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STORIE DI ROMA
 
IL DIARIO DI VANNOZZA CATTANEI
L'AMANTE DEI PAPI
A Roma, nel 1500, il censimento indetto da Innocenzo VIII contava una popolazione di circa 50 mila romani tra i quali oltre settemila prostitute e cortigiane, senza contare concubine e clandestine...
 



 

 
Roma, anno del Signore 1500
Oggi, seduta nella mia casa in Piazza di Branca, guardo il Tevere che scorre pigro tra il rumore delle carrozze che riecheggia dalle strade affollate. Ho cinquantotto anni, un'età che per molte donne sarebbe di quiete e preghiera, ma per me, Vannozza dei Cattanei, è ancora tempo di riflettere su una vita piena di luci e ombre.

Roma, questa eterna città, mi ha accolto giovane e ambiziosa, venuta da Mantova con sogni più grandi dei miei mezzi, e qui mi ha forgiato come l'oro nel fuoco. Questa Roma del Giubileo, anno santo indetto dal mio antico amante, Rodrigo Borgia, ora Sua Santità Papa Alessandro VI, pullula di pellegrini venuti da ogni angolo della Cristianità. Le strade sono un fiume di gente: frati, mercanti, nobili spagnoli come lui, e sì, anche quelle schiere di uomini soli, ecclesiastici celibi e ambiziosi cortigiani che affollano la Curia.

Dicono che non più di dieci anni fa, sotto Innocenzo VIII, un censimento contasse circa cinquantamila anime qui, e tra loro oltre settemila tra cortigiane e prostitute, senza contare le clandestine e le concubine nascoste nei palazzi. Una città di uomini, prevalentemente maschi e celibi, attirati dal potere vaticano, dal lusso e dalle promesse di cariche elevate. E in questo vortice di desideri repressi, noi donne abbiamo trovato il nostro spazio. Non le povere meretrici dei vicoli bui di Campo Marzio, che battono per un tozzo di pane sotto la luce di una candela che scandisce la durata della prestazione, ma noi cortigiane: belle, colte, raffinate. Animiamo salotti dove si discute di poesia, di arte, di filosofia, mentre offriamo compagnia e i nostri corpi sensuali a cardinali e gentiluomini. È un mestiere lucroso, che porta denaro, palazzi eleganti e, a volte, un posto nella storia.

Io lo so bene: da quando, giovane locandiera, attirai l'occhio di Rodrigo, allora cardinale, la mia vita cambiò. Con il suo favore gestii locande fiorenti, come quella della Vacca vicino a Campo de' Fiori, frequentata dall'alto clero e ovviamente prostitute, ma nulla di scandaloso perché Roma è così: una corte di velluti e intrighi, di basiliche in costruzione e fontane che zampillano, ma anche di ombre nei vicoli, dove il peccato e la santità si intrecciano come edera sul marmo antico.

La mia famiglia era originaria di Mantova, quella città gentile sul Mincio, circondata da laghi e palazzi gonfi di arte, dove i Gonzaga regnavano con splendore e mecenatismo. Nacqui lì, nel 1442, da nobili origini – i Cattanei non erano gli ultimi arrivati – ma fin da giovane sentii il richiamo di Roma, questa lupa eterna che attira chiunque abbia ambizione nel sangue. E una volta approdata qui, mi sono sempre sentita romana, più che mantovana: qui ho fiorito, qui ho amato, qui ho partorito sei figli e costruito la mia fortuna.

Giunsi in questa città quando ero poco più che una fanciulla, intorno ai vent'anni, con il cuore pieno di sogni e gli occhi aperti sul mondo. Roma mi accolse con le sue rovine antiche e i suoi palazzi nuovi, e io seppi subito che non l'avrei più lasciata.
Dicevano che avevo un fascino conturbante, un fascino che turbava gli animi degli uomini più potenti. Ma credo che rispecchiavo semplicemente i canoni estetici del periodo: rotonda nei punti giusti, con forme generose che il Rinascimento celebrava, seni pieni e fianchi accoglienti, come le donne dipinte dai maestri. Avevo la pelle chiara, occhi vivaci e intelligenti, e una chioma corvina folta e lucente che incorniciava il mio viso.

Per la mia bellezza ho posato per alcuni pittori di passaggio a Roma tra cui Innocenzo di Pietro Francucci da Imola, il Pinturicchio e Tiziano che mi ha ritratta con un turbante elegante che avvolge quella splendida chioma corvina. L'ho sempre ringraziato mentalmente per aver catturato quella bellezza che il tempo, ahimè, inizia a sfiorire.

Ma Roma, non mi sono limitata a sopravvivere: seppi cogliere le opportunità che questa città offriva a chi aveva ingegno e bellezza. Grazie alla conoscenza di papi e cardinali – primi fra tutti Rodrigo Borgia, il mio grande amore, e poi altri come il cardinale Giuliano Della Rovere, che nel 1503 salì al soglio pontificio come Giulio II. Grazie al loro aiuti aprii numerose locande famose e ben frequentate come: "La Locanda del Biscione" (in Via di Tor di Nona), "La Locanda del Gallo", "La locanda del Leone piccolo", "La Locanda del Leone grande" e "La Locanda della fontana" in Campo de' Fiori e "La Locanda della Vacca" (in Vicolo del Gallo). Tutti luoghi dove l'alto clero e i nobili venivano non solo per mangiare e bere, ma per conversare, intrattenersi, sfuggire per un momento alle rigide regole della Curia. Ho sempre cercato di dare il meglio alla mia clientela, creando ambienti accoglienti, con tavole imbandite di prelibatezze, vini fini e un'atmosfera calda, illuminata da candele e risate discrete.

Erano affari lucrosi, che mi portarono ricchezza e indipendenza, e da lì nacquero i miei figli, benedizione e orgoglio della mia vita. Se un giorno qualche cronista scriverà di me – e so che lo faranno, con veleno o con ammirazione – sarebbe più giusto presentarmi come amante di cardinali, non solo di un papa. Perché la mia storia è intrecciata con il potere di molti, e in questa Roma, essere al centro degli intrighi era il modo per una donna di emergere.

Quando lo conobbi Rodrigo aveva 33 anni, naturalmente non era ancora papa. Il nostro fu un amore a prima vista, suggellato in seguito da un lungo legame sentimentale. Ricordo ancora il primo incontro come se fosse ieri. Era il 1465, avevo 23 anni, 10 meno di lui. Entrò con il suo seguito, ma i suoi occhi si fermarono su di me. Parlava di politica, di arte, della Spagna lontana, e io lo ascoltavo rapita, sentendomi per la prima volta al centro del mondo.
Dopo il primo incontro continuò a frequentare la locanda praticamente tutte le sere. Rimaneva a conversare con me ore ed ore senza intrattenersi con le altre ragazze.

Rodrigo mi invitò nel suo palazzo privato, lontano dagli occhi curiosi della locanda. Era poco dopo i nostri primi incontri alla Vacca, intorno al 1465 o forse '66, quando le sue visite serali erano diventate un'abitudine che mi faceva battere il cuore più forte ogni volta. Una sera, dopo ore di conversazione appassionata a quel tavolo appartato, mi sussurrò all'orecchio che voleva vedermi sola, nel suo palazzo sul Corso, un edificio elegante che già rifletteva la sua crescente potenza come vicecancelliere.

Accettai, con il cuore in gola, trepidante e un po' spaventata da quell'uomo così potente, spagnolo di fuoco e ambizione. Entrai nel palazzo al crepuscolo, accompagnata discretamente da un servo fidato. Indossavo il mio abito migliore: una gamurra di seta cremisi, aderente al corpo come usava allora tra le donne raffinate di Roma, con maniche strette e una scollatura che lasciava intravedere il mio seno generoso, rotondo nei punti giusti come celebrava il Rinascimento. Sopra portavo una veste leggera di velluto broccato d'oro, aperto sul davanti per mostrare la gamurra sottostante, e i capelli corvini sciolti in parte, raccolti in una rete preziosa ornata di perle. Mi sentivo bella, desiderabile, con la pelle profumata di essenze rare e un velo di eccitazione che mi arrossava le guance.

Rodrigo mi accolse in una sala illuminata da candele, con affreschi alle pareti e tappeti orientali sul pavimento. Indossava la sua veste cardinalizia scarlatta, ma senza il cappello, i capelli scuri che gli incorniciavano il viso. Mi prese la mano, la baciò con labbra calde, e i suoi occhi neri e penetranti mi divorarono.
"Vannozza." Mormorò con quell'accento spagnolo che mi faceva tremare. "Da quando vi ho vista alla locanda, non penso ad altro che a voi". Le sue avances furono dolci, ma insistenti. Mi attirò a sé, sfiorandomi il collo con baci leggeri, le mani che scivolavano sulla seta del mio abito, accarezzando le mie curve disponibili.

Gli ressi lo sguardo, sentendo il desiderio montare come una fiamma, e lo baciai a mia volta, abbandonandomi alle sue carezze. Ci ritirammo nella sua camera privata, un ambiente lussuoso con un grande letto a baldacchino, tende pesanti di damasco e un camino crepitante. Lì, tra sussurri e sospiri, ci abbandonammo completamente. Le sue mani esperte slacciarono la mia veste e fecero scivolare la gamurra dalle spalle. Rimasi nuda e facemmo l'amore con una passione travolgente e i corpi intrecciati in un'unione che fu fuoco e tenerezza. Fu la prima di tante notti, l'inizio di un legame che mi diede gioia immensa e, anni dopo, dolori profondi. In quel momento, ero solo una donna innamorata, persa negli occhi del mio Rodrigo.

La notizia della nostra relazione fece subito il giro dei salotti bene della città. Io ne ero orgogliosa, ed anche Rodrigo era così entusiasta che all’inizio non badò alle voci, alle malelingue che già sussurravano negli ambienti ecclesiastici.
Dopo però le cose cambiarono e, nonostante la mia posizione di amante riconosciuta e rispettata, dovetti necessariamente avere un legittimo consorte per coprire le apparenze. Amavo troppo Rodrigo per rischiare di perderlo. E capisco che prima della nascita del nostro primo figlio – il caro Cesare – occorreva risolvere la questione dandogli una copertura legale.

Se ne occupò direttamente Rodrigo, combinando sia il primo che gli altri matrimoni. Così, nel 1474, a 32 anni, andai in sposa a Domenico Giannozzo d’Arignano, un funzionario ecclesiastico. Era un’unione di facciata, ma necessario per il bene della nostra famiglia e della sua carriera in una città dove gli occhi della Curia erano ovunque.

Qualche mese dopo diedi alla luce il mio primo figlio, Cesare, la gioia più grande che Rodrigo mi avesse mai donato. Era un bambino forte, con gli occhi scuri e intelligenti del padre, destinato a grandi cose.

Ma quel matrimonio di copertura non durò a lungo: rimasi subito vedova, e mi risposai immediatamente con Antonio da Brescia. A me premeva unicamente il rapporto con Rodrigo, che era intenso, quasi quotidiano. Tanto che pochi mesi dopo la nascita di Cesare ero già alle prese con la mia seconda gravidanza. Nel 1476 diedi al cardinale un altro figlio, Juan, un bambino bello e fiero, ma dal destino tragico.

E subito dopo rimasi vedova per la seconda volta in appena due anni. La sorte, o forse la mano di Rodrigo, apriva e chiudeva queste unioni come porte per proteggere la nostra famiglia. In questo periodo le mie ricchezze lievitarono notevolmente. In fin dei conti ero la concubina di un potentissimo cardinale in odore di nomina papale, e quindi ero soggetta a continue regalie. Naturalmente i doni avevano l’unico obiettivo di ingraziarsi il futuro papa, ma io li accettavo con grazia, sapendo che arricchivano la nostra casa. Ma avevo anche fiuto negli affari… Penso di essere stata sempre una donna scaltra. Ridevo tra me, ricordando quelle giornate frenetiche. D’altro canto il mio terzo marito, Giorgio della Croce, nominato dallo stesso Borgia segretario apostolico di papa Sisto IV, era un uomo facoltoso, proprietario di una splendida villa con giardino nei pressi della chiesa di San Pietro in Vincoli, all’Esquilino. Quella dimora era un paradiso: giardini rigogliosi, fontane, affreschi, un luogo dove i miei bambini crescevano al sicuro, lontani dagli intrighi ma vicini al potere.

Quegli anni furono di abbondanza e di amore protetto. Cesare cresceva bello e forte come un dio antico ambizioso, intelligente con occhi penetranti e un carisma che piegava gli uomini. Destinato alla Chiesa da giovane, ma poi liberato dal cardinalato per diventare condottiero, duca di Valentinois, il mio guerriero invincibile. È lui che portava avanti il nome Borgia con forza e astuzia. Juan invece era il preferito di Rodrigo. Aveva un’anima gentile sotto l’armatura, ma il destino fu crudele con lui. La sua morte violenta nel Tevere, nel 1497, ancora mi tormenta: chi lo colpì? Misteri che avvelenavano l’aria di Roma.


Alla fine del 1479 rimasi nuovamente incinta e decisi di recarmi a trascorrere il resto della gravidanza nella rocca della famiglia Borgia a Subiaco, dove il 18 aprile dell’anno seguente diedi alla luce Lucrezia. La mia unica figlia. La perla dei Borgia, bionda, dolce, intelligente, con una grazia che conquistava tutti. Sposata tre volte per alleanze, Sforza, Aragona, d’Este, ha sofferto molto per le voci maligne che la dipingevano come un mostro, ma io sapevo chi era veramente: una madre amorevole, una duchessa di Ferrara saggia e pia. Era il mio conforto, la luce in mezzo alle tempeste.

Un anno dopo, nel 1481, fu la volta di Jofré, il più giovane, nato nel 1482. Principe di Squillace, sposato con Sancia d’Aragona, un ragazzo vivace, ma forse meno ambizioso dei fratelli. Ha avuto la sua parte di terre e titoli, ma il suo cammino è stato più quieto, lontano dagli intrighi più feroci.

Loro, tutti e quattro indistintamente, sono il mio lascito, il sangue dei Borgia che scorre forte. Prego ogni giorno per la loro salute e felicità, in questa Roma che dà tutto e tutto toglie.

Jofrè fu l’ultimo figlio che ebbi da Rodrigo. Dopo questa nascita, infatti, tra noi ci fu un periodo di crisi. I nostri incontri divennero più sporadici: lui era assorbito dalle sue ambizioni nella Curia, e io, con quattro bambini da crescere, mi dedicai alla mia vita coniugale con Giorgio della Croce. Fu un tempo di distacco, necessario forse per proteggere ciò che avevamo costruito. Solo un anno dopo nacque Ottaviano, figlio di mio marito Giorgio, un bambino che portai in grembo con la serenità di una unione legittima, lontana dagli intrighi.

Ma non ero destinata ad avere una famiglia, per così dire… normale. La sorte, o forse il volere di Dio, mi colpì duramente. Quattro anni dopo, nel 1486, persi sia marito che figlio: Giorgio morì, e con lui il piccolo Ottaviano, strappato troppo presto. A 44 anni ero vedova per la terza volta, sola con i miei quattro figli maggiori, in una città che non perdonava la debolezza.

Rodrigo però non si perse d’animo: lui, che mi aveva sempre protetta, in poche settimane combinò l’ennesimo matrimonio
e l’8 giugno del 1486 sposai Carlo Canale, in una cerimonia discreta. Era mantovano come me, un legame con la mia terra lontana che mi confortò il cuore. Persona di indubbie qualità morali, profondo conoscitore delle lettere e della poesia, un vero umanista in un’epoca di cortigiani e ambiziosi. La sua comparsa segnò in qualche modo una svolta nella mia vita: portò serenità, cultura e un affetto genuino in casa nostra che mi permise di
vegliare sui miei figli mentre Rodrigo saliva sempre più in alto.

Insieme a mio marito e i miei figli decidemmo di lasciare il palazzo di piazza Pizzo di Merlo, quel magnifico dono di Rodrigo, carico di ricordi appassionati, e trasferirci in una nuova dimora in piazza Branca, più ampia e luminosa, vicino al Tevere, un luogo che divenne il nostro rifugio familiare.

Carlo Canale fu un ottimo padre per i miei figli. Si affezionò in maniera autentica e incondizionata a loro, e in particolar modo alla piccola Lucrezia, la mia perla. Le trasmise tutto il suo amore per le scienze umanistiche, iniziandola allo studio del greco, del latino, della poesia e delle arti in genere. La vedevo china sui libri, con gli occhi brillanti di curiosità, fiorire sotto la sua guida paziente. Comunque nel 1488 lo premiai mettendo alla luce un figlio nostro, un bambino che sigillò la nostra unione con gioia.

A questo punto il legame strettamente sentimentale fra me e Rodrigo poteva dirsi concluso. Erano passati gli anni di passione ardente, sostituiti da un distacco necessario. Rimase però un legame di profondo affetto e stima, alimentato dall’amore viscerale che entrambi nutrivamo per i figli, pur destinati – ahimè – ad esistenze disgraziate e spesso dolorose. Prego per loro ogni sera, affinché trovino pace in questo mondo crudele.
Il 25 luglio del 1492 moriva Innocenzo VIII, e con lui sembrava chiudersi un’epoca di incertezze. Ma all’alba dell’11 agosto, quando i porporati uscirono dal conclave e proclamarono Rodrigo papa con il nome di Alessandro VI, il mio cuore esplose di una gioia così intensa che quasi mi mancò il respiro. Ero lì, in prima fila sul sagrato di San Pietro, stringendo forte la mano della mia dolce Lucrezia, accanto ad Adriana de Mila.
Le lacrime mi rigavano il viso mentre la folla urlava, le campane rimbombavano e Roma intera sembrava inginocchiarsi al nostro trionfo. Anni di amore, di sacrifici, di attese discrete... tutto culminava in quel momento. Pensai: “Rodrigo, amore mio, ce l’abbiamo fatta”. Era il coronamento di una vita intera.

Eppure, in mezzo a quella felicità travolgente, già sentivo un velo di malinconia posarsi sul cuore. Rodrigo aveva rivolto le sue attenzioni alla giovanissima Giulia Farnese, la “Bella”, con quei capelli d’oro e quella freschezza che io, a cinquant’anni, non potevo più vantare. Quando seppi che era diventata la sua favorita ufficiale, la chiamavano con ironia concubina papae o persino sposa Christi, provai un dolore acuto, come una lama nel petto. Gelosia? Sì, lo ammetto, una gelosia bruciante che mi teneva sveglia la notte. Ma più di tutto, era la consapevolezza che il mio tempo al suo fianco era finito. L’avevo amato con tutta l’anima per decenni, gli avevo dato figli, sostenuto ambizioni... e ora dovevo farmi da parte. Accettai, perché lo amavo abbastanza da desiderare la sua grandezza, ma il cuore sanguinava in silenzio.

Il distacco più straziante, però, fu quello dai miei figli. Non erano più solo miei: erano figli di un Papa, strumenti del suo potere, destinati a palazzi e alleanze lontane. Li vedevo crescere magnifici, ma sempre più distanti. E Lucrezia... oh, la mia Lucrezia, la mia unica figlia, la luce dei miei occhi. Quando la portarono via per i suoi matrimoni politici, sentii il cuore spezzarsi in mille pezzi. Piangevo di notte abbracciando il suo cuscino vuoto, ricordando quando era piccola e si addormentava tra le mie braccia. “Perché, Signore, devo perderla così?” Mi chiedevo. Era il prezzo più alto che pagai per l’amore di Rodrigo: perdere giorno dopo giorno i frutti di quell’amore.

L’anno successivo alla sua elezione, nel 1493, Alessandro VI decise di maritare la mia Lucrezia a Giovanni Sforza, conte di Pesaro. Un’alleanza fredda, calcolata, per legare i Borgia agli Sforza di Milano. Rodrigo sapeva della mia contrarietà e per questo motivo non mi fu concesso nemmeno di assistere alle nozze, celebrate con pompa sfarzosa in Vaticano. Mi tennero lontana, come se fossi un’ombra scomoda del passato. Quel giorno rimasi chiusa in casa, con il cuore straziato, lacrime che scorrevano silenziose mentre immaginavo la mia bambina, la mia unica figlia, vestita da sposa tra estranei. Fu l’inizio di un dolore che mi lacerò l’anima, un vuoto che nulla avrebbe più colmato.

Tutto nacque da quella lite furibonda con Adriana de Mila, la cugina del papa che aveva preso in casa la mia Lucrezia per educarla, insieme a quella Giulia Farnese che mi aveva rubato il posto nel cuore di Rodrigo. L’odio di una madre a cui strappano l’unica figlia femmina è un fuoco che divora tutto: rabbia, disperazione, un dolore primordiale. Adriana, suocera di Giulia, aveva sempre tramato per favorirla, spingendola tra le braccia del pontefice mentre io venivo messa da parte. Un giorno esplosi: le mie mani si strinsero intorno al suo collo, accecata dalla furia, dal tradimento, dalle lacrime represse. Volevo urlarle tutto il mio dolore, farle sentire quanto mi aveva ferita strappandomi la mia bambina. Ancora oggi, al ricordo, un fremito d’ira mi scuote, misto a un rimpianto amaro che mi stringe la gola.

Dopo le nozze, la mia Lucrezia lasciò Roma per Pesaro, e i nostri contatti divennero rari, freddi frammenti di lettere in un oceano di solitudine. Ogni volta che pensavo a lei lontana, un singhiozzo mi saliva dal petto: la mia bambina, cresciuta tra le mie braccia, ora strumento di alleanze, lontana dalla madre che l’amava più della vita. Piangevo notti intere, stringendo i suoi vecchi vestitini, implorando Dio di proteggerla da un mondo crudele.

Il destino non ebbe pietà di me né dei miei figli. Cesare, il mio primogenito, il mio Valentino tanto amato, si gettò anima e corpo nella costruzione di un sogno imperiale che lo consumò senza mai realizzarsi del tutto. Guerre, intrighi, alleanze spezzate: lo vedevo partire per le battaglie con orgoglio materno, ma il cuore tremava di terrore per la sua spietatezza, per quella sete di potere che lo rendeva invincibile e solo. Quante preghiere ho rivolto al cielo per lui, temendo che la sua ambizione lo portasse alla rovina! Lo amavo con un’intensità che mi straziava, fiera della sua forza, terrorizzata dal buio che lo avvolgeva.

Ma nessuna ferita è stata più profonda, più devastante di quella inflittami dalla sorte crudele di Juan, il mio Juan adorato, il mio ragazzo d’oro. Bello, vigoroso, con quegli occhi pieni di vita e quel sorriso che illuminava anche le giornate più buie… era il prediletto di Rodrigo, il figlio in cui il padre riversava ogni speranza, ogni sogno di grandezza per i Borgia. Lo chiamava il suo erede, gli dava titoli, terre, onori… e io, guardandolo, sentivo il cuore gonfio d’orgoglio e tenerezza infinita. Juan era la mia luce, il figlio che mi faceva credere che almeno uno di loro avrebbe avuto una vita felice, lontana dalle ombre che già divoravano Cesare.

Quelle attenzioni speciali alimentavano l’invidia di Cesare… lo vedevo nei suoi occhi, un fuoco oscuro, un rancore che mi gelava il sangue. E poi venne quella notte maledetta, il 14 giugno 1497. Una cena qui, nella mia casa, con i fratelli, risate, vino, calore familiare… l’ultima volta che vidi il mio Juan vivo. Uscì con Cesare e un amico, sparirono nelle strade buie di Roma. Il giorno dopo… oh Dio, il giorno dopo lo pescarono dal Tevere, il corpo martoriato da nove pugnalate, il volto ancora bello ma senza vita, gli occhi spalancati sull’orrore. Crollai a terra urlando, un urlo che veniva dal profondo dell’anima, come se mi strappassero il cuore dal petto. Non respiravo più, non vivevo più.

Rodrigo si rinchiuse in Vaticano, digiunò per giorni, pianse come un bambino, invocando il nome del figlio perduto. Il nostro dolore era un abisso senza fondo, un lutto che ci unì nel pianto come mai prima. E in quel buio, Signore perdonami, il sospetto si insinuò come veleno: Cesare… il mio primogenito, la mia carne, poteva aver alzato la mano sul fratello? Il dubbio mi tormenta ancora, mi strappa il sonno, mi fa odiare me stessa per pensarlo, ma non posso scacciarlo. Juan, il mio dolce Juan, assassinato nell’ombra… non c’è stato giorno da allora in cui non abbia pianto per lui, stringendo i suoi ricordi come un coltello nel petto.

E come se non bastasse questo strazio, arriva inevitabile la domanda su Lucrezia, la mia unica figlia, la mia perla, il mio ultimo raggio di tenerezza in tanto buio. Sì, è vero: non ho presenziato a nessuna delle celebrazioni dei suoi tre matrimoni. Non una. Lucrezia era una pedina preziosa, redditizia nelle mani di suo padre, sacrificata per i suoi grandi disegni di potere: prima Giovanni Sforza, poi Alfonso d’Aragona, infine Alfonso d’Este. Tre unioni fredde, politiche, senza un briciolo d’amore, decise nei saloni vaticani per alleanze e domini. Come potevo esserci? Come potevo sorridere e festeggiare mentre la mia bambina veniva data via come merce, strappata dal mio grembo per l’ennesima volta? Ogni invito respinto era un grido silenzioso del mio cuore: non potevo, non volevo vedere la mia Lucrezia offerta in sposa a estranei, costretta a sorridere mentre dentro moriva un po’. Mi chiudevo in casa, piangendo sola, stringendo i rosari fino a sanguinare le dita, implorando la Madonna di proteggerla. Essere esclusa era il mio modo di ribellarmi, di dire al mondo che una madre non può celebrare il sacrificio della propria figlia. Il dolore di quelle assenze mi ha consumato, ma preferivo mille volte quel vuoto alla finzione di una festa. Signore, abbi pietà di questa madre che ha perso tanto…

“Come si sente una madre che vede morire quasi tutti i suoi figli?” Mi ripeto la domanda, e sento il cuore fermarsi per un istante. Come si sente? È un vuoto che ti divora dall’interno, un dolore sordo e infinito che ti accompagna in ogni respiro, in ogni passo. Sapevo che essere madre dei figli del Papa avrebbe comportato rinunce, distacchi, sacrifici per il potere... ma non credevo fino a quel punto, non immaginavo che il prezzo sarebbe stato seppellire uno dopo l’altro i frutti del mio grembo.

Cesare cadde in Spagna nel 1507, braccato come una bestia dopo la morte di Rodrigo; Goffredo se ne andò prima, consumato da malattie e ombre; Juan... oh, Juan, il mio bello, strappato con violenza nel fiore degli anni. Solo Lucrezia mi sopravvive. Ho vissuto abbastanza per sapere che li avrei persi tutti, e quel pensiero mi ha spezzato più di qualsiasi altra cosa. Ogni morte era una parte di me che se ne andava, lasciando solo un guscio vuoto, pieno di rimpianti e preghiere non esaudite.

Dopo la morte dei miei figli e di Rodrigo nel 1503, che fu come perdere un’altra parte di me, condussi una vita di penitenza, un tentativo disperato di lavare le colpe di una gioventù appassionata e scellerata. Aderii alla Confraternita del Gonfalone, quella nobile compagnia dedicata alla carità e alla preghiera, e lì trovai un po’ di pace tra processioni e opere pie. Lasciai loro tutti i miei averi nel testamento, palazzi, locande, ricchezze accumulate: che servissero a redimere l’anima mia e dei miei cari, a cancellare i peccati di lusso e potere che avevano segnato la nostra via.

Vannozza Cattanei morì il 26 novembre del 1518, all’età di 76 anni, in una Roma cambiata, lontana dagli splendori dei Borgia. Le disposizioni che diede sulla sua sepoltura non furono rispettate: desiderava essere sepolta nella chiesa di Santa Maria delle Terme, ma per ragioni sconosciute fu invece tumulata nella Basilica di Santa Maria del Popolo, tra le cappelle nobili e gli affreschi eterni. Dei suoi resti, però, non vi è più traccia: durante il sacco di Roma del 1527 da parte dei Lanzichenecchi, la cappella fu spogliata delle ricchezze e la tomba devastata, profanata nella furia della guerra. La lapide sepolcrale fu recuperata, ricomposta e murata nel portico della basilica di San Marco, di fronte al Campidoglio, dove è tutt’oggi conservata, unico testimone silenzioso di una vita straordinaria.




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L'articolo è a cura di Adamo Bencivenga











 
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