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STORIE DI ROMA

IL DIARIO DI GIULIA
FARNESE LA CONCUBINA PAPALE
Fu l'amante di papa Alessandro VI.
La sua avvenenza, che le valse l'appellativo di Giulia la Bella,
aprì a lei e alla sua famiglia la via del potere e della ricchezza,
dando inizio alle fortune di casa Farnese... (Capodimonte, 1475
Roma, 23 marzo 1524)

LE MIE ORIGINI Oggi, mentre contemplavo il lago
di Bolsena dalla finestra della mia camera nel castello
di famiglia, ho sentito il bisogno di fermare il tempo e
affidare al mio diario pensieri che da tempo mi
affollano la mente. Sono Giulia Farnese, figlia di
questa terra antica e nobile, qui ci sono le mie origini
che risalgono al mio nonno paterno, Ranuccio Farnese,
che tutti chiamavano "il Vecchio". Egli fu il vero
capostipite della nostra dinastia, colui che elevò la
nostra famiglia da nobili di provincia a signori
rispettati. Nel 1449, con grande devozione e
lungimiranza, edificò sull'isola Bisentina, nel cuore
del nostro amato lago di Bolsena, il sepolcro di
famiglia. Quel luogo sacro, circondato dalle acque
tranquille, è diventato il riposo eterno per molti dei
nostri, un simbolo della nostra continuità. I Farnese
erano, e in parte ancora siamo, una nobile famiglia di
provincia, proprietari di vasti territori intorno al
lago: Capodimonte, dove io stessa ho visto la luce,
Marta con le sue rive pescose, e l'Isola Farnese, oltre
a molte altre terre fertili che ci hanno dato forza e
indipendenza.
Mia nonna, la moglie di Ranuccio,
era Agnese Monaldeschi, di antica e nobile stirpe
orvietana. I Monaldeschi sono una casata fiera, con
radici profonde in quella città eterna di Orvieto, e il
loro sangue ha portato nella nostra famiglia
quell'orgoglio guerriero che ci ha permesso di resistere
alle tempeste della politica romana.
Mia madre,
invece, Giovanna Caetani, detta Giovannella, è una donna
di grande bellezza e intelligenza, discendente dai duchi
di Sermoneta. La sua famiglia, i Caetani, è tra le più
illustri del Lazio: da loro nacque papa Bonifacio VIII,
quel pontefice potente che segnò la storia della Chiesa
con la sua bolla Unam Sanctam. Grazie a lei, il nostro
sangue si è unito a quello di chi ha toccato il trono di
Pietro, portando onore e ambizione nella nostra casa.
E poi c'è mio fratello Alessandro, il maggiore
tra noi fratelli. Egli ha scelto la via della Chiesa,
come molti secondogeniti nobili, e già ora occupa
posizioni di rilievo nella Curia romana. Ho fiducia che
il suo cammino lo porterà lontano: un giorno, come mi
sussurra il cuore, egli salirà al soglio pontificio con
il nome di Paolo III. Sarà lui a elevare la nostra
famiglia ai vertici del potere, rendendo i Farnese
eterni nella storia.
Scrivendo queste parole,
sento un misto di orgoglio e malinconia. Questa terra
intorno al lago, con i suoi ulivi e le sue acque che
riflettono il cielo, è la mia radice. Da qui siamo
partiti, nobili di provincia, per intrecciare il nostro
destino con quello di Roma. Che Dio protegga i
Farnese, e che queste origini ci guidino sempre!
******
LA MIA ADOLESCENZA Sono nata e ho
trascorso i primissimi anni della mia vita nelle terre
dei Farnese, tra Capodimonte e le rive del lago di
Bolsena. Mio padre, signore di quelle terre, era un uomo
severo, ma giusto, io lo conobbi appena. Morì quando
avevo soltanto tre anni, lasciando mia madre vedova con
quattro figli da crescere. Il dolore di quella perdita
segnò la nostra casa, e presto fu deciso che la mia
educazione non poteva continuare tra le mura di un
castello di provincia.
Così, ancora bambina, sono
stata mandata qui a Roma, affidata alle cure delle
monache benedettine. All’inizio piansi molto: il viaggio
in carrozza fu lungo, e il distacco da mia madre e dai
miei fratelli mi sembrò insopportabile. Ma col tempo
queste mura sono diventate la mia seconda casa. Qui ho
imparato molto più di quanto avrei potuto nelle nostre
terre. Oltre alle discipline tradizionali – lettura,
scrittura, aritmetica, musica, ricamo – le sorelle mi
hanno insegnato i codici comportamentali necessari per
una donna del mio rango. Come camminare con grazia senza
far frusciare troppo l’abito, come abbassare lo sguardo
al momento giusto, come parlare con voce dolce ma ferma,
come sorridere senza mostrare troppa familiarità.
Mi hanno istruita sull’arte della conversazione,
sulle precedenze a tavola, sul modo di rivolgermi a
cardinali e nobili senza mancare di rispetto né apparire
troppo audace. Ogni gesto, ogni parola, è stata
modellata perché un giorno potessi rappresentare
degnamente la mia famiglia nel gran teatro della corte
romana. A volte, quando prego in cappella, penso al lago
di Bolsena e mi chiedo se un giorno tornerò a quelle
rive come signora maritata, o se il mio destino sarà
altro. Ma so che tutto ciò che sto imparando qui
servirà: la bellezza e il lignaggio da soli non bastano;
occorre sapere come muoversi nel mondo degli uomini
potenti senza esserne schiacciata. Che la Vergine mi
protegga e illumini il mio cammino!
******
IL MIO MATRIMONIO
Piove da giorni su queste
colline, e il vento ulula intorno al castello come un
lamento antico. Mi sono chiusa nella mia stanza con un
braciere acceso e ho deciso di scrivere di lui, di Orso,
mio marito, senza più veli di cortesia. Il tempo ha reso
possibile dire la verità che allora tenevo sepolta nel
cuore.
Fui concessa in moglie a Orso Orsini,
figlio di Lodovico Orsini e di Adriana de Mila, cugina
del potente cardinale Rodrigo Borgia, spagnolo di
nascita, ma signore assoluto nella Curia romana. Le
nozze furono celebrate a Roma il 21 maggio 1489, nella
magnifica dimora dello stesso cardinale Borgia, quel
palazzo che già allora emanava ricchezza e potere.
Avevo quindici anni, e il matrimonio era stato
concordato da tempo per unire le nostre casate e
rafforzare le alleanze nella turbolenta politica della
Chiesa. A celebrare il rito fu lo stesso cardinale
Rodrigo Borgia, un uomo di circa sessant'anni, imponente
nella sua porpora, con occhi penetranti che sembravano
vedere oltre l'anima.
Pochi anni dopo,
nell'agosto del 1492, egli sarebbe stato eletto papa con
il nome di Alessandro VI, elevando i Borgia al culmine
del potere terreno. Diventai così nuora di Adriana de
Mila. Lei, donna astuta e devota alla famiglia, era la
cugina del cardinale e la sua confidente; fu lei a
orchestrare tutto, vedendo nel legame con i Farnese
un'opportunità per il figlio e per sé.
Naturalmente non mi sposai per amore! Come ogni donna
del mio rango, il mio matrimonio fu deciso solo per
ragioni di convenienza, e io lo accettai con la
consapevolezza che si addice a una Farnese. L’amore è
lusso per le contadine o per le cortigiane; per noi
nobili è un’illusione che si coltiva dopo, se la fortuna
lo concede, mai prima.
Gli Orsini erano infatti
una delle famiglie più ricche e potenti
dell’aristocrazia romana: signori di vasti feudi, rami
sparsi tra Bracciano, Pitigliano, Monterotondo,
imparentati con papi e re. Possedevano palazzi che
sembravano fortezze e fortezze che sembravano palazzi, e
il loro nome incuteva rispetto e timore nei saloni del
Vaticano. Per noi Farnese, che pure avevamo terre
fertili intorno al lago di Bolsena e un’antica stirpe,
restavamo pur sempre piccola nobiltà di campagna:
signori di castelli remoti, lontani dal cuore pulsante
del potere romano.
Questo matrimonio
rappresentava per noi un’occasione di svolta, un ponte
verso la grande arena della Curia. Mia madre Giovannella
lo capì subito: unendo il nostro sangue a quello degli
Orsini, attraverso Adriana de Mila e il suo legame con
il cardinale Rodrigo Borgia, aprivamo porte che
altrimenti sarebbero rimaste chiuse per generazioni.
Orso, mio sposo, era un ragazzo mite, ma privo di
quella forza che serve a un uomo per dominare; il vero
valore del matrimonio non stava in lui, ma nella rete di
alleanze che portava con sé. Così, a quindici anni,
dissi il mio “sì” davanti al cardinale Borgia senza un
battito di cuore in più per lo sposo, ma con la chiara
coscienza che quel giorno i Farnese smettevano di essere
solo signori di provincia per diventare giocatori nella
partita romana. E infatti così fu: da quella unione
nacquero i favori, i benefici e le cariche per
Alessandro. L’amore non c’era, è vero. Ma la convenienza
portò grandezza, e di questo non mi pento.
Si
dice, e si diceva già allora nei corridoi di Roma, che
mio marito non avesse un bellissimo aspetto. Era un
eufemismo gentile. La verità è che Orso Orsini era
brutto, in un modo che faceva voltare lo sguardo per
pietà più che per orrore. Lo chiamavano, non sempre
sottovoce, Monoculus Orsinus, l’Orsino orbo, perché un
occhio gli mancava fin dalla nascita o da una malattia
infantile: l’orbita era chiusa, coperta da una palpebra
affossata che gli dava un’aria perpetuamente sospettosa.
Rido ancora, quando penso a quel soprannome: a
Roma le malelingue non perdonano nemmeno i potenti. Ma
non era solo l’occhio. Era troppo alto di statura,
sproporzionato, con braccia e gambe lunghe che
sembravano non appartenere allo stesso corpo. Magro fino
all’ossatura, con spalle strette e un petto incavato, si
muoveva come un airone malato. E poi c’era la sua pelle:
affetto da una devastante forunculosi che gli deturpava
il viso e il collo con bubboni rossi, infiammati, alcuni
suppuranti. Le cure dei medici – salassi, impacchi,
pozioni – non facevano che peggiorare le cicatrici.
Quando si avvicinava, l’odore di unguenti e di pus era
tale che dovevo trattenere il respiro.
Non lo
amavo. Come potevo? Il nostro matrimonio è stato un
contratto, un’alleanza di terre e di favori, e io vi
sono entrata con la rassegnazione di una fanciulla
educata in convento. Ma col tempo, in alcuni momenti, lo
detestavo. Detestavo il suo tocco goffo la prima notte
di nozze, quando tremava più di me; detestavo il modo in
cui mi guardava con quell’unico occhio, pieno di un
desiderio che non riuscivo a ricambiare; detestavo
soprattutto la sua debolezza, la sua accettazione
silenziosa per le mie amicizie, come se fosse un prezzo
da pagare per tenere i benefici che piovevano sulla sua
casa. Eppure, non gli augurai mai la morte.
Quando morì, nel 1500, provai un sollievo che mi fece
vergognare davanti a Dio. Da allora sono stata libera di
governare Carbognano, di crescere mia figlia Laura, di
godere dei frutti di ciò che la mia bellezza e la mia
intelligenza avevano conquistato. Che il Signore
abbia pietà di lui, e di me per i pensieri che ho
nutrito!
******
IL MIO ASPETTO Questa
mattina, mentre la serva mi pettinava i capelli davanti
allo specchio veneziano che Alessandro mi ha donato, ho
osservato a lungo il mio volto e ho pensato quanto la
bellezza sia un dono del cielo, ma anche un'arma a
doppio taglio in questo mondo di corti e intrighi. Sono
di media statura, non alta come alcune dame spagnole che
circondano il papa, né piccola come le fanciulle di
Firenze.
La mia carnagione è perlacea, pallida e
luminosa, come la madreperla che si trova nelle
conchiglie del nostro lago di Bolsena – un pallore che
le monache del convento lodavano come segno di nobiltà,
lontano dal sole che abbronza le contadine. I miei occhi
sono grandi e scuri, quasi neri, capaci di esprimere ciò
che la bocca tace; molti dicono che in essi risiede il
mio potere, perché sanno guardare con dolcezza o con
fuoco, a seconda di chi ho di fronte.
Quanto ai
capelli, naturalmente corvini e folti, li schiarisco
come vuole la moda del tempo: con decotti di erbe,
cenere e limone, fino a farli diventare di un biondo
dorato che cattura la luce. È un rito lungo e paziente,
ma necessario; a Roma, una donna con chiome chiare è
vista come più angelica, più vicina alle Madonne dei
pittori.
Rivedendomi oggi, con qualche ruga che
il tempo ha inciso e i capelli che richiedono più cura
per mantenere il colore, rifletto su come questa
apparenza mi abbia aperta le porte del Vaticano e
elevata la mia famiglia. La bellezza svanisce, ma ciò
che ha costruito rimane. Che la Madonna mi conceda di
invecchiare con dignità, come meritatamente spetta a una
Farnese!
******
RODRIGO BORGIA Stanotte
il caldo mi ha tenuto sveglia, e i ricordi sono tornati
come un fiume in piena. Ho deciso di scrivere ciò che
mai ho confidato a nessuno, nemmeno alle pagine più
intime di questo diario.
Rodrigo era un uomo
molto incline alla bellezza femminile, un appetito che
non nascondeva nemmeno sotto la porpora cardinalizia.
All’epoca del mio matrimonio, nel 1489, aveva già avuto
quattro figli dalla sua amante principale, Vannozza dei
Cattanei – una donna romana di grande fascino e
discrezione, che gli diede Cesare, Juan, Lucrezia e
Goffredo. E ce n’erano altri, nati da donne rimaste
sconosciute, frutto di passioni fugaci nei suoi viaggi o
nei palazzi della Curia. Non si vergognava dei suoi
desideri; li viveva con la stessa energia con cui
perseguiva il potere. Io, non ancora quindicenne, lui
sessantenne, vigoroso e autoritario, fui così offerta su
un piatto d’argento.
Adriana de Mila, mia suocera
e sua cugina e mia madre Giovannella si riproponevano
grandi benefici. Un cardinalato per Alessandro, terre e
titoli per i Farnese, un posto al tavolo dei potenti. Mi
sentivo una perla delicata e preziosa aggiunta alla sua
già ricca collezione di donne belle e giovani che aveva
sedotto nel corso degli anni.
Non ero la prima,
né sarei stata l’ultima, ma fui la più splendente. Lui
mi chiamava “Giulia la Bella”, e Roma presto mi
soprannominò “la sposa di Cristo”. Accettai quella corte
perché sapevo che era il prezzo per l’ascesa della mia
famiglia. E in fondo, in quelle lusinghe, trovai non
solo dovere, ma anche un piacere che una fanciulla di
convento non poteva immaginare.
Il mio primo
incontro con Rodrigo Borgia avvenne il 21 maggio 1489,
il giorno delle mie nozze con Orso Orsini. La cerimonia
si tenne nella dimora del cardinale Rodrigo Borgia. Ero
vestita di broccato bianco e oro, i capelli corvini
schiariti. Entrai al braccio di mia madre, timorosa, ma
fiera del mio rango Farnese. Fu lì, durante la
cerimonia, che lo vidi per la prima volta da vicino. Il
cardinale Rodrigo, sessantenne, celebrò egli stesso il
matrimonio. Era un uomo imponente, con il volto forte,
il naso aquilino, gli occhi scuri. Indossava la porpora
cardinalizia, e la sua presenza dominava la sala.
Mentre pronunciava le parole del rito, il suo
sguardo si posò su di me più a lungo del necessario.
Sentii un brivido: non era lo sguardo paterno di un
prelato, ma qualcosa di più intenso, di ardente. Adriana
de Mila, mia suocera e sua cugina, mi presentò a lui
giorni. Dopo la cerimonia, durante i festeggiamenti, mi
avvicinò con una coppa di vino in mano. "Bella Giulia!"
Mi disse con quella voce profonda, accentata dallo
spagnolo. "Il Signore ha elargito doni generosi alla tua
casa."
Le sue parole erano cortesi, ma i suoi
occhi parlavano di desiderio. Parlammo poco, di cose
banali – del lago di Bolsena, della mia educazione in
convento – ma sentii che qualcosa era cambiato. Mia
madre e Adriana scambiarono sguardi complici; sapevano
che quel potente cardinale poteva elevare i Farnese.
La prima notte d'amore arrivò poco dopo, in segreto,
forse poche settimane più tardi, quando già vivevo nella
casa di Adriana e visitavo spesso il palazzo del
cardinale. Una sera, dopo una cena privata, Adriana mi
condusse in una stanza appartata, illuminata da candele
e affrescata con scene mitologiche. Rodrigo mi attendeva
lì, senza la porpora, in una veste semplice che lo
rendeva ancora più umano, più virile. Ero spaventata, ma
anche curiosa: il convento mi aveva insegnato
l'obbedienza, e la famiglia mi aveva sussurrato che quel
sacrificio avrebbe portato grandezza.
Mi prese
tra le braccia con gentilezza inattesa per un uomo della
sua età e potere. Le sue mani esperte sfiorarono la mia
pelle, sciolsero i lacci del mio abito, e mi baciò con
una passione che mi travolse. Rimasi completamente nuda!
Lui fu dolce e possessivo allo stesso tempo; mi chiamò
"Mia Venere", accarezzando i miei capelli biondi,
esplorando il mio corpo giovane con un ardore che mi
fece dimenticare la differenza d'età.
Quella
notte, tra lenzuola di seta in quella stanza profumata
d'incenso, mi donai a lui completamente. Non fu solo
dovere: provai un piacere che non conoscevo, un fuoco
che lui seppe accendere. Da allora, divenne il mio
amante, e io la sua favorita. In cuor mio, conservo il
ricordo di quella notte come un segreto dolce e amaro.
Per lui quell’incontro fu una vera folgorazione. Lo
leggevo nei suoi occhi. Per me invece non fu amore a
prima vista, ero troppo giovane, troppo spaventata. Lui
era completamente accecato dalla passione: mi copriva di
doni, di gioielli, di terre, e io ne ero orgogliosa.
Orgogliosa di aver conquistato un uomo così potente, di
essere al centro del suo desiderio, di sapere che per me
sfidava scandali e pettegolezzi. Per assicurarsi la mia
vicinanza volle che io e mio marito ci trasferissimo nel
palazzo di Santa Maria in Portico, che poi era la
residenza di Adriana de Mila, sua cugina e madre di
Orsino! Quel palazzo, costruito nuovo accanto al
Vaticano, con un passaggio segreto per le sue visite
notturne, divenne la mia casa insieme a Lucrezia Borgia
e ad Adriana. Lì potevamo vivere come una famiglia...
lontane dagli occhi del mondo, ma vicine al potere.
Vannozza era ancora nel suo cuore, ma io la soppiantai
presto, diventando la favorita giovane e splendente.
Che Dio mi perdoni, se peccato fu!”
******
ADRIANA DE MILA, MIA SUOCERA Fu proprio Adriana,
mia suocera, la principale sostenitrice della relazione
con il cardinale. Donna astuta, vide subito i vantaggi:
benefici per il figlio Orso, cariche per la famiglia.
Adriana era consapevole che tramite la nostra relazione
avrebbe ottenuto molti privilegi – e infatti li ottenne:
terre, onori, influenza nella Curia.
A fare le
spese della tresca amorosa era unicamente mio marito.
Orsino era costretto a recitare il ruolo scomodo del
marito accondiscendente, tollerando tutto in silenzio
per i doni che piovevano su di lui. Ben presto si ritirò
nel castello di Bassanello, lontano da Roma e dalle
umiliazioni. Rileggendo queste righe, provo un misto
di rimpianto e fierezza. Quel legame fu scandalo per
molti, ma salvezza per i Farnese. Che la Vergine
illumini le anime di chi ci giudicò, e perdoni quelle di
chi peccò per ambizione!
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ALESSANDRO FARNESE, MIO FRATELLO La primavera è
arrivata presto quest’anno, e con lei un pacco di
lettere da Roma, tra cui una di mio fratello Alessandro
piena di affettuose benedizioni. Leggendola, non ho
potuto fare a meno di ripensare a quel tempo in cui la
sua rabbia verso nostra madre fu così violenta da
sfociare in un gesto estremo.
Sì, mio fratello
Alessandro accusò nostra madre di aver favorito, anzi
orchestrato, la mia relazione con il cardinale Rodrigo
Borgia. La riteneva colpevole di avermi “venduta” per
ambizione familiare, di avermi spinta tra le braccia di
quell’uomo potente in cambio di futuri benefici. La
collera di Alessandro era sincera: lui, giovane chierico
ambizioso, temeva che lo scandalo potesse macchiare per
sempre il nome dei Farnese e ostacolare la sua ascesa
nella Chiesa.
In un eccesso di furore, arrivò
addirittura a farla imprigionare per alcuni mesi nel
castello di Isola Farnese, accusandola pubblicamente di
lenocinio. Ma il tempo, e soprattutto il potere di
Rodrigo, sanarono tutto. Quando Alessandro comprese che
proprio da quella relazione piovevano onori e ricchezze
sulla nostra casa, il suo silenzio divenne prezioso. In
cambio, Rodrigo lo premiò riccamente: prima tesoriere
della Chiesa, poi, nel 1493, la porpora cardinalizia a
soli venticinque anni. Il “cardinale della gonna”, lo
chiamarono i maligni, per via della mia influenza. Da
allora Alessandro non parlò più della prigionia di
nostra madre, e col tempo la perdonò completamente.
Oggi, onora la sua memoria come quella di una donna
lungimirante che salvò la dinastia Farnese.
******
LUCREZIA BORGIA Nella casa di Santa
Maria in Portico, quel palazzo elegante accanto a San
Pietro che Rodrigo aveva fatto costruire per Adriana,
abitava anche Lucrezia Borgia, la figlia prediletta del
mio amante. Aveva allora dodici anni, cinque meno dei
miei, quando mi trasferii lì con Orso, e presto
diventammo inseparabili. Fra noi nacque un legame
profondo, affascinate soprattutto dalla diversità delle
nostre origini. Io ero cresciuta tra le campagne del
lago di Bolsena, educata in convento con semplicità:
conoscevo il profumo della terra umida, il suono delle
campane lontane, la disciplina delle monache. Lucrezia,
invece, era figlia della Roma di quegli anni, nata e
allevata negli intrighi della Curia, scaltra oltre la
sua età, abituata ai banchetti sontuosi, ai cardinali
ossequiosi, ai segreti sussurrati nei corridoi del
potere.
Lei mi insegnava i giochi della corte,
come sorridere senza promettere, come ascoltare senza
rivelare; io le raccontavo delle stelle chiare sopra il
lago, delle feste di paese, della libertà di correre tra
gli ulivi. Passavamo ore insieme a pettinarci i capelli,
a provare abiti, a confidarci sogni di fanciulle. Lei
ammirava la mia serenità campagnola, io la sua vivacità
cittadina. Quel legame durò anche quando le nostre vite
presero strade diverse: matrimoni, esili, dolori. Figlia
illegittima terzogenita di Rodrigo e della sua amante
Vannozza Cattanei, fu trattata da sempre come una pedina
di scambio. Quando suo padre ascese al soglio pontificio
la dette inizialmente in sposa a Giovanni Sforza, ma
pochi anni dopo, in seguito all'annullamento del
matrimonio, Lucrezia sposò Alfonso d'Aragona, figlio
illegittimo di Alfonso II di Napoli. Dopo l’assassinio
di suo marito da parte di Cesare, fratello di Lucrezia,
fu data in sposa ad Alfonso I d'Este, primogenito del
duca Ercole I di Ferrara, il quale dovette, pur
riluttante, accettarla come consorte.
Ancora
oggi, quando penso a lei, provo tenerezza per quella
bambina bionda che fu la mia più cara amica in quegli
anni romani. Che Dio protegga l’anima di Lucrezia e
benedica la memoria di quei giorni, tra luci e ombre!
******
LAURA MIA FIGLIA La primavera tarda
ad arrivare quest’anno, e io, con il corpo sempre più
debole, passo le giornate a rileggere queste pagine e a
riflettere su ciò che è stato. La mia unica figlia,
Laura, è ora madre a sua volta, e presto verrà a
trovarmi. Pensando a lei, non posso evitare di tornare a
quel tempo benedetto e turbolento del 1492 quando lei
venne alla luce nella casa di Santa Maria in Portico.
Lei aveva gli occhi scuri come Rodrigo, il naso aquilino
appena accennato, che non ricordavano affatto il povero
Orso e quindi non ebbi dubbi di chi fosse figlia anche
se fu presentata ufficialmente come figlia di mio
marito, e ne divenne unica erede, ricevendo da lui il
feudo di Carbognano dopo la sua morte. Laura crebbe
bella e forte, sposò nel 1505 Niccolò della Rovere,
nipote di papa Giulio II, e diede alla luce figli che
portarono avanti il nostro sangue. In lei scorreva il
sangue di un pontefice! Che Dio accolga la mia anima,
e perdoni i peccati commessi per amore della famiglia!
******
L’AMANTE PAPA L’11 agosto dello
stesso anno in cui nacque mia figlia, a sessantun anni,
Rodrigo Borgia venne innalzato al trono di San Pietro,
diventando papa col nome di Alessandro VI. Ricordo quel
giorno come un turbine di campane e festeggiamenti: Roma
intera esultava per il nuovo pontefice spagnolo. La
nomina non mutò minimamente il suo amore per me:
continuai ad essere la sua preferita e la benvenuta fra
le sue braccia, visitandolo spesso negli appartamenti
vaticani attraverso quel passaggio segreto che lui
stesso aveva fatto costruire.
Era emozionante
essere passata da amante del cardinale a concubina
ufficiale del papa. Con la nomina a papa, la sua
famiglia ebbe la giusta ricompensa, e noi Farnese più di
tutti. Eh sì, l’anno successivo alla sua elezione, nel
1493, Rodrigo nominò cardinale mio fratello Alessandro.
Anche mio marito Orsino fu destinatario di una generosa
elargizione da parte del papa.
******
LA QUASI SCOMUNICA La morte mi guarda da vicino, lo
sento nel corpo che si indebolisce ogni giorno di più.
Prima di chiudere gli occhi per sempre, voglio affidare
a queste pagine gli ultimi ricordi di quel tempo romano,
quando la passione di Rodrigo ardeva ancora come una
fiamma incontrollabile.
Per un certo periodo
divenni dama d’onore di Lucrezia Borgia, la figlia
prediletta del mio amante. Capitò durante il soggiorno a
Pesaro, che si protrasse per alcuni mesi nel 1494:
accompagnai Lucrezia, appena sposata con Giovanni
Sforza, insieme ad Adriana de Mila, in quel palazzo
marchigiano affacciato sul mare. Là, tra giardini e
corti illuminate, servii come dama della sua corte,
pettinandole i capelli biondi, consigliandola nei suoi
primi passi da sposa, condividendo confidenze notturne.
Il nostro legame, già profondo a Roma, si rafforzò in
quelle settimane lontane dalla Curia. Ma Rodrigo mi
reclamava con forza a Roma: era troppo innamorato di me,
ossessionato, e come tutti gli innamorati mi scriveva
lettere d’amore e d’odio, alternate tra dolci promesse e
rimproveri furiosi per la mia assenza.
Eppure,
invece di ritornare subito a Roma, mi recai a
Capodimonte, nel feudo di famiglia, a fare visita a mio
fratello Angelo, gravemente malato. Arrivai troppo
tardi: Angelo morì il 12 luglio 1494, prima che potessi
abbracciarlo un’ultima volta. Il dolore mi travolse, e
lì, sul lago di Bolsena, mi ammalai anch’io, insieme ad
Alessandro.
Rodrigo non comprendeva il mio dolore
e mi minacciò di scomunica. Ripeto: Rodrigo era pazzo
d’amore e di passione; accecato dalla gelosia, mi
scrisse parole durissime, accusandomi di ingratitudine,
minacciando me, Adriana e la famiglia tutta di scomunica
latae sententia e e confisca dei beni se non fossi
tornata immediatamente, e soprattutto se avessi osato
andare da mio marito a Bassanello. Non si rendeva conto
che ero davvero in pena per mio fratello, straziata dal
lutto.
Dopo la morte di Angelo, tornai a Roma,
scortata da cavalieri papali. Lo ricordo come se fosse
oggi: entrai negli appartamenti vaticani attraverso il
passaggio segreto, e Rodrigo mi accolse con lacrime e
abbracci. Trascorsi la più bella notte della mia vita in
Vaticano, immediatamente perdonata per la mia
“insolenza” dall’amorevole pontefice: fu una notte di
passione riconciliata, di tenerezza e fuoco, come ai
primi tempi. Ma purtroppo fu l’ultima notte di felicità
vera.
******
DOPO LA MORTE DI RODRIGO
BORGIA In seguito morirono sia mio marito Orso, nel
1500, che Rodrigo, nell’agosto 1503. Con la fine del suo
pontificato, il potere dei Borgia crollò, e io, non più
al centro della corte, mi ritirai a Carbognano, in
questo castello che fu dono papale a Orso e che divenne
la mia dimora.
Dopo il breve pontificato di Pio
III, che morì ad un mese dall’elezione nell’ottobre
1503, il conclave elesse papa Giuliano della Rovere,
acerrimo nemico dei Borgia, che assunse il nome di
Giulio II. Roma cambiò volto: i Borgia fuggirono o si
nascosero, Cesare marcì in prigione, e io, vedova di
Orso da tre anni, mi ritirai per un tempo nelle mie
terre. Non ero più la fanciulla bionda che infiammava il
Vaticano, ma una donna matura, ancora bella, con
l’esperienza di chi aveva navigato tempeste.
Tornai a Roma, ma questa volta non per me stessa: tornai
per dare un futuro a mia figlia Laura. Compresi bene
l’opportunità di un matrimonio con la famiglia Della
Rovere, ora al culmine del potere. Le trattative,
condotte con discrezione e astuzia, andarono a buon
fine, tanto che il 15 novembre del 1505 mia figlia,
allora tredicenne, sposò Niccolò della Rovere, figlio di
una sorella del pontefice. Fu un’unione benedetta dallo
stesso Giulio II: Laura entrò così nel cuore della nuova
casata papale, e io ottenni protezione e rispetto in
un’epoca ostile ai ricordi dei Borgia. Ora, mentre la
penna trema nella mia mano, affido queste pagine al
Signore. Che perdoni i miei peccati e benedica i
Farnese!
******
SECONDO MATRIMONIO Ma
per me il tempo degli amori non era finito… Dopo i primi
anni di vedovanza, passati in solitudine e preghiera, mi
riaffacciai al mondo e nel 1506 sposai Giovanni Capece
di Bozzuto, esponente della piccola nobiltà napoletana.
Fu un matrimonio quieto, senza passione travolgente, ma
con affetto sincero: Giovanni era un uomo gentile,
colto, e mi offrì compagnia in questi anni di maturità.
Non ebbe lunga durata – morì presto – ma mi lasciò
serenità.
Nello stesso anno assunsi il governo di
Carbognano, il feudo che Alessandro VI aveva donato ad
Orsino nel 1494 e che, alla morte di lui, passò a Laura
e quindi sotto la mia amministrazione. Fu un’esperienza
affascinante: presi dimora nel castello della cittadina,
una vecchia rocca austera che trasformai in un castello
vero e proprio, con sale arredate, giardini curati,
affreschi alle pareti. Mi dedicai al commercio di
legname dalle foreste vicine, all’allevamento di maiali,
al miglioramento delle terre: imparai a trattare con
mercanti, a rendere giustizia nei tribunali locali, a
far prosperare il feudo. Il popolo mi volle bene: ero
giusta, generosa nelle elemosine, attenta alle loro
necessità.
Qui a Carbognano ho trascorso gli
ultimi vent’anni, lontana dagli intrighi di Roma,
signora rispettata, madre e nonna. Mio fratello
Alessandro, mi onora con visite e lettere; Laura e i
suoi figli portano avanti il nostro sangue unito a
quello dei Della Rovere. La vita mi ha dato molto:
bellezza, potere, passione, dolore, e infine pace.
Presto lascerò questo mondo, ma i Farnese continueranno
a splendere.
******
EPILOGO La tosse mi
tormenta da settimane, e i medici dicono che l’inverno
sarà duro per me. Le giornate si accorciano, e con esse
le mie forze. Eppure, questa notte non riuscivo a
dormire: i ricordi mi assalgono come fantasmi, e tra
essi la voce di Rodrigo, le sue lettere, il suo
desiderio che ancora brucia nella memoria. Se il mondo
mi giudica per essere stata l’amante di uno dei papi più
corrotti della storia della Chiesa io non provo
vergogna, solo una malinconia profonda per ciò che fu.
Quella che doveva essere una semplice storia di letto e
d’interesse si trasformò imprevedibilmente in una
stupenda passione devastante. E la fiamma brillò più a
lungo di quanto si potesse immaginare, alimentata da un
desiderio accecante e da una gelosia morbosa da parte di
Rodrigo. Pensavo di essere solo un trofeo per un potente
cardinale, un mezzo per elevare i Farnese; invece, lui
si innamorò follemente, perdutamente, fino a rendersi
vulnerabile come mai avrebbe dovuto.
Un uomo
innamorato talvolta si rende patetico… Già, il feroce,
risoluto, spregiudicato Rodrigo Borgia, che comprava
cardinali, ordinava veleni, elevava i suoi figli al
potere, nelle mie braccia era un agnellino. Si
scioglieva tra le mie mani, mi supplicava con gli occhi,
mi copriva di doni come un innamorato adolescente.
“Julia ingrata et perfida.” Mi scrisse in una di quelle
lettere furibonde quando, accecato dalla gelosia, mi
reclamava a Roma mentre io ero qui a Capodimonte per mio
fratello malato. Quelle parole mi ferirono, ma oggi le
rileggo con tenerezza: era la gelosia di chi teme di
perdere l’unica cosa che desidera più del potere.
Le sue dame di corte riferivano che ero solita
dormire in lenzuola di seta nera. È vero: le sceglievo
apposta, quelle sete nere come la notte, per esaltare la
mia carne pallida, perlacea, e infiammare così il mio
amato quando entrava nella mia camera. Lui impazziva
vedendomi distesa su quel fondo oscuro, i capelli biondi
sparsi, la pelle che sembrava luminosa come luna. Era un
gioco, un’arte di seduzione che avevo imparato da sola.
Parlavano anche di miscela esplosiva di freschezza,
garbo e seduzione in un corpo di madreperla. La bellezza
è una merce pregiata, necessaria per inebriare gli
ammiratori, soprattutto quando non teme confronti e i
suoi estimatori sono ricchi e potenti. Un valore che va
ben amministrato per trarne il massimo profitto: io lo
seppi fare. Non ero solo bella; sapevo come usare quella
bellezza, con grazia, con intelligenza, senza mai
apparire volgare.
Naturalmente con il bene
placido di mia madre Giovannella e di mia suocera
Adriana. Pensarono bene che un simile tesoro non poteva
appassire tra le mura di un castello di provincia e
nell’intimità di un matrimonio virtuoso con il povero
Orso. Mi offrirono a Rodrigo come si offre un gioiello
raro a un re: per il bene della famiglia, per l’ascesa
che tutti desideravamo. E io accettai, prima per dovere,
poi per passione.
Oggi, non rimpiango nulla.
Rodrigo fu corrotto, sì, ma con me fu sincero. La nostra
passione fu vera, devastante, e forse l’unica cosa pura
in una vita di intrighi. Che Dio giudichi lui, e me.
Io chiudo gli occhi serena!
Il 23 marzo del
1524, Giulia Farnese morì per cause sconosciute all'età
di 50 anni, come ci ricorda una brevissima nota che
l’Ambasciatore del Veneto a Roma, Marco Foscari, inviò
al suo governo il 23 marzo 1524: “La sorella del
Cardinale Farnese, madonna Julia... è morta”
Della bellezza leggendaria di Giulia Farnese, di cui
tanto si parlò ai suoi tempi e di cui ancora oggi si
scrive, sono conservate alcune testimonianze, tra le
quali uno dei personaggi che compaiono ne La
trasfigurazione di Raffaello: il grande artista urbinate
avrebbe impresso in quella figura, ad eterna e
imperitura memoria, le mirabili fattezze di Giulia la
Bella.
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L'articolo è a cura di Adamo Bencivenga



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