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STORIE DI ROMA

IL DIARIO DI CLODIA
La nobildonna romana che
venne additata da Cicerone come prostituta e amante di suo fratello.
Nata con il nome patrizio di Claudia Pulcra era figlia di Appio
Claudio Pulcro, console nel 79 a.C. e di Cecilia Metella Balearica
minore. Nota per essere stata la Lesbia di Catullo. (94 a.C.
circa – post 45 a.C.)

Anno 78 a.C. – 12
Maggio. Oggi ho compiuto sedici anni. Mio
padre ha fatto sacrificare un toro bianco a Giunone
Lucina per la mia futura fecondità. Che noia! Ho
annunciato a tavola che da oggi voglio essere chiamata
Clodia, non più Claudia. Perché "Claudia" mi suona così
rigido, formale, freddo come il marmo. Mia madre è
impallidita, mio padre ha sbattuto la coppa sul tavolo
ed ha rovesciato il vino. Ma io non ho avuto paura ed ho
detto: "Padre, il popolo parla una lingua più moderna!
Il mio nome è troppo formale. D'ora in poi voglio essere
Clodia. Clodia Pulcra. Suona più leggero, più libero."
Mio fratello Publio che era seduto di fronte a me si è
alzato in piedi ed ha gridato: «Alla libertà di mia
sorella!» Mio padre infuriato mi ha gridato: “Sei
ancora una bambina, devi crescere!” Non ci sono rimasta
male perché capisco mio padre. Lui è Appio Claudio,
console in carica, e giustamente insiste che io mi
comporti con l'austerità degna di una Claudia. Lui è
attento ai miei atteggiamenti, alla mia immagine,
perfino alla mia postura, e mi ha detto: "Claudia,
siediti dritta! Una matrona deve essere l'esempio della
virtù romana."
Publio Clodio Pulcro Publio,
mio fratello, mi ha sorriso, è venuto verso di me e mi
ha abbracciata, è l'unico ad avermi capito. Lui è il mio
spirito gemello. Mi ha presa per mano e siamo usciti
nell'orto e mentre passeggiavamo mi ha sussurrato:
"Cambiare il nome è il primo atto di libertà, sorella.
Non permettere mai a nessuno di definirti." Quella
complicità mi ha scaldato il cuore. L’ho sento nostra,
bollente, come un fuoco che arde. La gente mormora,
certo, ma il loro giudizio per me è come polvere.
Quando ci siamo fermati dietro la siepe di alloro,
mi ha fissato e poi mi ha baciata sulla bocca, come
facevamo da bambini, ma stavolta è stato diverso. La sua
lingua è rimasta più a lungo tra le mie labbra. “Sei
bellissima quando sfidi il mondo, Clodia.” Mi ha
sussurrato ed io ho sentito il mio corpo rispondere
prima ancora della mente. Ho sentito le sue mani sotto
la mia stola, sul seno, sui fianchi. Ci siamo seduti e
abbiamo riso piano, per non farci accorgere dagli
schiavi. Lo so, Publio voleva farmi sentire tutto il suo
affetto e la sua approvazione o forse era solo un gioco
o forse no. Ma è nostro.
Anno 78 a.C. –
Le Idi di maggio (tre giorni dopo il mio sedicesimo
compleanno) Non riesco a dormire. Il vento
di primavera entra dalla finestra aperta e porta l’odore
dei giardini di sotto, rose appena sbocciate e terra
umida. Stanotte è successo di nuovo, ma non è stato più
un gioco. Dopo cena, mentre mio padre e mia madre
discutevano con gli ospiti del processo contro Verre,
Publio mi ha fatto cenno con gli occhi. Ci siamo
allontanati senza che nessuno se ne accorgesse. Siamo
scivolati nella biblioteca piccola, quella che dà sul
peristilio interno, dove le lampade a olio sono sempre
basse perché mio padre dice che la luce forte rovina i
rotoli.
Publio ha chiuso la porta di legno di
cedro alle nostre spalle. Sì sì sapevo cosa sarebbe
successo e non mi sono opposta. Il chiavistello ha fatto
un rumore secco che mi ha fatto sobbalzare il cuore. Lui
si è voltato, era bello da morire. Indossava solo la
tunica corta da casa, senza subligaculum. L’ho visto
gonfio sotto il lino. “Clodia…” Ha sussurrato, e la voce
gli tremava come quando da bambini ci nascondevamo
dietro le colonne durante i temporali. Mi sono
avvicinata. Sentivo l’odore della sua pelle, sudore,
mirto e vino non ancora digerito. “Mostrami quanto sei
diventata donna.” Ha detto e mi ha preso il viso tra le
mani.
Sono sincera! L’ho baciato per prima! Non
come bambini. Gli ho aperto la bocca con la lingua, gli
ho morso il labbro inferiore fino a fargli male. Lui mi
ha stretta forte, sentivo le sue mani maschie sul mio
seno nudo. I capezzoli si sono induriti subito,
dolorosamente. “Sei più bella di Afrodite.” Ha mormorato
contro il mio collo, poi è sceso a baciarmi lì, lì dove
il cuore batteva così forte che temevo lo sentissero gli
schiavi nel corridoio.
Mi ha spinta contro lo
scaffale dei poeti greci. Un rotolo di Saffo è caduto a
terra, si è aperto sul pavimento come un presagio.
“Toccami, Publio, toccami per favore!” L’ho supplicato
così ardentemente che la voce non sembrava più la mia.
Lui ha sollevato la mia stola fino alla vita. Non
portavo niente sotto, come le ragazze greche che danzano
nei simposi. Le sue dita mi hanno trovata già bagnata.
“Per gli dèi, Clodia…” Ha ansimato. Mi ha infilato
dentro un dito, poi due. Sentivo il gorgoglio del mio
nettare denso. Ho afferrato la sua tunica, l’ho tirata
su, ho preso il suo sesso duro nella mano. L’ho stretto.
Era caldo, pulsante, grande e duro come una pietra.
Ci siamo guardati negli occhi. Nessuna parola. Solo
il respiro pesante pieno di desiderio. Mi ha sollevata,
mi ha messo a sedere sul tavolo dei rotoli. Ha aperto le
mie cosce. “Se urli, ci scoprono.” Ha sussurrato. “Non
urlerò, Publio, sono tua, prendimi! Fammi sentire
donna!” Lui è entrato piano, piano, fino in fondo. È
stata la mia prima volta, il dolore è stato breve,
subito sostituito da un calore che mi ha fatto tremare
le ginocchia. Abbiamo cominciato a muoverci insieme,
lentamente, come se avessimo fatto questo da sempre. Il
tavolo scricchiolava. Un altro rotolo è caduto. Gli ho
affondato le unghie nella schiena. Lui mi ha morso la
spalla per non gridare.
Quando è venuto ho
sentito il suo corpo irrigidirsi, poi crollare contro il
mio. Siamo rimasti così, uniti, sudati, con il cuore che
batteva all’unisono. Dopo, mi ha baciata sulla fronte,
dolcemente, come un amante, non come un fratello.
“Questo è il nostro segreto, Clodia. Il nostro patto di
sangue e di piacere.” Ho annuito. Mi sono pulita con la
sua tunica, poi l’ho baciato ancora, piano. “Se un
giorno il mondo ci condannerà per questo… che ci
condanni pure. Io non rinnegherò mai ciò che sento
quando sono con te.” Ho detto mentre uscivamo dalla
biblioteca. Poi ci siamo separati, io sono tornata in
camera mia camminando come se avessi le ali.
Adesso scrivo alla luce di una sola lucerna. Tra le
cosce sento ancora il suo calore. La gente mormora
perché ho cambiato il nome in Clodia. Un giorno
mormorerà per ben altro. E io sorriderò. Perché questa
sono io. Clodia. Non la figlia di Appio Claudio. Non la
futura sposa di nessuno. Solo Clodia. E Publio è l’unico
che lo sa davvero.
Anno 70 a.C. – 15
aprile. Otto anni dopo. Oggi sono diventata
moglie di Quinto Cecilio Metello Celere. Ho ventiquattro
anni, lui trentotto. L’anello d’oro è pesante quanto le
sue aspettative. La notte di nozze è stata breve e
meccanica. “Dammi un figlio maschio, Clodia, e avrai
tutto ciò che vuoi.” Gli ho sorriso, poi mi sono voltata
verso la parete e lui ha fatto il suo dovere entrando
nella mia carne secca. Io non sentivo nulla, però ho
fatto finta di godere.
Quando se n’è andato
all’alba, ho fatto venire la mia schiava greca. Mi ha
lavata con acqua di rose e mi ha baciata tra le cosce
finché non ho dimenticato il sapore di mio marito. Lui è
la figura adatta per la figlia di un console, ma la mia
anima si sente imprigionata da questo dovere coniugale.
Certo sì, è un bravo uomo, onorevole, ma non ha la
scintilla di follia che cerco, non è passionale, non mi
scopa l’anima!
Oggi a cena parlando di politica
Metello mi ha detto: "I Gracchi sono un esempio di come
l'eccesso di libertà porti solo all'anarchia. La
Repubblica si basa sull'ordine e sulla sottomissione."
Ed io ho risposto: “Sottomissione? Non è nel mio sangue.
Non sono nata per filare la lana!”
Mi sono
alzata da tavola ed ho dato istruzioni ai servi per
risistemare il mio cubiculum sul Palatino. Deve
diventare il luogo di incontro non dei vecchi senatori
noiosi, ma dei poeti, dei giovani filosofi, dei boni
mores che hanno il coraggio di pensare fuori dagli
schemi. È in questo grigiore che devo cercare la mia
luce. E ho il presentimento che arriverà, la mia
scintilla.
Anno 62 a.C. – 28 Ottobre.
Ancora otto anni dopo. Sono a Verona. Ho
incontrato. Catullo. Sono venuta al nord con Metello per
le sue campagne. Ieri, durante un banchetto in casa di
un pretore locale, l’ho visto. Gaio Valerio Catullo.
Ventidue anni, occhi verdi, bocca da putto. Mi ha
guardata come se fossi una dea appena scesa dall’Olimpo.
A cena mentre mi porgeva una coppa di vino, la
sua mano ha sfiorato la mia: "Mia signora, siete la
grazia fatta persona. La vera bellezza non si trova nel
marmo, ma nella vostra femminilità." "Parole audaci
per un giovane come voi…” Ho risposto. Lui non si è
fatto pregare: “Le parole audaci sono le uniche che
meritano di essere ascoltate. E voi meritate solo
l'amore più folle."
Ho trentadue anni, troppo
vecchia per lui… ho pensato. E invece no! Stanotte è
entrato nella mia camera dalla finestra del peristilio.
Mi ha detto: “Clodia… lasciami solo guardarti.” Ho
sorriso… “Gaio, guardare solo, non basta più.” Lui
incredulo si è fatto spogliare, poi gli ho morso il
collo, gli ho insegnato dove mettere le mani. Era
vergine di donne come me. È impazzito, ho sentito la sua
pelle ardere, si è inginocchiato e mi ha baciata lì,
mille volte. Mi diceva: “Lasciami dissetare alla tua
fonte, Lesbia.” Sì, mi ha chiamata proprio così. Mi
piace quel nome. Suona come segreto, come libertà, come
peccato. Un nome rubato ad una poetessa greca, Saffo,
che mi rende misteriosa, sensuale. Un'essenza, non una
moglie romana.
Lui è così giovane, così...
ardente. I suoi occhi mi hanno bruciata, e per la prima
volta da quando ho sposato Metello, mi sono sentita
desiderata, non solo ammirata come la figlia di Appio
Claudio. E la sua venerazione mi rende femmina, una dea
spregiudicata. Tra le sue braccia non ho pensato a
Metello, non mi sono preoccupata di essere sposata. Ho
bisogno di sentire che la vita non è solo onore e
politica, ma mille baci, dieci, cento, mille ancora...
Anno 59 a.C. – 15 Gennaio. Sono
a Roma, nella mia casa, è notte. Metello è morto
all’improvviso. Veleno? Febbre? Nessuno lo sa. Sono
vedova a trentacinque anni. Libera. Ho indossato la
stola nera solo per il funerale. Ora però voglio vivere,
il mio corpo è impaziente. I baci di Catullo sono
solo un ricordo. Ieri ho incontrato Celio Rufo, lui è
all’inizio della sua carriera politica. È un ragazzo,
molto più giovane di me, i suoi modi non sono
aristocratici, ma il suo sguardo è penetrante, i suoi
modi mi fanno sentire ancora una ragazzina ed io ho
bisogno di non invecchiare.
L’ho incontrato tra
le colonne del Foro. Ero avvolta in una stola di lino
fine che accennava appena al lutto, un nero sbiadito,
più ombra che dolore. Camminavo a passo lento, Metello è
morto da una settimana, e il mondo già mi sembrava più
grande. È stato in quel momento che l’ho visto. Celio
Rufo stava discutendo con un gruppo di giovani patrizi
vicino alla Basilica Giulia. Il tono della sua voce non
implorava attenzione, la pretendeva. Capelli castani
mossi dal vento, le spalle dritte sotto la toga candida
bordata di porpora. Mi sono detta: “Clodia, lui ha solo
ventitré anni. Troppo giovane!” Ma i nostri sguardi si
sono incrociati. Lui si è voltato, ma io non non mi sono
fermata subito. Ho continuato a camminare lasciando che
il fruscio della stola attirasse la sua attenzione.
Celio ha interrotto a metà una frase. I suoi occhi,
di un grigio freddo, quasi metallico, quasi delinquenti,
mi hanno fissata senza pudore, come se mi conoscesse da
sempre. Non c’era compassione in quello sguardo. Non
c’era rispetto per il lutto. C’era solo la fame di
femmina. È a quel punto che ho sentito chiamarmi:
“Clodia…” Poi si è avvicinato: “Ho sentito del tuo
lutto. Roma parla.” Aveva l’accento di chi è nato tra le
ville dei colli, non nei vicoli della Suburra. Ho
inclinato appena la testa: “Roma parla sempre troppo.”
“Mi spiace per il tuo lutto, la stola nera ti sta bene,
ma non ti si addice.” Lui mi ha guardata come se volesse
penetrarmi con gli occhi. Ho sorriso e
maliziosamente ho risposto: “E tu sei sfacciato come
dicono. Tua madre ti ha mai insegnato a non fissare una
vedova come se volessi mangiarla con gli occhi?” “Mia
madre mi ha insegnato a riconoscere le donne vere non
quelle finte. E tu, Clodia, sei viva. Più di quanto Roma
meriti.”
Il silenzio tra noi è durato un battito.
Nessuno dei due si è mosso. Ascoltavo il mio sangue
scorrere più veloce, come se il mio corpo, dopo Verona,
ricordasse di essere desiderato. Non da un vecchio
senatore, non da un marito stanco, ma da un ragazzo con
gli occhi di un lupo. Gli ho sussurrato
maliziosamente: “Cammina con me.” Celio non ha esitato.
Ha lasciato i suoi amici senza una parola. Le nostre
ombre si sono sfiorate. “Dove andiamo?” Mi ha chiesto.
“Dove nessuno ci vede.” Abbiamo camminato come due
predatori che si annusano senza fretta. Io, la vedova
che aveva seppellito il passato. Lui, il giovane che
voleva costruirsi un futuro sulle rovine degli altri e
godere sulla pelle di una donna non troppo vecchia per
rispettare un lutto che non sentiva.
******
Il portico della mia casa sul Palatino era
silenzioso, il sole ormai basso incendiava i mosaici del
peristilio e faceva tremare l’acqua della vasca
centrale. Ho congedato gli schiavi con un cenno secco:
“Andate. Tutti.” Celio è entrato per primo ed io ho
chiuso Roma alle mie spalle. Si è fermato al centro
dell’atrio, la toga ancora immacolata nonostante la
polvere del Foro, si è voltato lentamente a guardarmi.
Non era più il ragazzo del Foro. Era un uomo che sapeva
dove si trovava e perché.
Ho fatto scivolare la
stola nera con un gesto lento, lasciandola cadere su una
panca di marmo. Sotto, indossavo una tunica di lino
color zafferano, quasi trasparente alla luce del
tramonto. Non ero più la vedova. Ero la padrona!
“Siediti.” Ho detto indicando un divano basso coperto di
cuscini cremisi, ma Celio ha fatto un passo verso di me.
“Non sono venuto per sedermi.” “Allora cosa sei
venuto a fare, Celio Rufo?” Lui si è avvicinato ancora,
fino a sfiorarmi il braccio con le dita. Non era una
carezza. Era una presa di possesso. “A dirti che non mi
interessa il tuo lutto. Non mi interessa Metello. Mi
interessi tu. Ora.” Sono rimasta immobile senza
indietreggiare: “E se ti dicessi che voglio essere
corteggiata? Che voglio sentire il desiderio nelle tue
parole?” “Le parole le ho. Ma non sono quelle che si
possono sentire in pubblico.” “Allora dille. Fammi
sentire la tua passione.” Lui mi ha preso il mento,
tra pollice e indice, costringendomi a guardarlo negli
occhi. “Sei una fiamma, Clodia. E io non ho paura di
bruciarmi.” Gli ho afferrato il polso: “Allora bruciati
perché io non ho paura di consumarti.”
Il bacio è
arrivato naturale, senza preavviso. Non è stato dolce,
era più simile ad un morso, un’esplosione di denti e
lingua, come se entrambi volessimo dimostrare chi
comandava. Gli ho tirato i capelli, lui mi ha stretta la
vita con una mano, l’altra era già scivolata sotto la
tunica, tra le cosce. “Il letto è di sopra.” Ho
detto voltandogli le spalle, ma lui era impaziente: “No,
qui, voglio farlo qui.” Mi ha spinta contro la colonna,
il marmo era freddo, mi ha strappato la tunica. Le sue
mani cercavano carne non stoffa! A quel punto non ci
sono state più parole. Solo la potenza del suo corpo che
saziava una donna e sapeva come farla godere, solo il
movimento del mio che si apriva alla sua irruenza di
maschio.
Il sole è sparito dietro i tetti, e la
domus si è riempita di ombre. I suoi colpi erano secchi,
precisi, non per godere, ma per sentirsi ancora più
maschio. Quando abbiamo finito siamo rimasti appoggiati
alla colonna, sudati, con i capelli appiccicati alla
fronte. “Sei più giovane di quanto pensassi.” Ho detto a
fatica. “E tu non hai nulla da invidiare alle
adolescenti affamate.” Soddisfatta di quel complimento
gli ho accarezzato la guancia. “Tornerai?” Ho detto,
ma non era una domanda. Ero certa che mi avrebbe ancora
cercata. Un nuovo fuoco aveva appena preso vita.
Anno 59 a.C. – 15 Aprile. Celio e Catullo.
Catullo mi ama come un’eterea, come una sacerdotessa
sacra, Celio a suo modo mi ama, ma il suo amore è più
carnale, irruento, maschio. Ho un pensiero che mi frulla
per la testa. Lo so è una follia, ma io sono una donna
libera. Ho mandato due schiavi ad avvisarli, li voglio
entrambi qui stasera. Mi preparo. Non c’è fretta, ma
attesa. Un’attesa calda, come il vapore che sale dal
calidarium, dove due schiave versano acqua profumata di
rose e mirra sulla mia pelle nuda.
Niente
tinture oggi. Voglio essere me stessa. Mi siedo su uno
sgabello di marmo, accavallo le gambe e lascio che le
schiave mi facciano bella. Prima i capelli. Li
sciolgono, li pettinano lentamente, separando ciocca per
ciocca e lasciando cadere due riccioli sottili sulle
tempie. Mi fissano la spilla d’oro appena sopra la nuca:
un serpente che morde la propria coda. Simbolo di
eternità e di veleno. Poi il corpo. L’olio di nardo
scaldato, spalmato sulle spalle, le braccia, tra i seni,
la curva dell’anca e l’interno delle cosce. Chiudo gli
occhi. Ogni tocco è una promessa. Ogni goccia che
scivola un invito. Mi annuso, so di profumo
d’Alessandria, di ambra, cannella e un accenno di
zafferano. Non è dolce. È un aroma animale che resta
sulla pelle di chi ti tocca.
Poi mi lascio
vestire. La tunica è una stola di seta trasparente,
color sangue di piccione, così sottile che la luce la
trapassa. Sotto, niente. Niente. Niente. Solo la pelle.
I capezzoli si intravedono appena, come ombre sotto
l’acqua. Una cintura d’oro mi stringe la vita. Intorno
agli occhi un filo di kohl nero, appena accennato, per
farli sembrare più affamati. Sulle labbra un tocco di
cinnamomo macinato con miele. Rosse, quasi volgari.
Mi alzo, mi guardo nello specchio di bronzo lucidato.
Non sono più la moglie di Metello. Sono un misto di
Lesbia e Clodia. La donna che si aspettano che io sia.
Voglio due maschi pronti come un’arma. “Portate via
tutto!” Ho detto alle schiave. “Quando arrivano, fateli
accomodare. Senza annunci.”
Ora sono sola,
l’attesa mi pesa. Cammino scalza sul mosaico, lasciando
impronte umide di olio. Mi fermo davanti alla porta
della camera da letto. Il letto è già pronto: lenzuola
di lino egiziano, i cuscini di porpora, tre coppe di
vino speziato sul comodino. Aspetto. Il cuore batte
lento. Il corpo, no. Il corpo è già in fiamme.
******
Alle nove in punto, i due, ignari del mio
gioco, varcano la soglia della mia casa. Impacciati si
salutano ed io non perdo tempo. “Voglio vedervi
litigare per me, voglio vedervi contendere questo
corpo!” Loro si guardano in cagnesco. Catullo cede per
primo e mi bacia, Celio non si fa pregare, mi scope il
seno e avido inizia a leccare.
Catullo lo guarda
e impazzisce di gelosia. Lo sento mormorare versi d'odio
contro di me. Non capisce che il mio amore non può
essere un legame. Non posso appartenere a un solo uomo.
Lo sento tremare ed io mi sento ancora più desiderata.
Mi chiede: “Quanti ce ne sono stati oltre lui?” Io,
ridendo, gli stringo i capelli: “Non abbastanza.” Ma poi
lo rassicuro, gli dico che è solo un gioco, che in caso
non sarà mai il mio preferito. A quel punto lo faccio
inginocchiare, gli apro le gambe e lo prendo in bocca
finché non implora. Lui si lascia andare e il suo unico
pensiero è prendermi prima di Celio. Lo accontento, apro
le gambe e quando esplode mi dice che mi ama più di
qualsiasi donna, più di Lesbia. Io godo, gli dico che è
stato un vero maschio. Lui tranquillo di avermi svuotata
si addormenta accanto a me, ma io non sono sazia.
Ed è in quel momento che invito Celio Rufo. Lui non
si è perso neanche un frammento della scena, è eccitato,
maschio, rude e più affamato del suo contendente. E
mentre Catullo dorme sognando la sua Lesbia, Celio mi
piega sul tavolo, mi alza la tunica e mi prende da
dietro senza una parola. Sono colpi maschi che spremono
la mia anima fino a farla colare come un ruscello. Mi
piace il contrasto: il poeta che sogna, il politico che
comanda ed io la femmina contesa consapevole di avere un
inestimabile tesoro tra le gambe.
******
Quel gioco però dura poco, Catullo non si dà pace, la
sua anima è pura e qualche giorno dopo me lo ritrovo
alla mia porta. È ubriaco. Mi odia, ma piange: “Mi
spezzi il cuore Lesbia, sei promiscua! Frequenti troppi
uomini, troppi amanti!" "Tu sei un poeta, Catullo,
non il mio custode delle mie cosce ed io sono una donna
libera, non un oggetto da possedere, sono l'anima di
Roma!" Capisco che la sua gelosia ha trasformato la
venerazione in odio. “Lesbia… mi stai uccidendo ed io ti
detesto!” Io sono nuda sotto la veste trasparente.
Dico: “Allora muori contento.” Gli afferro la mano e lo
guido nel letto, lui disteso, io sopra di lui che lo
cavalco lentamente, gli sussurro i suoi stessi versi
all’orecchio mentre viene dentro di me per l’ultima
volta. Dopo il terzo orgasmo chiamo i miei schiavi e lo
faccio buttare fuori dalla mia casa. So che scriverà
cose orribili su di me. “Che le scriva pure.” Mi dico.
Io sarò eterna grazie al suo odio!
Anno
56 a.C. – 8 aprile Il processo di Celio Rufo
e l'Inferno di Cicerone Sono distrutta! Cicerone ha
sputato veleno su di me in tribunale. È successo
ieri e il mondo mi è crollato addosso, non per la mia
moralità, ma per la malvagità degli uomini. Celio Rufo,
il mio amante, è sotto processo, e Cicerone è il suo
difensore. È un'occasione d'oro per Cicerone per
vendicarsi di mio fratello Publio, e io sono il suo
bersaglio. In tribunale, è stato l'orrore. Cicerone mi
chiamata quadrantaria... una donna da poco che si
prostituisce per un quadrante, la moneta di rame di
minor valore, il cui costo è tipico per un bagno
pubblico! “Riceve clienti nel suo salotto! È
un'immorale, la vera colpevole, e la sua depravazione
arriva al punto di avere rapporti innaturali con suo
fratello!" Sì proprio così. Ha urlato a tutti che scopo
con mio fratello e che i miei giardini sono un bordello
a cielo aperto.
Io ero seduta nella folla,
velata di porpora, lo fissavo con disprezzo e ho sentito
il sangue bollire. Mi ha dipinto come una meretrice, una
creatura irresponsabile. Le mie uniche colpe? Essere
ricca, indipendente, e innamorarmi di un uomo come Rufo.
E soprattutto, non aver mai piegato il capo.
Mio
fratello Publio mi ha riportata a casa. Era furibondo:
"Ti vendicheremo, Clodia. Questo avvoltoio di Cicerone
pagherà per ogni insulto!" Poi ha aggiunto: “Quel nano
di Arpino la pagherà cara.” Sentivo che voleva
consolarmi. Ho risposto: “È inutile, Publio. Ha già
vinto. La mia reputazione è infangata per sempre. Ma sai
una cosa? Non rinnego nulla. La mia libertà, la mia
leggerezza, il mio essere consapevolmente donna in un
mondo di uomini ipocriti. Ho preferito innamorarmi di un
delinquente come Celio che vivere come un fantasma
virtuoso."
A casa gli ho accarezzato i capelli ed
è stata come una freccia di Cupido. Ci siamo amati sul
divano dove di solito ricevo gli ospiti. Con violenza,
con odio, con amore. Lui è sempre stato l’unico uomo che
non mi ha mai chiesto di essere diversa.
Anno 45 a.C. – 12 novembre Mia figlia
Metella ha divorziato da Lentulo. Ha ventinove anni e
già tre amanti dichiarati. Sono fiera di lei. Ieri sera
abbiamo cenato insieme, sole, sul tetto. Mi ha detto:
“Madre, dicono che sono come te.” Ed io sorridendo le ho
risposto: “Spero di peggio.” Abbiamo riso, abbiamo
bevuto vino di Chio non diluito, ci siamo baciate sulla
bocca come facevo io con Publio da ragazza. Non è
incesto. È eredità.
Sono passati ben dieci anni
dal processo. Rufo è stato assolto, ma il danno è fatto.
Cicerone ha vinto la battaglia della narrazione. Io sono
rimasta la "Lesbia" di Catullo, la "prostituta" di
Cicerone. Ho visto mia figlia, Cecilia Metella,
ripetere i miei errori, o forse i miei atti di libertà.
Ha divorziato dopo le sue relazioni clandestine. Questo
mondo non cambia. Le donne libere sono sempre viste come
un pericolo. Guardo il tramonto dal Palatino. Roma è
ancora qui, ma io, Clodia Pulcra, sono diventata un
fantasma chiacchierato, una leggenda scandalosa.
Intanto il sangue di Cesare sta macchiando anche le mie
soglie. Roma brucia. Io sono stanca, ma non pentita. Ho
amato uomini, donne, poeti, delinquenti, mio fratello.
Ho vissuto come nessun’altra matrona ha osato mai. Se
domani morirò, che mi seppelliscano nuda, con una corona
di rose e una coppa di vino tra le mani. Che i
posteri mi chiamino puttana, Lesbia, strega, dea. Io
sarò comunque Clodia. L’unica Clodia che è esistita
davvero. Non ho filato la lana. Non sono rimasta in
silenzio. Ho amato, ho vissuto la passione, ho sfidato
le leggi non scritte. Catullo mi ha dato l'immortalità,
Cicerone la diffamazione eterna. Che lo accettino: ho
condotto la mia vita con il coraggio e la
spregiudicatezza che Roma riserva solo ai suoi eroi
maschi. E ne è valsa la pena. Non sono una vittima. Sono
Clodia. Sono una donna e ho vissuto.
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L'articolo è a cura di Adamo Bencivenga



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