggia che
gridavo verso il mare aperto: «Padre! Se sei davvero
figlio di un dio, fulminami ora»! Lei mi prese per le
spalle, mi fece voltare e, per la prima e unica volta,
mi schiaffeggiò. «Smettila di urlare». Disse. «Vince lui
se continui a implorarlo. Vinci tu se continui a
vivere». Da allora smisi di urlare. Cominciai ad
aspettare. E vissi su quella roccia. Senza specchi e
senza amore, ma viva. Perché l’unico modo per
sconfiggere un uomo che può toglierti tutto è non dargli
mai la soddisfazione di vederti morta prima del tempo,
prima di lui. E io, Giulia, figlia di Augusto, vissi.
Fino all’ultimo respiro, vissi.
******
Dopo cinque anni di Pandataria, cinque anni in cui
persi i denti per lo scorbuto, i capelli per la fame, la
voce per il silenzio, mio padre si decise a «mostrare
clemenza». Ma non fu clemenza. Fu solo cambiare gabbia.
Nel 4 d.C. mi fecero salire su una nave diretta a Reggio
Calabria, sulla punta dello stivale. Una casa piccola,
con le finestre sbarrate verso il mare, in una via che
puzzava di pesce marcio e di catrame.
Potevo
camminare per cento passi in ogni direzione, non uno di
più. Potevo ricevere visite solo se Tiberio, ormai erede
designato, dava il permesso, ma non lo diede mai. A Roma
intanto il destino si divertiva. Gaio Cesare, il mio
primogenito, morì in Licia nel 4 d.C., dopo una ferita
infetta. Lucio, il secondo, morì a Marsiglia,
ufficialmente di febbre, ma le malelingue dissero
veleno. Io dissi semplicemente: mio padre aveva la
sfortuna di perdere tutti quelli che amava, tranne
quelli che odiava. Rimase solo Tiberio. Il figlio di
Livia. L’uomo che mi aveva avuta per dovere e mi aveva
persa per disgusto.
Nel 4 d.C., a settantun anni,
Augusto lo adottò in pubblico, tra le lacrime di
circostanza e i denti stretti. E Tiberio, da buon
soldato, aspettò. Mio padre morì nel 14 d.C., a Nola,
tra le braccia di Livia. Tiberio salì al potere il
giorno stesso. Una delle sue primissime decisioni fu un
editto di una riga: «Giulia, già mia moglie, già figlia
di Augusto, resterà in esilio fino alla morte. I suoi
beni sono confiscati. Nessuna pietà postuma». Non mi
richiamò. Non mi perdonò. Non mi fece nemmeno uccidere
(sarebbe stata troppa grazia).
A Reggio vissi
altri cinque anni. Sola. Mia madre Scribonia morì tra le
mie braccia nel 16 d.C., sussurrando: «Almeno io ti ho
avuta con me fino alla fine».
Giulia Maggiore
morì a 75 anni, forse per malnutrizione, nello squallore
e la desolazione dell’esilio. Quando la notizia arrivò a
Roma, Tiberio ordinò che non ci fossero funerali
pubblici. Il suo corpo fu sepolto in fretta in una fossa
senza nome fuori Reggio. Nessuna epigrafe. Nessuna
lacrima imperiale. Ovidio, dal suo esilio sul Mar
Nero, scrisse una riga che nessuno osò pubblicare finché
Tiberio fu vivo: «Giulia non è morta. È diventata la
libertà che Roma non ha mai avuto il coraggio di
prendersi.» Giulia non ebbe né tomba né onore, ma
ebbe l’ultima parola e vinse perché suo padre avrebbe
voluto una figlia obbediente, trattata solo come merce
di scambio, ed invece aveva avuto una donna impossibile
da dimenticare. |

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