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GIALLO PASSIONE
 
EVE STRATFORD
Chi ha ucciso la coniglietta?
UN GIALLO A LUCI ROSSE - LA DOCUSERIE IN DUE PUNTATE SU SKY CRIME "PLAYBOY: MORTE DI UNA CONIGLIETTA" RACCONTA L'OMICIDIO, AVVENUTO A LONDRA NEL 1975 E RIMASTO ANCORA SENZA UN COLPEVOLE



 


 
Londra, marzo 1975.
La pioggia cadeva obliqua, come proiettili di mercurio, sulle strade lucide di Park Lane. Le insegne al neon del Playboy Club, in Berkeley Square, sanguinavano riflessi rossi e viola sui parabrezza delle Rolls-Royce nere lucide in fila indiana. Dentro, il fumo delle sigarette turche si mescolava al profumo di Chanel N°5 e denaro fresco. I flash dei fotografi rimbalzavano sulle calze a rete delle conigliette, sulle cravatte di seta degli arabi del petrolio, sui sorrisi tesi dei ministri che fingevano di non essere sposati.

Eve Stratford entrò dal passaggio di servizio alle otto in punto, come ogni sera. Ventidue anni, gambe che sembravano non finire mai, orecchie da coniglietta rosa confetto che le incorniciavano il viso da bambola di porcellana. I clienti la chiamavano “Bunny Eve”, la più richiesta, la più fotografata, la più desiderata, quella che compariva sulle copertine di Men Only e sul Daily Mirror con la stessa disinvoltura.

Ma quella sera qualcosa era diverso. Un signore seduto al bancone del bar interno la notò subito, fingendo di leggere il Times mentre sorseggiava un Black Velvet. Eve aveva gli occhi troppo lucidi, le mani che tremavano mentre sistemava il vassoio d’argento. Un livido, piccolo ma fresco, le segnava la base del collo, nascosto solo in parte dal fiocco nero del costume. La voce corse tra le ragazze come un brivido:
«Ha litigato con lui.»
«Chi, il cantante?»
«No, l’altro. Quello sposato. Quello importante.» Nel privé al piano superiore, dietro le tende di velluto cremisi, si giocava forte: non solo a carte. Si parlava di fotografie scomode, di nastri registrati nei bagni del club, di ricatti che potevano far cadere governi. Il Playboy Club non era solo un locale: era un mercato nero di segreti, dove un sorriso da coniglietta valeva più di un dossier dei servizi segreti.
Poco dopo Eve sparì. Nessuno la vide uscire dalla porta principale…

Dortmund, 28 dicembre 1953.
Il cielo sopra la Westfalia era basso e grigio, come un coperchio di piombo sulle rovine ancora fumanti. Liza Müller, ventitreenne infermiera della Croce Rossa tedesca, spinse la porta della sala operatoria improvvisata nell’ospedale militare britannico.
Sul lettino c’era un capitano del Royal Army Medical Corps, Albert Stratford, trent’anni, capelli castani già screziati di grigio. Aveva una scheggia di granata nella coscia e imprecava in un tedesco scolastico. Liza gli tolse la scheggia, gli salvò la gamba, e poi, contro ogni regolamento, contro ogni buon senso, gli salvò anche il cuore. Si sposarono in una chiesetta mezza distrutta a Essen nel ’54, con due testimoni trovati per strada e un anello fatto con l’alluminio di un aereo abbattuto.

Eve nacque da quell’unione l’anno dopo, in un ospedale militare riconvertito, tra odore di disinfettante e neve che copriva le macerie. La chiamarono Elizabeth Eve, ma fin dal primo vagito tutti la chiamarono solo Eve. Aveva gli occhi verdi di sua madre e la bocca decisa di suo padre.
Portava dentro di sé due mondi che ancora si odiavano, e li portava con la grazia di chi non ha scelta. Cresciuta tra le basi militari britanniche in Germania, Bad Oeynhausen, Hohne, Verden, parlava tedesco e inglese senza accento, passando dall’uno all’altro come chi cambia maschera senza sforzo.

Aldershot, 1969-1971.
La base militare sembrava un’isola grigia in mezzo al verde dell’Hampshire.
Eve aveva quindici anni quando arrivò, e già fermava il traffico sulla Queens Avenue. Capelli biondi fino alla vita, gambe che sembravano scolpite, un sorriso che faceva cadere i berretti ai soldati di guardia.
Vinse “Miss Aldershot” nel ’69, poi “Miss British Forces Germany” l’anno dopo, ancora con l’uniforme della scuola, ma già con l’aria di chi sa dove vuole arrivare.
Le foto di quei concorsi sono ancora lì, in qualche album dimenticato: Eve sul palco, corona in testa, fascia obliqua sul petto, e dietro di lei le bandiere dell’esercito che sventolano come se anche loro volessero applaudirla.

Nel 1971 conobbe Tony Priest. Lui era il cantante degli Onyx, capelli lunghi, camicie aperte fino all’ombelico, voce roca da sigaretta e whisky. Aveva ventitré anni, un contratto con la CBS e la convinzione di essere il prossimo Mick Jagger.
Si incontrarono la prima volta in un pub vicino alla base, il Queen’s Head, durante una serata “rock per le truppe”. Tony salì sul palco, vide Eve in prima fila con le amiche, dimenticò le parole di “Ride a White Swan” e rimase a fissarla per tutto il pezzo.
Tre giorni dopo erano già inseparabili. Nel 1972 lasciarono Aldershot senza guardare indietro. Tony aveva convinto la band a trasferirsi a Londra: “Là c’è il futuro, ragazzi”. Trovarono un appartamento al quinto piano di un palazzo popolare a Leyton, 92 Birch Grove, zona Est. Quattro stanze, cucina minuscola, bagno con la muffa, ma per loro era il paradiso.
Condividevano la casa con Fraser Watson, il batterista, e Dave “Clem” Clemson, il chitarrista, due ragazzi del nord che vivevano di fish and chips e sogni di classifica. Di giorno Eve faceva la modella per cataloghi di biancheria intima a Soho.

L’inverno del 1973 fu il suo battesimo di fuoco. Una sera di novembre, dopo aver servito champagne a un tavolo di produttori cinematografici, Eve si ritrovò nell’ufficio di Victor Lownes, il boss supremo del Playboy Club di Londra, l’uomo che decideva chi poteva indossare le orecchie e coda e chi no.
Lui la squadrò da capo a piedi, accese una sigaretta Dunhill, e disse soltanto: «You’ve got the legs, darling. And the eyes. Welcome to the warren.»
In sei mesi era già la numero uno del turno di mezzanotte. Conosceva i nomi di battesimo di tutti: chiamava “Ringo” Starr per nome e gli portava sempre un doppio gin senza che lui lo chiedesse; faceva ridere Peter Sellers fino alle lacrime con l’imitazione della regina; lasciava che George Best le mettesse le mani dove voleva, tanto poi gli faceva pagare il doppio lo champagne; sorrideva a Jack Profumo come se non sapesse chi fosse, e questo lo faceva impazzire più di tutto.

Era empatica sul serio: ricordava il compleanno del barista, il nome del cane di un parlamentare conservatore, la marca di sigari preferita da un principe saudita. Sapeva ascoltare e diventò Bunny Eve in meno di un mese. Sulla sua tessera interna c’era ancora scritto “Nazionalità: British Forces Germany”. Qualcuno, nei corridoi, la chiamava “la tedesca”, ma solo sottovoce, perché Eve sorrideva e poi ti guardava negli occhi in un modo che ti faceva dimenticare ogni battuta. Non raccontava mai di Dortmund. Non raccontava mai di sua madre che ancora mandava lettere profumate di violetta, né del padre che le scriveva cartoline dal deserto di Aden, dove era stato trasferito.

Eve viveva nel presente, nei flash dei fotografi, nel tintinnio dei gettoni nei privé, nel fruscio delle calze di nylon quando si chinava a servire champagne a uomini che potevano comprarle il mondo e invece le chiedevano solo un sorriso. Ma dentro quel costume da coniglietta, sotto il trucco perfetto e le ciglia finte, c’era ancora la bambina nata tra le macerie, figlia di un soldato inglese e di un’infermiera tedesca che si erano amati quando amare il nemico era il peccato più grande. E forse fu proprio per questo, per quel sangue misto che non apparteneva del tutto a nessun posto, che Eve Stratford vide troppe cose, sentì troppi segreti…

Di sera tornava a Leyton, si toglieva le scarpe coi tacchi, indossava una delle camicie di Tony e cucinava spaghetti alla carbonara, l’unica ricetta italiana che conosceva, imparata da una compagna di scuola a Verden.
Tony scriveva canzoni sul tavolo della cucina, Eve gli cantava i cori con quella voce bassa, un po’ rauca, che faceva impazzire anche lui.
Sul giradischi girava sempre la stessa musica: T. Rex, Bowie, i Rolling Stones. Sul muro sopra il letto, una gigantografia di Eve in costume da bagno, scattata a Bournemouth, con la scritta “To Tony, my rockstar”.

Era felice, allora. Rideva forte, fumava Gitanes, guidava la Mini rossa di Tony come se fosse una Ferrari. Quando gli Onyx suonavano nei locali di Londra, lei era sempre in prima fila, con il rossetto rosso fuoco e gli stivali fino al ginocchio. I ragazzi della band la chiamavano “la regina”, e Tony la guardava come se fosse l’unica donna al mondo.

Poi arrivò il marzo 1975. Mayfair, la rivista rivale delle conigliette, le offrì 1.000 sterline per un servizio completo: dodici pagine, nudo integrale, titolo “Bunny Eva – The Girl Who Hops Too Much”. Mille sterline erano due mesi di stipendio al Club, più mance! Eve firmò senza pensarci due volte.
Le foto erano bellissime: lei in pelliccia bianca su un letto di satin nero, le orecchie rosa appoggiate sul cuscino come un trofeo. Uscì il 3 marzo.

Il 4 marzo era già in edicola. Il 5 marzo Victor Lownes la convocò alle dieci del mattino, un orario che per le Bunny praticamente non esisteva.
L’ufficio odorava di rabbia e colonia. «You stupid little Kraut bitch», le disse, sbattendo la rivista sul tavolo.
«Page 47, clause 9: “The Bunny agrees not to pose for any competing publication in a state of nudity or semi-nudity.”
You’re suspended. Indefinitely. Hand over the ears and the tail.»

Eve non pianse. Prese le orecchie rosa, le posò sulla scrivania, poi si chinò in avanti e disse, con quella voce bassa che faceva tremare chiunque:
«Keep them, Victor. I won’t need them where I’m going.» Uscì dal Club quel giorno senza voltarsi indietro. Le altre ragazze la guardarono in silenzio, alcune con invidia, altre con paura.
Sapevano tutte che essere cacciate dal Playboy era come essere scomunicate dalla Chiesa del Glamour. Ma Eve non era spaventata.
Aveva già altri progetti: un’agenzia di modelle che voleva lanciarla all’estero, un provino per un film soft-core in Italia, un produttore che le aveva promesso un appartamento a Chelsea se fosse stata la sua accompagnatrice, ovviamente senza sesso, perché lei amava Tony…
E poi c’era quel “qualcosa” di più: fotografie, nastri, nomi. Qualcosa che valeva molto più di mille sterline.

Martedì 18 marzo 1975
Ore 17:12. Leyton, Birch Grove, 92. Il cielo era di quel grigio londinese che sembra sporco anche quando non piove. Tony Priest scese dal pulmino della band con la borsa a tracolla e la testa ancora piena di amplificatori e birra gallese. Salì le scale fischiettando il riff di «Get It On», infilò la chiave nella toppa. La porta era chiusa dall’interno con la catenella inserita. Strano. Eve non metteva mai la catenella quando era sola. «Eve? Babe, sono tornato!» Silenzio.

Solo l’odore: ferro, profumo dolce, qualcosa di marcio che ancora non riusciva a riconoscere. La trovò nella camera da letto. La luce del pomeriggio entrava obliqua dalle tende di pizzo, tagliava il corpo in due metà di ombra e polvere. Era supina, la testa quasi staccata dal collo.
Un unico taglio netto, profondo, da orecchio a orecchio, così largo che si vedeva la colonna vertebrale. Il sangue aveva formato una pozza perfetta, come un lago nero sul linoleum a fiori.
Indossava solo il reggiseno bianco e le mutandine abbassate alle ginocchia.
Una calza di nylon, la sua, quella con la riga dietro era annodata lenta intorno alla caviglia destra. Le mani erano legate sopra la testa con la sciarpa di seta Hermès che Tony le aveva portato da Parigi l’anno prima.

Nodo lento, quasi gentile. Non c’erano segni di lotta. Le unghie erano intatte, laccate di rosso come sempre. Sul comodino, il pacchetto di Gitanes aperto, una sigaretta consumata a metà nel posacenere. Accanto, le rose rosse che qualcuno aveva comprato da Moys the Florist in Leytonstone High Road quel stesso pomeriggio. Dodici, perfette, ancora bagnate.

Tony urlò una volta sola, un suono che non era umano. Poi si piegò in due e vomitò sul tappeto. I primi agenti arrivarono alle 17:27. L’agente Brian Peachey, ventinove anni di servizio, disse dopo trent’anni che ancora gli veniva da vomitare solo a ripensarci. «Sembrava che qualcuno avesse cercato di trasformarla in un quadro», raccontò al pub, anni dopo. «Un quadro molto rosso.»
La Scientifica lavorò per ore. Nessuna impronta digitale utilizzabile. Nessun capello estraneo. Nessun segno di scasso. La porta chiusa dall’interno, la catenella messa: l’assassino era uscito usando la chiave di Eve, oppure lei stessa aveva aperto senza sospetto. I tamponi parlarono chiaro: rapporto sessuale completo, avvenuto poco prima della morte: sperma gruppo sanguigno A positivo, lo stesso di Tony Priest, ma anche di un inglese su tre, nessuna lesione interna da violenza: il rapporto era stato consenziente, o almeno non aveva lasciato segni di resistenza.

Eve aveva fatto la doccia quella mattina, si era depilata le gambe, si era messa il profumo Opium di Yves Saint Laurent. Sul tavolo della cucina c’era una tazza di tè bevuta a metà e un biglietto scritto a mano: «Tesoro, torno stasera presto. Ho cucinato il tuo pollo alla Kiev. Ti amo. E.»
L’ultima cosa che Eve Stratford scrisse al mondo fu quella frase banale, con il cuore al posto del puntino sulla i.
La polizia mise insieme i pezzi: conosceva l’assassino; lo aveva fatto entrare volontariamente; avevano fatto l’amore; poi, mentre lei era ancora legata, forse un gioco, forse una messa in scena, lui aveva preso il coltello da cucina dal cassetto del comodino e aveva tagliato. Quel coltello non fu mai trovato. Sparito, lavato, portato via.

Il giorno dopo i giornali titolarono: «Bunny Girl sgozzata dopo il sesso». «Ex coniglietta uccisa dall’amante?» Ma nei giorni successivi il licenziamento dal Playboy Club divenne la scusa perfetta per i giornali: «Ex-Bunny uccisa: aveva perso il lavoro per foto hard». Un modo elegante per dire che se l’era cercata. Ma chi la conosceva davvero sapeva che quella copertina di Mayfair non era stato un errore. Era stato un addio. Eve aveva già deciso di uscire dal coniglio, di togliersi la coda, di smettere di servire sogni in cambio di mance. Solo che non aveva fatto in tempo.

Tony fu interrogato per trentasei ore di fila. Non aveva alibi per le ore tra le 14 e le 17. Il pulmino della band era arrivato a Leyton alle 17:12 precise.
Ma nessuno riuscì mai a mettere insieme un’accusa. E poi c’era la sensazione, tra i detective più vecchi, che qualcuno dall’alto stesse già spingendo perché il caso venisse chiuso in fretta. Perché Eve, nei suoi ultimi giorni, aveva cominciato a parlare troppo. Di fotografie scomode. Di clienti del Playboy Club che pagavano in contanti per non lasciare traccia.
Di un’agenda con nomi e numeri che teneva nascosta dentro la fodera della sua borsa di vernice rossa. Quell’agenda non fu mai trovata. E il sangue sul pavimento di Birch Grove 92 si seccò, venne lavato via, ricoperto da un nuovo inquilino che non ha mai saputo che lì era morta una delle donne più belle che Londra avesse mai visto. Ma ogni tanto, quando il vento girava da est, gli inquilini di quel palazzo sentivano il profumo di Opium e il rumore inconfondibile del suo tacco 12...

Nessun testimone. Solo ombre, echi, mezze parole raccolte nei corridoi di Birch Grove 92. Le vicine del piano di sotto, le sorelle O’Brien, due vedove di guerra che passavano la giornata alla finestra, giurarono davanti a una tazza di tè con il sergente: «Alle 16:28 circa abbiamo sentito la porta aprirsi.
Tacchi alti sul pianerottolo, i suoi, li riconoscevamo sempre. Poi una voce d’uomo, bassa, educata, accento di Londra, ma non dell’Est. Non gridavano. Parlavano tranquilli, quasi ridevano. Abbiamo sentito lei che diceva: “Entra, dai, ti preparo un tè”. Poi la porta si è chiusa.
Alle 16:42 circa un tonfo sordo, come se fosse caduto un corpo sul letto.
Un minuto dopo passi pesanti, veloci, che scendevano le scale. Abbiamo guardato dallo spioncino: nessuno. Chiunque fosse, era già sparito dal retro, attraverso i giardini.» Una sola altra testimonianza: il ragazzino pakistano del minimarket all’angolo disse di aver visto Eve scendere da un taxi nero alle 16:15 circa. Sola. Sorridente. Borsa rossa di vernice, cappotto di montone chiaro, stivali alti bianchi. Salutò con la mano il tassista, mai più rintracciato, e sparì dentro il portone. Fine dei testimoni.
Le indagini, dirette dall’ispettore capo Leonard “Nobby” Clark di Scotland Yard, partirono in quarta e si spensero in un vicolo cieco in meno di quattro mesi. Le tre piste principali:

L’assassino ossessionato da Mayfair.
L’intervista nella rivista era esplosiva: Eve dichiarava senza giri di parole che le piaceva «essere legata, dominata, sentirsi dire cosa fare». Le foto la mostravano con polsi legati da nastro adesivo, occhi bendati, bocca socchiusa.
La polizia ricevette 180 lettere di mitomani in una settimana. Ne controllarono 42. Tutti avevano alibi o erano troppo pazzi per organizzare un delitto così pulito. Inoltre: se fosse stato uno sconosciuto, Eve avrebbe urlato, si sarebbe difesa. Invece niente graffi, niente lividi da difesa, niente sotto le unghie.

L’amante segreto e il cliente del Playboy
Controllarono l’agenda telefonica, i registri delle mance del Club, i diari delle altre Bunny.
Risultato: decine di nomi di uomini sposati, attori, deputati laburisti, un paio di diplomatici mediorientali.
Tutti avevano alibi di ferro forniti da segretarie, autisti, mogli.
Alcuni pagarono avvocati da mille sterline al giorno pur di non far trapelare il nome.
Uno solo tremò davvero: un produttore cinematografico di Soho che aveva prenotato Eve per una “festa privata” la settimana prima.
Ma era a Los Angeles il 18 marzo, biglietto aereo e timbro sul passaporto.

Le telefonate oscene
Nei quindici giorni precedenti l’omicidio, Eve aveva ricevuto almeno otto chiamate anonime a casa. Tony le aveva risposto due volte: una voce maschile, bassa, quasi un sussurro:
«Ti lego, ti taglio, ti guardo mentre muori, Bunny».
La British Telecom tracciò le chiamate: provenivano da cabine pubbliche tra Mayfair e Piccadilly. Una era a 200 metri dal Playboy Club. Ma le cabine erano usate da centinaia di persone al giorno. Impossibile restringere il campo.

Alla fine di luglio 1975 il fascicolo era pieno zeppo di fogli: 1.400 pagine, ma vuoto di prove. L’ispettore Clark ricevette un ordine “informale” dall’alto: «Chiudete. È un sex killing, non lo risolveremo mai. Non abbiamo budget per inseguire fantasmi.»
Il 2 agosto 1975 il caso Eve Stratford venne ufficialmente sospeso. I campioni biologici, tamponi, sangue, capelli, furono conservati in un armadio a Bethnal Green. Nel 1986, quando cambiarono sede, andarono deteriorati durante il trasloco. Rimase solo la fotografia segnaletica del cadavere:
Eve con gli occhi aperti verso il soffitto, la bocca leggermente socchiusa come se stesse per dire qualcosa, la gola spalancata in un secondo sorriso rosso. E rimase quel tonfo sordo sentito dalle sorelle O’Brien alle 16:42.
Un tonfo che, cinquant’anni dopo, continua a cadere nel silenzio di Birch Grove 92 ogni volta che qualcuno chiude troppo forte una porta.

Sei mesi dopo l’omicidio.
Hounslow, 3 settembre 1975. Ore 23:07.
Short Hedges Alley, un budello nero tra Lampton Road e la scuola cattolica. Lynne Weedon aveva sedici anni, capelli castano chiaro fino alle spalle, gonna di jeans, camicetta bianca con i primi bottoni slacciati per il caldo.
Rideva ancora per la promozione, per la pinta di lager che aveva bevuto di nascosto, per la vita che finalmente cominciava. Camminava veloce, tacchi bassi che battevano sul cemento rotto. Lynne per fare in fretta e tornare subito a casa aveva preso il vicolo Short Hedges, una stradina frequentata da ladri e malviventi. Quella scorciatoia le fu fatale perché u colpita alla testa con un oggetto pesante simile a un pezzo di tubo di piombo.
Non sentì i passi dietro di sé. Solo un sibilo nell’aria, poi il mondo esplose in un lampo bianco. Un tubo di piombo, o forse una chiave inglese, o un cric, la colpì con tutta la forza sopra l’orecchio sinistro. Il cranio si frantumò come porcellana. Lynne cadde in ginocchio, già incosciente.
L’assassino la prese per i capelli, la trascinò per sette-otto metri dentro il cortile della scuola, dietro i bidoni dell’immondizia. Lì le abbassò le mutandine fino alle caviglie, la violentò mentre lei respirava ancora a fatica, poi le strappò la camicetta per pulirsi.

Alle 7:15 del mattino dopo, il custode Albert Trott la trovò. Pensò fosse ubriaca. Solo quando vide il sangue che colava dall’orecchio e formava una pozza grande come un piatto capì. Lynne era ancora viva. Occhi chiusi, respiro debole, ma viva. La portarono al West Middlesex Hospital.
I medici le aprirono il cranio per alleviare la pressione.
Per sette giorni la madre le tenne la mano, le parlò, le cantò le canzoni dei Beatles che piacevano a entrambe.
Il 10 settembre il cuore di Lynne si fermò alle 14:03.
Non aveva mai riaperto gli occhi. Quando i detective della divisione Ovest aprirono il fascicolo, qualcosa li colpì come una scarica elettrica. Identikit delle due scene:
Eve Stratford: aggredita sessualmente, nessuna resistenza, gola tagliata da orecchio a orecchio.
Lynne Weedon: aggredita sessualmente, nessuna resistenza possibile, era già incosciente, cranio sfondato con violenza inaudita.

Ma soprattutto il DNA. Nel 2004, quando finalmente riesumarono i campioni biologici di Lynne, e li confrontarono con quelli che erano stati recuperati nel 1975 dal corpo di Eve (ricostruiti grazie a un vetrino dimenticato in un laboratorio), il risultato fu inequivocabile: Profilo genetico identico. Stesso uomo. Stesso sperma.

Greenwich, 20 settembre 1977. Ore 23:47.
Vicino al parco, in un vicolo chiamato Tunnel Avenue. Elizabeth Parravincina, detta Liz, ventisette anni, infermiera al Brook General Hospital, aveva appena finito il turno di notte.
Capelli neri ricci, camice ancora sotto il trench, borsa a tracolla con dentro il pranzo avanzato. Tagliava per il vicolo per risparmiare cinque minuti.
Non arrivò mai a casa. Un colpo solo, dietro la nuca, con qualcosa di pesante e liscio, forse lo stesso tubo di piombo, forse una spranga. Il cranio si aprì come una noce. Liz cadde in avanti, il viso contro l’asfalto.
L’assassino la girò, le abbassò i collant e le mutandine, la violentò mentre il sangue le usciva dalle orecchie. Poi se ne andò, lasciando il corpo lì, sotto la luce gialla di un lampione. Scoperta alle 6:10 da un netturbino. Morta sul colpo.

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Tre donne. Tre aggressioni sessuali. Tre colpi letali alla testa o al collo. Tre scene senza testimoni. Tre volte la stessa firma biologica. Il profilo genetico era identico al 100%. Stesso uomo. Stesso sperma. Stesso killer. Da quel momento la Metropolitan Police creò l’Operation Steiner, la più grande caccia al serial killer irrisolto della storia britannica recente. Tre donne. Tutte e tre colpite con estrema violenza alla testa o al collo, come per farle tacere per sempre nel modo più rapido. Tutte e tre violentate prima o subito dopo il colpo mortale. Nessun furto, nessun movente apparente se non il controllo e la distruzione. Nessun segno di conoscenza preventiva apparente, tranne che per Eve, dove invece la porta era stata aperta volontariamente.

Per questo la polizia parlò apertamente di un unico serial killer sessuale attivo tra il 1975 e il 1977, forse anche oltre. Indagarono su oltre 8.000 uomini viventi nel raggio di Londra nel 1975-77. Presero il DNA a tassisti, ex clienti del Playboy Club, medici, poliziotti, ex militari, ex fidanzati, vicini di casa.
Nel 2011, dopo quattro anni di lavoro e milioni di sterline spesi, il capo dell’operazione, Detective Chief Superintendent Hamish Campbell, tenne la conferenza stampa più breve della sua carriera: «Abbiamo il DNA più pulito del Regno Unito. Non abbiamo l’uomo.
Il caso rimane aperto, ma le indagini attive sono sospese.» Traduzione: dopo trentasei anni, il mostro aveva vinto. Oggi il fascicolo Steiner occupa tre scaffali interi negli archivi di Scotland Yard e sulla copertina è scritto a pennarello: “Zero giustizia”.

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Il Playboy Club è diventato un hotel di lusso dove i turisti pagano 800 sterline a notte per dormire. Short Hedges Alley è stata illuminata, recintata, ripulita. Tunnel Avenue ha persino un murales con fiori dipinti dove Liz è caduta. Ma la notte, quando la città spegne le luci al neon e resta solo il ronzio dei taxi neri, lui è ancora lì. In ogni ombra di vicolo. In ogni riflesso di pozzanghera. In ogni porta che una donna apre senza sospetto. Forse è morto in una casa di cura, con un nome falso e la televisione sempre accesa. Forse è vivo, cammina lento con il bastone, e ogni 18 marzo compra dodici rose rosse e le getta nel Tamigi, una per una. O forse sta solo aspettando. Aspettando che un’altra ragazza bionda, o bruna, o con i capelli corti, prenda la scorciatoia sbagliata.
Londra ha mille luci, ma una sola grande ombra. E quella ombra ha ancora il suo odore di Opium, di sangue, di calze di nylon. Non è finita. Non finirà mai. Perché certi mostri non muoiono. Si nascondono dentro la pioggia. E la pioggia, a Londra, non smette mai.





L'articolo è a cura di Adamo Bencivenga
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