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STORIE DI ROMA
 
IL DIARIO DI MILONIA CESONIA
Quarta moglie dell'imperatore Caligola. Già madre di tre figlie, diede all'imperatore una figlia, Giulia Drusilla nata pochi giorni dopo le nozze


 

 
Roma, 15 gennaio 41 d.C.
Oggi, mentre il sole tramonta sulla mia casa ai piedi del Palatino, la domus dove ho vissuto gran parte della mia vita prima di Caligola, sento il bisogno di mettere per iscritto i miei pensieri.
Questa dimora non è un palazzo imperiale, ma una casa semplice: pareti affrescate sbiadite dal tempo, un atrio con l’impluvium che raccoglie l’acqua piovana, stanze anguste dove ho cresciuto le mie tre figlie nate dal primo matrimonio. Le mura sono di tufo grezzo, il pavimento a mosaico è logoro e, dal peristilio, si intravede il Foro lontano con il suo brulicare di gente.

Qui, tra questi muri umili, ho trascorso anni di povertà. Ero figlia di Vistilia, una madre che si è sposata più volte e che aveva generato sette figli, tra cui me. La nostra era una famiglia sparpagliata: fratellastri influenti come Quinto e Publio Pomponio Secondo, futuri consoli, o Gneo Domizio Corbulone, che già da adolescente si faceva notare come generale.
Io ero soltanto Milonia, non bella, ma assolutamente da maritare! Mi sono sposata con un uomo anonimo che, prima di morire, ha fatto in tempo a lasciarmi con tre figlie e tanti debiti. Al tempo vivevo ai margini della nobiltà, tra il desiderio di rifarmi una vita e sogni modesti, lontana dagli intrighi del Senato.

Roma, 15 marzo 35 d.C. Sedici anni prima
La casa è silenziosa, troppo silenziosa. Le mie tre figlie dormono nel cubicolo accanto: Drusilla, la maggiore, ha appena compiuto otto anni; le gemelle ne hanno quattro. Mio marito è morto da sei mesi, in un incidente stupido: un carro lo ha travolto mentre tornava dal Foro. Con lui se n’è andato anche l’ultimo sesterzio di dignità che ci restava.
Ora il creditore, un usuraio di nome Marco Tizio, bussa alla porta ogni settimana: «O paghi, o prendo la casa!». Sono sola e piena di vergogna. Mia madre Vistilia è lontana, al suo sesto matrimonio con un vecchio senatore che non vuole saperne di noi. I miei fratellastri sono troppo occupati a farsi strada. Ho contato le monete sul tavolo: quarantadue sesterzi. Non bastano nemmeno per il pane di un mese. Mi ripeto che devo fare qualcosa che non posso permettermi di piangermi addosso…

Roma, 35 d.C. Qualche giorno dopo
Ho deciso. Ho lavato il mio unico peplo buono, quello di lana fine che mio marito mi aveva regalato il giorno delle nozze. Ho pettinato i capelli con olio d’oliva, ho messo un po’ di ocra sulle guance. Mi guardo nello specchio: certo, non sono più giovane, ho passato i quarant’anni, ma il corpo è ancora sodo, almeno credo, i seni pieni per le gravidanze e la parrucca rossa mi rende ancora attraente.

Esco al tramonto, verso la Suburra, tra vicoli soffocati dal fango e ombre che puzzano di fumo, vino rancido e sudore. Ogni passo è un rischio: prostitute dai volti pesantemente truccati, gladiatori coperti di cicatrici che mi fissano come predatori, mercanti che urlano per vendere olive ammuffite, ubriachi che cantano strofe sconnesse, il tintinnio di coltelli e mani invisibili di ladri.
Colpita da quel caos, procedo con un solo scopo: sfamare le mie figlie. Mi dico che non sono una prostituta, che cammino con un’eleganza diversa dalle altre e che la merce che offro è almeno pulita.

Mi perdo tra questi vicoli, poi davanti a una taverna mi fermo e un gruppo di ubriachi mi accoglie con fischi e versi volgari: «Rossa, mostraci il paradiso! Quanto costa un giro?» Mi convinco che qualcosa posso ancora offrire, allora sto al gioco, rido e scivolo dentro il locale. Mi siedo e aspetto. La veste è trasparente, quel tanto che promette, quel poco che fa immaginare.
Poco dopo si avvicina un mercante, grasso e calvo, ha le mani sudate, si presenta, dice di chiamarsi Lucio. Mi offre da bere e poi venti sesterzi per qualche ora. Troppi per una principiante, pochi per la mia disperazione, ma accetto. Gli dico che non sono del mestiere, che è la prima volta… Lui ride: «Dite tutte così, ma l’importante è che mi fai divertire stanotte». Quando mi tocca, mi sento morire dentro, ma stringo i denti e penso alle mie bambine.

Saliamo una scala stretta sul retro della taverna, tra l’odore di legna bruciata, vino versato e grasso di maiale fritto che sale dal basso. La stanza è piccola: una sola finestra murata a metà, con una fessura da cui filtra il bagliore rossastro delle torce della strada. Il letto è un pagliericcio sudicio buttato su assi sconnesse, coperto da una coperta logora che puzza di sudore vecchio e di seme secco.
Lui chiude la porta con un calcio, il chiavistello arrugginito gratta come un’unghia su una pietra. Si volta verso di me, già ansimante, gli occhi lucidi per il vino e per la voglia che gli gonfia il ventre. Non dice nulla, si slaccia la cintura lasciando cadere la tunica sul pavimento. Vedo il suo corpo flaccido che trema a ogni movimento; sento l’odore acre che si mescola al vino rancido del suo alito.

Sono in piedi vicino al letto, aspetto. Ogni fibra del mio corpo grida di scappare, di vomitare, di urlare. Guardo il suo membro già eretto, venoso, che oscilla mentre lui si avvicina. Ma lui non mi dà tempo di rifiutare, mi spinge sul pagliericcio con una mano. Mi dice: «Non fare la vergine spaventata, rossa. Lo so che sotto sotto ti piace». Le sue labbra si appiccicano al mio collo, le sue mani sudate mi palpano il seno, i pollici mi stringono i capezzoli fino a farmi male.

Chiudo gli occhi, dentro di me tutto si contrae in un nodo di disgusto, ma penso alle mie figlie, lui non aspetta, mi dice di allargare le gambe e quando mi penetra sento bruciore. Ogni spinta è una lama di coltello, di dolore fisico e umiliazione. Penso al pane che potrò comprare domani, al latte, alla legna per il fuoco, all’affitto della casa.
Cerco di muovermi al suo ritmo e mi ripeto: «Questa non sono io, non è il mio corpo, è solo carne che do in affitto per venti sesterzi». Lui, invece, è perso nella sua foga, mi ordina di essere più partecipe: «Stringi di più!» «Ti voglio più calda!» Mi dà della quadrantaria, mentre il suo ventre sbatte contro di me con un ritmo animalesco.

Quando sta per godere si trattiene, mi volta a pancia in giù per prendermi da dietro, sento il suo respiro, il piacere che monta rapido, mi dico che devo resistere e quando alla fine viene spinge ancora più a fondo riversando dentro di me tutto il suo seme appiccicoso.

Un attimo dopo è già in piedi, io rimango lì, immobile, fissando la parete scrostata e sentendo il liquido caldo colarmi tra le cosce. Il disgusto mi riempie la bocca come bile, ma quando vedo i venti sesterzi penso che è solo un mestiere come tanti altri ed io ho tanta voglia di lavorare…

Roma, 35 d.C. Un mese dopo
Ora è diventata una routine. Ogni sera, dopo aver messo a letto le figlie, esco. Mi trucco pesantemente, mi vesto per farmi vedere nuda agli occhi di qualche affamato. Ho imparato a staccare il cervello dal sesso, a sorridere, ad essere brava durante l’amore, a dire le parole giuste: «Sei forte, domine!» «Nessuno mi ha mai fatto sentire così!» Sono soldati di ritorno dalla Germania, senatori annoiati, liberti arricchiti e mercanti grassi. Alcuni sono gentili, altri soltanto bestie avide del mio corpo.

Ho un cliente fisso che porto persino in casa. Si chiama Gaio ed è un tribuno della guardia pretoriana. Le bambine lo chiamano zio. Mi dà cento sesterzi per tre volte a settimana e mi chiama «La mia lupa.» Ogni volta mi lascia stremata, ma io pago i miei debiti.

Roma, 35 d.C. Quattro mesi dopo
Ieri ho pianto per la prima volta. Una delle gemelle, la più piccola, mi ha chiesto: «Mamma, perché esci tutte le sere?» Le ho risposto che lavoro come serva in una domus ricca. Mi sono guardata nello specchio di bronzo: occhi cerchiati, labbra screpolate. Eppure le mie figlie hanno mangiato carne ieri, e crescono sane. Drusilla ha iniziato a cucire: dice che vuole fare la sarta. Io continuo. Ogni notte, due tre maschi tra le mie cosce sono mattoni per il loro futuro. Non sono più la moglie di nessuno: sono la madre di tre figlie. E questo basta.

Ho imparato a non pensare: quando un uomo mi tocca, chiudo gli occhi e rivedo il mare di Baia, dove andavo da bambina con mio padre, o sento le risate delle mie bambine. Ho messo da parte trecento sesterzi. Ancora un poco e potrò riscattare la casa.
Ma stanotte è successo qualcosa di diverso. Un uomo mi ha guardata negli occhi durante l’amore e mi ha detto: «Sei troppo bella per questo». Era un giovane soldato, appena vent’anni. Mi ha dato cento sesterzi per una sola volta e un bacio sulla fronte. Per un istante ho ricordato com’era essere desiderata, non soltanto usata. Mi chiedo se un giorno potrò ancora innamorarmi, se nel mio destino ci sarà un uomo buono, ricco, gentile, oppure un patrizio importante. Certo non gli dirò mai che per necessità ho venduto il mio corpo. Spero che la voce non si sparga e che io possa ancora avere un futuro felice.

Roma, 15 gennaio 38 d.C.
Sono passati tre anni e il destino è stato benevolo con me. Ho conosciuto Caligola durante una festa al Palatino, dove ero stata invitata per caso da mio fratellastro Publio Pomponio: «Vieni, Milonia, c’è da mangiare e bere gratis!».

Ho accettato senza sapere che tra gli ospiti ci sarebbe stato l’imperatore in persona. La cosa più sconvolgente è stata che Caligola, con i suoi occhi folli e il sorriso crudele, mi ha notata tra le tante. Non ero vestita da nobildonna, ma indossavo il mio peplo migliore, rosso porpora, che mi stringeva la vita e lasciava scoperto il collo; i capelli sciolti, il corpo maturo che non nascondevo più. Avevo imparato a muovermi tra gli uomini, a far scivolare lo sguardo, a far credere di essere lì per piacere e non per sopravvivenza.

La festa sul Palatino era un turbine di torce, vino di Falerno e risate sguaiate. Caligola giaceva al centro della sala, su un triclinio d’avorio, circondato da senatori ubriachi e danzatrici egiziane. I suoi occhi verdi, freddi come marmo, si sono posati su di me.
«Tu!» Ha detto indicandomi. «Vieni qui.» Il cuore si è fermato. Lo conoscevo di fama: l’imperatore che aveva nominato senatore il suo cavallo e che aveva ordinato ai pretoriani di raccogliere conchiglie in Britannia.
«Come ti chiami?»
Mi sono avvicinata. «Milonia Cesonia, domine».
Lui mi ha squadrata lentamente dalla testa ai piedi. «Non sei una vergine. Né una matrona. Perfetto». E mi ha offerto una coppa di vino. «Bevi».
L’ho bevuto in un sorso.
«Tu non hai paura di me.» Ha detto ridendo. Poi sottovoce mi ha sussurrato parole che mi hanno fatto arrossire. Mi sono chiesta se sapesse del mio passato, ma non ha perso tempo. Mi ha fatto distendere accanto a lui, ho sentito le sue mani possessive come se volesse divorarmi. La sala girava per il vino e per quell’occasione che non potevo lasciarmi scappare. Le torce sono diventate stelle.

Poi mi ha preso per mano e mi ha portato in una stanza laterale, con tende di porpora e un letto basso coperto di pelli di leone.
«Spogliati», mi ha ordinato. Le dita mi tremavano mentre scioglievo la veste. Il tessuto è scivolato a terra. Ero nuda, con un accenno di pancia e le smagliature sulle cosce. Non ero bella. Eppure lui mi ha guardata come se fossi Venere. Ho sentito il sangue pulsare nelle tempie, un calore che dallo stomaco si diffondeva ovunque. Le sue mani erano fredde sui miei seni, poi calde, poi di fuoco. «Sei mia», ha mormorato spingendomi sul letto. Non c’è stata tenerezza, solo fame. Mi ha presa con violenza; io mi sono abbandonata, lo volevo. Gemevo, lo invitavo a farmi sua, poi ho inarcato la schiena quando è entrato in me.

Il suo respiro è diventato pesante. «Dimmi che mi ami». Incredula ho risposto: «Ti amo. Ti ho sempre amato, anche senza conoscerti». Non era vero: non lo amavo, ma amavo l’imperatore che era dentro di me, che mi possedeva. Lui voleva tutto: mi ha voltata a pancia in giù, mi ha afferrato i fianchi e l’ho sentito affondare nelle mie carni. Il letto cigolava, le pelli di leone mi graffiavano la pelle. Quando tutto è finito, lui è crollato esausto su di me, sudato, ansimante. Ci siamo addormentati insieme.

Al risveglio ero sola, con il corpo dolorante e il suo sapore ancora sulla lingua. Sul cuscino ho trovato una moneta d’oro, l’ho stretta nel pugno. In quel momento ho pensato che fosse stata solo una notte, nulla di più. Invece il giorno dopo mi ha cercata ancora. Mi ha detto che tra vergini, puttane e matrone io ero la donna adatta a lui.

Mi invitava nel suo palazzo, la moglie faceva finta di non vedere e a poco a poco siamo diventati amanti. Una sera mi ha sussurrato: «Rimani incinta e ti sposerò». Non gli ho creduto: lui era già sposato e circondato da donne bellissime, io non ero né giovane né aristocratica. Temevo di non essere all’altezza, ma per nessuna ragione avrai sputato in faccia alla fortuna. Così, una notte, gli ho fatto bere un filtro d’amore, un intruglio di erbe che avrebbe dovuto rendermi ancora più desiderabile ai suoi occhi. Dicono che quella pozione ha accelerato la sua follia, ma non è vero: lui era già folle… folle di avermi resa la sua amante.

Roma, 15 marzo 39 d.C.
È passato un anno da quando siamo amanti. Ripenso spesso alle sue mogli precedenti. Giunia Claudilla, la prima, morta troppo presto di parto: una fanciulla innocente che gli lasciò solo un fugace rimpianto. Livia Orestilla, strappata al marito il giorno stesso delle nozze e ripudiata dopo pochi giorni. Lollia Paolina, l’ultima prima di me, accusata di sterilità: la consideravo sciocca, con la sua bellezza aristocratica e le perle preziose; credeva di poterlo tenere con grazia e ricchezza, ma lui la vedeva solo come un ornamento sterile.

Io le disprezzavo tutte, in cuor mio: troppo fragili, troppo caste, incapaci di dargli ciò che davvero bramava. Io ero diversa: non bella, ma fertile, esperta per mestiere, lussuriosa senza pudori. Sono arrivata nella sua vita al momento giusto. Caligola aveva bisogno di un erede; le mogli precedenti avevano fallito, il trono vacillava senza successore. Per me ha divorziato da Lollia Paolina, ma non mi ha sposata subito: ha atteso che fossi incinta. Quando gliel’ho annunciato ha mantenuto la parola. Mi ha sposata! Non per amore romantico, ma per necessità dinastica. Eppure in quei momenti sentivo il suo desiderio bruciante.

La nascita di Giulia Drusilla…
Oh, quel giorno del 39, lo stesso delle nozze! Ero in travaglio mentre i sacerdoti benedicevano il matrimonio; il dolore si mescolava alla gioia. Caligola camminava avanti e indietro, impaziente, urlando che doveva essere una femmina, in onore della sua adorata sorella Drusilla. E così fu. Quando è nata, l’ha presa tra le braccia e l’ha portata sul Campidoglio, deponendola in grembo alla statua di Minerva, gridando che la dea l’avrebbe nutrita. Io, esausta nel letto, piangevo di felicità. Era il nostro erede, anche se femmina.

Il nostro è stato un legame indissolubile. Caligola mi portava con sé anche durante le spedizioni militari. Mi faceva cavalcare al suo fianco in divisa: mantello scarlatto, scudo lucido, elmo crestato che mi schiacciava i capelli. Poi ad un tratto mi ordinava di spogliarmi tutta, completamente nuda. Era un gioco, che mi rendeva unica. Sentivo gli sguardi dei soldati su di me, affamati, come lupi che non vedevano una donna da mesi. Quegli occhi, pieni di desiderio represso, mi facevano sentire bella per la prima volta, provocante, desiderata, una dea della lussuria in mezzo a quel mare di armature.

Il cuore mi batteva forte, un misto di paura e eccitazione;
arrossivo sotto l'elmo, ma alzavo il mento, godendo di quel potere. Caligola, al mio fianco, rideva con quel suo ghigno folle.
Lo vedevo nei suoi occhi: piacere puro nel mostrare la sua donna, come un trofeo conquistato. «Guardatela, la mia imperatrice!» Urlava, e il suo orgoglio era tangibile, un fuoco che lo consumava. Amava umiliarli, ma anche condividere la sua possessione, e in quei momenti sentivo il suo amore distorto, la sua gelosia mista a vanità.

24 gennaio del 41
Oggi è un giorno strano. Io tengo stretta Giulia Drusilla, la mia piccola, e prego Minerva che ci protegga. Ma ho un presentimento... un brutto presentimento. Un soldato entra di corsa nella mia casa e dice: «Caligola è stato assassinato da alcuni membri del Senato e della guardia pretoriana, guidati dai tribuni Cassio Cherea e Cornelio Sabino.» Non urlo, rimango impassibile e dico soltanto: «Lo sapevo.»

Poche ore dopo anche Cesonia venne uccisa, pugnalata da un centurione, insieme a sua figlia Giulia Drusilla.




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L'articolo è a cura di Adamo Bencivenga











 
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