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STORIE DI ROMA
 

DAL DIARIO DI LIVIA DRUSILLA
Per amore solo per amore
Nobildonna romana, moglie dell'Imperatore, fu la madre di Tiberio, bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone. Si sposò in seconde nozze con Ottaviano tre giorni dopo la nascita del suo secondo figlio.
(Roma, 30 gennaio 58 a.C. - Roma, 28 settembre 29)
 

 
 
La nutrice dice che sono nata sotto un cielo di stelle fortunate, dice che mio padre, Marco Livio Druso Claudiano, mi ha preso in braccio davanti all’altare di Lare ed ha giurato che sarei stata la gloria della Gens Claudia. Mia madre Alfidia sorrideva, ma i suoi occhi erano lontani, come se già vedesse il mio destino scritto altrove. La casa al Celio era piena di marmo e di voci: schiavi che lucidavano e il profumo di incenso che saliva dai bracieri.

A sette anni correvo scalza tra i cipressi. La villa era un labirinto di giardini: fontane che cantavano e statue di eroi che mi guardavano severi. Imparai a leggere con un pedagogo greco che puzzava di vino e di mare, mi insegnava Omero e mi faceva ripetere i nomi degli avi. “Tu sei Claudia.” Diceva “Non dimenticarlo mai.”
Il Foro brulicava di toghe bianche, mio padre discuteva in Senato, mia madre mi stringeva la mano quando passavamo davanti al tempio di Vesta.

A dodici anni il mio corpo cambiò, mi spuntò il seno ed i fianchi si incurvarono deliziosamente. Le schiave mi pettinavano i capelli con trecce severe e mia madre diceva che presto sarei diventata una donna. Studiavo retorica e aritmetica. Mio padre mi portava alle terme, dove ascoltavo i discorsi degli uomini ed imparavo a tacere.

Nel 43 a.C. morì mio padre a Filippi. Si era ucciso con una spada dopo la sconfitta. Tiberio Claudio Nerone, mio cugino, tornò con gli occhi rossi di polvere e di lacrime. “Abbiamo perso.” Disse. “Ma non è finita!” Fuggimmo da Roma quella notte: io, madre, Tiberio e pochi fedeli. Il mare era nero, le onde mi lavavano il viso con il sale. Arrivammo in Grecia. Vivemmo in una villa fatiscente: mangiavamo olive amare, ascoltavamo i corvi. Tiberio parlava di vendetta, di Marco Antonio, di un futuro che non vedevo.

IL MIO PRIMO MATRIMONIO CON TIBERIO
Nel 42 a.C. Ottaviano aveva vinto e grazie ad un’amnistia tornammo a Roma. Sentivo che il mio destino era già deciso, avrei sposato mio cugino Tiberio. Mia madre mi disse che era un onore, che la Gens Claudia aveva bisogno di questo matrimonio. Io annuii, ma dentro di me sentivo un nodo.

Mi sposai il 15 novembre del 42 a.C. Avevo sedici anni. La tunica era pesante. Tiberio era bello, con la sua toga pretesta, ma i suoi occhi erano lontani. Durante la cerimonia guardai mio padre morto nei ritratti degli avi: sembrava mi dicesse “sopporta”. La folla applaudiva, ma io sentivo solo il battito del mio cuore. Quando Tiberio mi prese la mano, era fredda. Abbiamo sacrificato al tempio di Giunone, ma il fegato della vittima era nero. La sacerdotessa disse che era un buon segno. Io non le credetti.
La notte dormii nella casa di Tiberio, ma non era amore, era dovere. Quando lui si addormentò russando giurai sugli dèi che nessuno mai mi avrebbe spezzata, la Gens Claudia non si spezza. Pochi mesi dopo rimasi incinta del mio primo figlio: Tiberio, lo stesso nome del padre.

Tre anni dopo rimasi di nuovo incinta, Druso si muoveva dentro di me come un pesce intrappolato; ogni calcio era un promemoria che la mia vita non mi apparteneva più. Tiberio, mio marito, era sempre più cupo: Marco Antonio, la sua ultima possibilità, aveva perso ad Azio e così Ottaviano divenne il padrone di Roma.

Fu una mattina di sole quando Ottaviano mi convocò al Tempio di Apollo sul Palatino. Era una cerimonia di ringraziamento agli dèi. Tiberio non voleva che andassi: “Sei incinta, resta a casa.” Gli risposti che la Gens Claudia non rifiuta mai gli inviti del vincitore. Indossai la stola azzurra, i capelli raccolti con la rete d’oro. Il tempio era un tripudio di marmo e incenso e la folla si aprì come il Mar Rosso quando entrò lui, Ottaviano.

OTTAVIANO
Non era alto, non era imponente, ma quando i suoi occhi trovarono i miei fu come se il tempo si fermasse. Spontaneamente portai la mano sul ventre, Druso scalciava forte. Ottaviano mi sorrise, un sorriso al tempo stesso beffardo e deciso di chi sapeva di aver appena scoperto un tesoro. Io arrossii. Scribonia, sua moglie anche lei incinta, gli era accanto.

Dopo la cerimonia, lui mi avvicinò. “Livia Drusilla.” Disse con la voce bassa, quasi un sussurro. “Ho sentito parlare della tua bellezza, ma le parole sono povere.” In quel momento avrei dovuto inchinarmi e dire qualcosa di formale, invece risposi: “E tu, Cesare, sei più giovane di quanto mi aspettassi.”
Rise. Intorno a noi la gente finse di non vedere, Scribonia invece mi fissò ed io sentii quegli occhi sulla mia pelle come aghi.

Quando tornai a casa ripensai a quell’incontro. La notte non riuscii a dormire, mio marito Tiberio invece russava accanto a me, il suo braccio pesante sulla mia vita. Io fissavo il soffitto e rivedevo gli occhi di Ottaviano. Grigi, come il mare prima della tempesta. “Perché ci penso? È sbagliato. Ho un marito, un figlio in grembo.” Ma il cuore batteva più forte del dovere. “Se gli dèi mi puniranno per questo pensiero, che lo facciano. Ma oggi, per la prima volta, mi sento viva…”

Non finì lì. Era l’autunno del 38 a.C. quando un messaggero mi consegnò una lettera sigillata: “Domani, al giardino di Sallustio, all’alba.” Il mio cuore per un attimo smise di battere, tra me e me dissi subito di no, che non dovevo, ma poi andai. Lui era lì, senza scorta, con una semplice tunica bianca. Mi prese la mano e mi baciò il polso. Poi mi guardò negli occhi e mi disse: “Non dormo da quella giorno… Tu sei sposata, io pure. Ma gli dèi hanno deciso di prendersi gioco delle nostre anime.” Non mi chiese se anch’io provassi qualcosa per lui… Non ce n’era bisogno! Dentro quel giardino incantato il mondo scomparve. Non c’era Roma, non c’era Tiberio, non c’era Scribonia. Solo le sue labbra sul mio polso che avrebbero lasciato un’impronta indelebile.

Ci rivedemmo ancora, ma sempre in gran segreto e a debita distanza. Ottaviano sin dal secondo incontro iniziò a parlare di divorzio, lui da Scribonia ed io da Tiberio, ossia da tutto ciò che ci legava al passato. “Sarai mia!” Mi disse. “Anche se dovrò cambiare le leggi.”
Io la notte piangevo, pensavo alla nascita di mio figlio e mi chiedevo: “Che madre sono? Che moglie sono?” Mi stringevo a Tiberio chiedendogli tacitamente aiuto, ma poi mi dicevo: “Lui sa! Lo vedo nei suoi occhi quando torna dalle campagne.” E per calmarmi pensavo a Ottaviano che mi guardava come se fossi l’unica donna al mondo, e il senso di colpa si mescolava a un fuoco che non riuscivo a spegnere.

LA PROPOSTA
Ormai mancavano solo giorni alla nascita di Druso. L’aria quasi estiva al tramonto s’infiltrava leggera tra i portici della villa di Quinto Pedio a Trastevere. La cena era solo un pretesto: il padrone di casa, amico di Tiberio e di Ottaviano, aveva invitato le famiglie per festeggiare la pace dopo Azio. Io ero lì, il ventre teso sotto la stola di lino azzurro, Druso che premeva come se volesse uscire quella sera. Tiberio sedeva alla mia destra, rigido; Ottaviano di fronte, tra Mecenate e Agrippa. Ogni volta che alzavo il calice, i suoi occhi erano su di me. Non sorrideva, mi guardava, come un falco che ha scelto la preda.

Dopo il dolce con fichi al miele e vino di Falerno, Ottaviano si alzò. “Livia Drusilla.” Disse, “Vorrei parlarti di una questione privata.” Imbarazzata guardai Tiberio e lui annuì con gli occhi come se avesse ricevuto già un ordine che io non conoscevo. Mi alzai e Ottaviano mi cinse i fianchi mentre uscivamo dal triclinio, io e lui, verso la biblioteca. La porta si chiuse. Il silenzio era così denso che sentivo il battito del mio cuore e quello del mio piccolo Druso.

Ottaviano non parlò subito. Mi prese la mano, poi mi accarezzò il viso e disse. “Livia è arrivato il momento, da oggi in poi non dovremo più nasconderci.” Io tremavo, dissi a malapena: “Sono sposata. Incinta.”
“Gli dèi non chiedono permesso.” Rispose e mi baciò sulle labbra. Non era dolcezza, ma sete come se volesse bere la mia anima. Io non lo respinsi, anzi socchiusi la bocca. Le sue mani sul mio ventre, sul mio collo, tra i capelli. Trenta minuti. Trenta minuti di fuoco.

Tornammo a tavola separatamente. Io con le labbra gonfie, lui con gli occhi lucidi. Tiberio mi guardò. Non disse nulla. Se ancora ce ne fosse bisogno capì. Mecenate alzò il calice: “A Roma!” Tutti brindarono. Io bevvi, ma il vino sapeva di cenere.

Il giorno dopo Ottaviano agì in fretta e ripudiò sua moglie Scribonia nel momento in cui lei partorì Giulia, una bambina bellissima. Poi andò in senato e disse: “Non la amo, amo un’altra.” Tiberio ricevette la lettera il mattino dopo. Lesse, impallidì, ma firmò senza dire una parola il divorzio. I suoi occhi erano morti ed io ero già di un altro.
Mio figlio Druso nacque all’alba. Un maschietto forte, con i capelli neri simili a quelli di Tiberio. Lo strinsi al petto e lo allattai io stessa, di nascosto dalle schiave. Mi dicevo: “Voglio sentire il suo respiro caldo contro il mio petto, almeno questo è mio!”

IL MATRIMONIO CON OTTAVIANO
Tre giorni. Solo tre giorni dopo vennero celebrate le nozze. Quel giorno pioveva. La casa di Ottaviano sul Palatino era piena di senatori, di fiori, di ipocrisia. Io indossavo il flammeum arancione. Tiberio era lì. Mi prese il braccio, non come marito, ma come padre. “Cammina dritta.” Mi sussurrò. “Sei Claudia.”

Ottaviano mi aspettava davanti all’altare di Giunone. Quando mi vide, sorrise. Non il sorriso del vincitore: il sorriso di un uomo che aveva avuto finalmente ciò che desiderava ardentemente.
Durante il sacrificio, il fegato era perfetto. La sacerdotessa disse: “Gli dèi approvano.” Ci furono canti e balli fino al mattino e quando rimanemmo soli Ottaviano mi strinse a sé e nella stanza nuziale mi tolse la tunica e mi baciò il ventre ancora morbido dopo il parto.
“Sei mia, finalmente!” Disse. Io chiusi gli occhi. Druso dormiva. Mi dissi: “Ho sposato l’uomo più potente di Roma. Ho tradito mio marito. Ho partorito un figlio tre giorni fa. E ora sono su questo letto avida dei suoi baci. Non rimpiango nulla.”

La mattina dopo appena sveglia mi ripetevo: “Sono Livia Augusta, sono Livia Augusta…” Ma quel nome mi suonava ancora strano, come un abito cucito da mani altrui. Ottaviano dormiva accanto a me. Respirava piano, la mano posata sul mio fianco come se temesse che io svanissi. Ma non avevo intenzione di svanire. Avevo giurato fedeltà assoluta, non solo a lui, ma a ciò che rappresentava. Roma aveva bisogno anche di me ed io avevo bisogno di lui.

Non sarebbero venuti figli. Il mio ventre, dopo Druso, si chiuse come una conchiglia. I medici parlavano di “squilibrio di umori”; le matrone sussurrano di maledizioni. Augusto taceva. Una volta sola, nel buio, mi disse: “Mi basti tu.” L’ho baciato allora con una devozione che non era servitù, ma scelta. Ogni mattina gli preparavo il mantello, ogni sera gli versavo il vino. Quando entrava in Senato, io ero già sveglia, i capelli pettinati, la casa in ordine. Roma vedeva una moglie impeccabile ed io ne ero fiera.

La MORTE DI TIBERIO
Un pomeriggio d’inverno del 33 a.C. ebbi la notizia che mai avrei voluto avere. Un messaggero bagnato di pioggia entrò in casa: “Tiberio Claudio Nerone è morto di febbre.” Augusto mi trovò in giardino, le mani nella terra a piantare rose bianche. “I bambini dove sono?” Disse, solo questo.
“Vengono qui. Domani.” Risposi. Tiberio aveva nove anni, Druso sei. E quando il giorno dopo arrivarono mano nella mano dissi: “Questa è la vostra casa ora.” Augusto si avvicinò e aggiunse: “Io sarò vostro padre.”

Due giorni dopo mentre i bambini giocavano scrissi una lettera al mio ex marito: “Non so dove tu sia ora, ma se leggi queste righe sappi che i nostri figli crescono forti. Tiberio ha la tua fronte, Druso il tuo sorriso. Augusto li ama come un padre. Io li amo come madre, e questo non è tradimento. È sopravvivenza. Grazie per avermi lasciato andare. Grazie per averli cresciuti fino all’ultimo respiro. Riposa, cugino. Marito. Amico.” Poi piansi e in attimo di scoramento strappai la lettera e la gettai nel braciere. Le fiamme la divorano come divorano ogni rimpianto.

I sensi di colpa piano piano scomparvero ed io mi dedicai anima e corpo a Ottaviano, quando la sera tornava dal senato gli toglievo la toga, gli massaggiavo le spalle e non permettevo a nessuna schiava di toccarlo. Gli raccontavo dei bambini: “Tiberio ha imparato a tirare con l’arco, Druso ha composto una poesia su Enea.” Lui mi ascoltava, sorrideva, mi baciava. “Sei la mia forza.” diceva. Non avevo dato figli all’Impero, ma avevo dato me stessa. E questo bastava.

Le lingue di Roma però non tacevano mai. Nei portici, nelle terme, persino nei templi si sentiva spettegolare: “Colpo di fulmine? Bah! Ottaviano ha sposato i Claudii, non Livia.” E lui mi ripeteva: “Che parlino, amore!” Io sapevo che il suo non era stato un calcolo ma solo desiderio di me. Sapevo cosa provava quando, la sera, appoggiava la testa sul mio seno e sospirava come un bambino stanco. E per dimostrarmi tutto l’amore firmò, senza che io glielo chiedessi, un rotolo di papiro con l’inchiostro nero e il sigillo di cera. Da quel momento avrei gestito tutte le sue finanze private!
“Sei l’unica di cui mi fido.” Mi disse.

DRUSO
Intanto la nostra famiglia cresceva. Giulia, la figlia di Scribonia e Ottaviano, mi chiamava «mamma» ed io le insegnavo a ricamare e a contare i sesterzi. Tiberio a undici anni discuteva già di leggi con Augusto; Druso a otto preferiva i cavalli. Ogni sera cenavamo tutti insieme: Augusto al centro, io alla sua destra. Parlavamo di tutto: rendite, province, poesie. Dopo cena, i bambini andavano a letto; noi due restavamo sul terrazzo. Era amore vero. Ogni ruga sui nostri visi era il segno che il tempo ci apparteneva.

Nel 20 a.C. Mio figlio Druso sposò Antonia Minore. La cerimonia fu molto sobria: Augusto voleva evitare chiacchiere dopo Marcello. Antonia era la nipote che Augusto amava come figlia e Druso era il mio orgoglio. Durante il banchetto, Augusto alzò il calice e urlò: “A Druso, generale di Roma.”

Cinque anni dopo Druso partì per la Germania. Ogni sua lettera era un trionfo: ponti sul Reno, tribù sottomesse, aquile catturate.
Io le leggevo ad Augusto la sera e lui chiudeva gli occhi rivedendo se stesso giovane. Una sera mi disse: “Tuo figlio è il mio braccio destro.” Io annuii, non aggiunsi altro. “E presto sarà il mio erede.”
Lo abbracciai ma quella felicità durò poco. Un messaggero a cavallo, coperto di fango ci diede la triste notizia: “Druso è caduto da cavallo. Germania. È morto in battaglia con onore.”
Augusto crollò, ma io non crollai.

GIULIA
Quando Giulia compì sedici anni, suo padre la diede in sposa a Marcello, suo nipote prediletto e il primo della linea. Ma quel matrimonio durò solo due anni e nel 23 a.C. Marcello diciannovenne morì per un febbrone. Augusto quando seppe la notizia si piegò in due come un albero spezzato dal fulmine. Giulia si rinchiuse in se stessa, ma sapeva già che suo padre le avrebbe trovato presto, molto presto, un altro marito.

E così fu. Augusto la fece sposare con Marco Vipsanio Agrippa. Lei aveva diciotto anni e lui 42, lei non voleva, ma suo padre non sentì ragioni e alla fine fu costretta a sposarlo. Quel matrimonio durò 9 anni e nacquero quattro figli. Agrippa poi morì tra le braccia di Giulia in una villa in Campania. E come al solito Augusto non perse tempo e costrinse sua figlia vedova a sposarsi con mio figlio Tiberio, suo fratellastro. Augusto organizzò tutto: dote, cerimonia, discorsi. Ma Tiberio non amava Giulia anche perché per obbedire ad Augusto aveva dovuto divorziare da sua moglie Vipsania Agrippina, che amava profondamente.

Ma a Roma non si comanda, si obbedisce. E con quella mossa Augusto, ormai sessantasettenne, aveva designato al trono mio figlio Tiberio e sua figlia Giulia imperatrice!

Giulia però non si diede per vinta e in poco tempo cambiò vita, da moglie fedele di Agrippa divenne una donna infedele, assetata di vita e di piaceri. Cercò altrove il fuoco che Tiberio le negava. La sera tornava a casa all’alba con i vestiti strappati, i capelli scomposti e le labbra gonfie. Diverse voci riferivano di averla vista uscire dal portico di Ottavia con un gladiatore oppure al Foro, sotto le arcate, con un cavaliere. Sia da sposata che da vedova, sia che il marito fosse appena morto o già sepolto e sia che i suoi figli fossero vivi o appena morti, Giulia non si faceva mancare amanti di ogni parte politica, ceto o nazionalità. Il suo appetito sessuale e la sua dissolutezza erano ormai diventati proverbiali per tutta Roma.

L’ESILIO DI GIULIA
Augusto non dormiva più, era esasperato. Negli scatti d’ira diceva: “È mia figlia, ma è anche la vergogna di Roma.” E dopo l’ennesimo scandalo consigliai ad Augusto di spedirla lontano da Roma. “Pandataria.” Dissi. Lui accettò il mio consiglio e nella primavera del 2 a.C. Giulia insieme a sua madre Scribonia salpò per l’isola. Anche in quel caso scrissi una lettera mai spedita: “Giulia, figlia di Augusto, figliastra mia, ti ho allevata come figlia, cresciuta come una sorella, ti ho dato il mio nome, i miei consigli, ma tu hai sputato su tutto. Roma non è un bordello. Tuo padre ti ha dato il mondo; tu gli hai dato solo scandali. Ora il mare ti tiene. Impara il silenzio.”

LA MORTE DI AUGUSTO
A Nola, la sera del 14 d.C. Augusto morì tra le mie braccia. Sentii il suo ultimo respiro, lo baciai sulla fronte e gli chiusi gli occhi. Sussurrai: “Addio, amore mio. Ora tocca a me. Giulia Augusta!” Qualche mese dopo, mio figlio Tiberio fu incoronato al Foro. Io gli ero accanto velata di porpora e fui io a mettergli la corona d’alloro sulla testa. “Per Roma.” Dissi, lui annuì sorridendomi. E in quel momento mi sentii più vicina agli dei che a Tiberio.
Nel 29 mi ammalai Tiberio mi raggiunse da Capri per starmi vicino. Avevo quasi ottant’anni. Mi lavarono con acqua di rose, mi vestirono di porpora. Mi misero il flammeum, quello che portavo il giorno delle nozze. Augusto era cenere nel mausoleo. Druso cenere in Germania. Io Augusta Iulia, erede, madre, vedova, figlia di un dio. Beh sì poteva anche bastare. Chiusi gli occhi.

EPILOGO
Livia Drusilla visse settant’anni un’età ragguardevole per quei tempi. L'orazione funebre fu pronunciata dal pronipote Caligola, che, dopo la caduta in disgrazia della madre Agrippina maggiore, aveva vissuto nella casa di Livia. Fu Claudio, nel 42, a divinizzare la propria nonna. Livia Drusilla veniva onorata in occasione dei giochi pubblici da un carro trainato da elefanti che portava la sua immagine; nel tempio di Augusto le venne dedicata una statua; corse di carri vennero indette in suo onore, mentre le donne dovevano nominarla nei loro giuramenti.

 

 


 
IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA

 






 
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