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AMARSI? CHE CASINO!
 
UNA SUORA SI CONFESSA
Il prezzo di essere bella
In un mondo che celebra la libertà sessuale come un diritto inalienabile, il voto di castità rimane per molte religiose un faro di dedizione spirituale, ma anche una prigione invisibile. Tra le mura dei conventi e le missioni lontane, emergono storie di abusi silenziosi, perpetrati da chi dovrebbe essere custode della fede



 
È il caso di Suor Chiara, oggi settantatreenne, che dopo decenni di silenzio rompe il velo su un trauma che ha segnato la sua vita. La sua testimonianza, raccolta in un'intervista esclusiva, non è solo un atto di catarsi personale, ma un monito sul prezzo pagato dalle "belle suore", quelle il cui l’aspetto fisico, invece di essere un dono, diventa una maledizione in ambienti dove il desiderio represso si trasforma in violenza.

Chiara, nata nel 1950 in un piccolo paese umbro, entrò nell'Ordine delle Suore della Carità a vent'anni, spinta da una vocazione profonda e da un'educazione cattolica rigorosa. Alta, con occhi verdi penetranti, labbra carnose, zigomi pronunciati e una chioma castana che il velo non riusciva mai a domare del tutto, era spesso definita “l'angelo del convento” dalle consorelle. Ma quella bellezza, che attirava sguardi ammirati durante le processioni, la rese bersaglio involontario. "Ero vergine, pura nel corpo e nello spirito." Racconta Chiara, seduta in una stanza modesta della sua casa di riposo a Perugia. "Credevo che il mio velo fosse uno scudo. Invece, era un invito per i lupi travestiti da pastori."

La sua storia di abusi inizia nel 1988, durante una missione umanitaria in Congo, nel cuore dell'Africa equatoriale. A trentotto anni, Chiara era già una veterana: “Avevo curato lebbrosi in India, accudito anziati affetti da Alzheimer a Parma e insegnato ai bambini di strada in Brasile.”

Il Congo, però, era un'altra bestia, una terra di foreste impenetrabili, villaggi isolati e tensioni etniche che ribollivano sotto la superficie. L'Ordine l'aveva inviata a Kinshasa per gestire una scuola femminile e un dispensario, in una missione condivisa con un gruppo di sacerdoti gesuiti. "Era un posto selvaggio. Notti afose, zanzare che ronzavano come demoni, e un senso costante di pericolo. Ma la fede ci teneva unite."

Le chiedo di raccontare il suo primo abuso subito: “Era il 15 luglio 1988, una notte umida. La missione era una modesta casa coloniale, con pareti di mattoni crudi e un tetto di lamiera che amplificava ogni goccia di pioggia e ogni raggio di sole. Condividevo la stanza, una cella spartana con un letto di ferro, un crocifisso appeso alla parete e una finestra sbarrata da grate arrugginite, con un'altra suora, ma quella sera la consorella era partita per un villaggio vicino, lasciandomi sola. Mi ero ritirata presto, dopo una giornata estenuante. Esausta, recitai a fatica il rosario, poi mi addormentai, ma quasi subito mi svegliò un rumore sordo: la porta della mia stanza, che credevo chiusa a chiave, si aprì con un cigolio metallico.”
Un sospiro profondo e Chiara riprende: “Entrò padre Etienne, un gesuita belga di mezza età assegnato alla missione da due mesi. Alto e robusto, con la barba incolta e un'aria di autorità che intimidiva persino i missionari più anziani, era noto per i suoi sermoni appassionati contro il peccato della carne. “Padre? Cosa ci fare qui?” Dissi mettendomi a sedere nel buio con il cuore che mi martellava nel petto. Lui non rispose, ma chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò al letto.

“Chiara…” Sussurrò con voce roca. “Dio mi ha mandato da te. Hai bisogno di essere... purificata.” Indietreggiai contro la testiera e strinsi il lenzuolo. “Padre, vi prego, andate via. Cosa volete fare? Balbettai. Ma lui non si fermò. Con un gesto rapido, mi afferrò il polso, tirandomi verso di sé. Il velo mi scivolò di lato. “Sei così bella!” Ringhiò con gli occhi che mi divoravano come se fossi una preda. “Un fiore nel deserto. Il Signore ti ha creata per l’amore.” La lotta fu breve e impari. Scalciai e gridai, ma la casa era isolata, e il frastuono della pioggia tropicale inghiottiva le mie suppliche. Lui mi schiacciò contro il materasso e io ormai nuda con la tunica strappata sentivo quelle mani callose che mi percorrevano il corpo con una brutalità che ignorava i miei singhiozzi. “È la volontà di Dio!” Mentì, mentre il suo peso mi immobilizzava. L'atto durò qualche minuto che sembrò eterno: un'invasione violenta, accompagnata da grugniti animaleschi e preghiere biascicate a metà. Chiusi gli occhi, recitando mentalmente l'Ave Maria, il mio corpo tremava non solo per il dolore fisico, ma per l'orrore di sentirmi violata nella mia vocazione. Quando finì, lui si alzò barcollando, sistemandosi il saio. “Non dirlo a nessuno, sorella. È il nostro segreto con il Signore.” Sibilò prima di svanire nel buio. Rimasi lì, raggomitolata sul letto, il corpo appiccicoso di sudore e umiliazione, il crocifisso che mi fissava muto dalla parete. Il silenzio era assordante, rotto solo dal mio respiro affannoso. Nei giorni seguenti, il mio terrore non fu solo per il trauma fisico, ma per un incubo irrazionale e paralizzante: la gravidanza. A trentotto anni, vergine fino a quella notte, ero terrorizzata all'idea di portare in grembo il frutto di quel mostro.”

Chiara si ferma, dopo trentacinque anni quel ricordo le provoca ancora dolore: “Ogni mattina, mi palpavo l'addome cercando gonfiori invisibili. Pensavo: “E se fosse successo? Come lo nasconderei sotto l'abito? Le suore capirebbero, mi scaccerebbero via?” Il terrore si amplificava nei momenti di solitudine quando sentivo ondate di nausea che attribuivo a un segno divino di punizione. La vergogna mi divorava. Come potevo confessarlo? Al Signore, sì, ma a un altro sacerdote? Mi avrebbero accusata di provocazione. Ero la bella suora dopotutto…”

Tuttavia non denunciò, temendo lo scandalo: in Congo, nel 1988, le donne erano voci inascoltate in un sistema patriarcale: “Ho pregato per un miracolo. E il miracolo arrivò: le mestruazioni, ritardate di due settimane, mi liberarono. Ma il seme del dubbio rimase, avvelenando ogni ciclo successivo. Quei timori però non svanirono con il tempo. Tornata in Italia nel 1990, venni trasferita in un convento isolato, dove il ricordo di quell'abuso si trasformò in un fantasma ricorrente: soffrivo di insonnia cronica, incubi che mi svegliavano di notte e un disturbo alimentare con digiuni estremi come fosse una penitenza autoimposta. Mi guardavo allo specchio e odiavo il mio riflesso: Dio ti ha voluto bella per metterti alla prova! E tu hai accolto il diavolo dentro di te!”

Non fu l'unico episodio. Negli anni '90, un altro sacerdote, durante un ritiro in Umbria, tentò un approccio simile, palpandola durante una confessione. Ma la notte congolese aveva lasciato in Suor Chiara una ferita aperta che aveva spezzato qualcosa: la sua fede nel sacerdozio maschile, la fiducia negli spazi sacri. Sperò con tutta se stessa che la Città Eterna potesse guarire ciò che l'Africa aveva infranto. Ma Roma, al contrario, amplificò il suo incubo: la bellezza di Chiara, ora quarantenne, non era più solo un dono divino, ma un richiamo irresistibile per chi, sotto la veste clericale, nascondeva impulsi repressi.

"Credevo che l'Italia fosse un santuario invece, era solo un'altra giungla, con altri predatori. Trasferita in un convento sulle colline romane, ripresi il mio ministero con visite alle scuole periferiche, catechesi per i bambini delle borgate, distribuzioni di abiti e pasti caldi ai senzatetto. Ma nei corridoi della Curia e nelle parrocchie affollate, gli sguardi maschili si soffermavano su di me troppo a lungo, sussurrando commenti che fingevo di non udire. Il trauma del Congo mi aveva reso vigile, ma forse non così tanto da prevedere quello che successe in un pomeriggio dell’ottobre 1991…”
Suor Chiara inizia a raccontare di quel pomeriggio romano trascorso in una scuola elementare della periferia est, a Tor Pignattara. La visita era routine: aveva raccontato storie bibliche a una classe di quaranta bambini immigrati, distribuito quaderni e crocifissi, sorriso alle maestre esauste. L'energia della giornata l'aveva lasciata stanca ma appagata, un raro momento in cui il fantasma congolese taceva.

“Uscendo dalla scuola, iniziai a camminare a piedi verso il convento, due chilometri non erano poi molti, ma dopo due passi padre Luca Moretti, un giovane prete di ventotto anni fresco di seminario, si offrì di accompagnarmi con la sua auto. “Suor Chiara, permettete? Vi accompagno io. È pericoloso qui intorno dopo il tramonto.” Disse, aprendo la portiera della sua Fiat Panda con il rosario appeso allo specchietto. Esitai, ma poi pensai che Roma non era Kinshasa. Durante il tragitto parlammo dei bambini della scuola e della prossima processione da organizzare per le strade del quartiere. Ma quasi subito notai il cambio di tono della sua voce. “Sapete, sorella, voi siete diversa dalle altre suore. Avete una grazia che illumina ogni anima. I vostri occhi verdi rappresentano la bellezza di quel paradiso che a stento riusciamo a descrivere ai nostri fedeli durante la Santa Messa.” Arrossii sotto il velo, spostando lo sguardo verso il finestrino appannato. “Padre, siete gentile, ma sono solo una serva del Signore. Il mio aspetto fisico non conta.” Dissi stringendo la borsa sulle ginocchia come uno scudo. I complimenti continuarono, sempre più personali: “La vostra pelle è così luminosa... Non resisto al vostro fascino, Suor Chiara. Il celibato è una croce, ma voi... voi siete la tentazione fatta donna.” Il mio disagio si tramutò in panico quando lui accostò l’auto bruscamente in una zona isolata sotto la pineta di Tor Tre Teste. “Padre, cosa fate? Ripartite, per favore!” Dissi afferrando la maniglia della portiera. Ma lui aveva già spento il motore, e le sue mani si posarono sulle mie spalle, tirandomi a sé con una forza sorprendente. “Lasciatevi andare, solo un momento. Ho bisogno di voi.” Sentii il suo fiato caldo sul collo, mentre le sue dita scivolando si fermarono sul mio seno. Mi divincolai spingendolo via: “Fermatevi, nel nome di Dio! Questo è peccato mortale!” Gridai, ma lui insistette con le sue labbra che sfioravano il velo e le mani che armeggiavano con i bottoni della mia tunica: “Siete così pura, così bella. Non lo saprà nessuno. È il nostro segreto, come Maria Maddalena con Gesù.”

In quel limbo di penombra, il mondo di Chiara si ridusse a un vortice di paure stratificate, più paralizzanti della violenza fisica. E il primo terrore era lo scandalo!
“In quei momenti pensavo: Se si viene a sapere, l'Ordine mi caccerà. Sarò la suora impura, la vergogna fatta persona. Le mie consorelle mi guarderanno con pietà velenosa e la Chiesa mi seppellirà in un convento di penitenza, ma soprattutto me ne facevo una colpa: “Ecco ci risiamo, lo hai provocato, con la tua bellezza maledetta!” Sentivo il sudore freddo colarmi lungo la schiena, il seno che si alzava e abbassava in respiri affannosi sotto l'abito. Ero sconvolta: “Ma come può un uomo di Dio trattarmi da puttana? È Dio mi sta punendo per il Congo? Per non aver denunciato?” Lo respingevo ma l'insistenza di lui erose ogni mia difesa. “Basta, padre! Accendete il motore vi prego! Lui gemette: “Almeno... lasciatemi sfiorarvi, almeno guardare. Non resisto.” In quel momento di impasse, optai per il compromesso, non resa, ma sopravvivenza calcolata, un atto di misericordia distorta per evitare il peggio. “Va bene... ma solo questo, e poi mi riportate in convento. Niente di più.” Con le mani tremanti, slacciai i primi due bottoni della tunica, scoprendo leggermente il seno, quel poco da placare il suo assalto. “Grazie, sorella... sei un angelo.” Disse con la voce profonda mentre si masturbava in un rituale grottesco, gli occhi fissi su di me come su un'icona profanata. Durò meno di un minuto: gemiti soffocati, il corpo che si irrigidiva, e un fiotto caldo che macchiò il tappetino dell'auto. Distolsi lo sguardo, recitando silenziosamente il Salve Regina con le lacrime che mi rigavano le guance e il seno ancora esposto al suo piacere come un trofeo rubato. Quando finì, si ricompose senza dirmi una parola. Nei mesi successivi evitai passaggi, declinai inviti a ritiri misti, e durante le confessioni mi chiudevo in un mutismo che preoccupò il mio direttore spirituale. Non confessai mai il mio peccato e ogni predica che sentivo diventava un'accusa velata. Il compromesso che avevo accettato perché tutto finisse lì e in breve tempo mi perseguitò come un peccato non assolto. Avevo permesso che il mio corpo fosse usato e oggetto di piacere. Dio mi perdonerà? Mi chiesi più volte. Recitavo preghiere fino all’alba, sostenevo digiuni di giorni che mi indebolirono al punto che ci vollero anni per riprendermi totalmente.”

Roma aveva trasformato il trauma congolese in un'ossessione quotidiana per Suor Chiara. L'episodio sotto la pineta di Tor Tre Teste l'aveva lasciata con un senso di colpa corrosivo, un'ombra che la seguiva nei corridoi del convento e nelle preghiere sussurrate. Eppure, la vita monastica impose il suo ritmo implacabile: Chiara, ormai quarantacinque anni e con un velo che non riusciva più a nascondere le prime rughe di stanchezza, fu assegnata a un nuovo ministero nel 1994. L'Ordine la inviò come docente di teologia morale presso l'Università Cattolica di Sant’Anna, una delle più prestigiose istituzioni pontificie a Roma, con aule affrescate e biblioteche che odoravano di pergamena antica.
“Era un onore per me, un modo per servire la Chiesa dall'interno, ma in quei saloni di marmo, il potere clericale era un serpente nascosto, e io con la mia bellezza maledetta, anche con l’età che avanzava, ne ero il bersaglio predestinato. L'università, un baluardo della dottrina ortodossa, pullulava di intellettuali in tonaca: professori che citavano Tommaso d'Aquino e seminaristi con occhi affamati di sapere. Io impartivo lezioni sulle virtù cardinali, ma dentro di me portavo il peso di silenzi non detti. Evitavo i preti più giovani, ma il rettore, padre Antonio Bellini, un uomo di sessant'anni con una reputazione di santità accademica, mi notò presto. Rettore da un decennio, era un pilastro della gerarchia: autore di trattati sulla castità, frequentatore di sinodi vaticani, con un sorriso paterno che mascherava ambizioni di cardinalato. Insomma il tipo d'uomo che predicava l'astinenza dal pulpito, ma la desiderava nei corridoi!”

Suor Chiara scuote la testa, beve un sorso d’acqua e poi riprende il suo racconto: “Era un pomeriggio di novembre 1994, avevo fissato un appuntamento con padre Bellini per discutere l'impostazione del suo corso: Virtù e Tentazioni nella Vita Consacrata, un'ironia che ora mi strappa un sorriso amaro. Il suo ufficio si trovava al terzo piano dell'edificio principale, un sancta sanctorum tappezzato di libri rilegati in pelle, ritratti di papi e un crocifisso d'oro che dominava la scrivania di mogano. Entrai puntuale alle 15:00 con l'abito grigio impeccabile e una cartella di appunti sotto il braccio. Appena lui mi vide si alzò dalla poltrona e disse: “Suor Chiara, che piacere vedervi.” Era un uomo di media statura, con capelli sale-e-pepe pettinati all'indietro, occhiali a stelo sottile e un abito talare stirato alla perfezione. Mi fece sedere su una poltrona di velluto di fronte alla scrivania, versandomi un tè da un samovar d'argento. Parlammo per venti minuti di pedagogia: “Le lezioni devono essere vivide, sorella. Usate esempi dalla vita reale, dalle tentazioni quotidiane.” Disse sfogliando i suoi appunti con dita curate. Annuii: “Inizierò con la temperanza, poi la castità come via di santità.” Fu a quel punto che il tono cambiò. Padre Bellini posò la penna, intrecciando le dita sotto il mento, e mi fissò con un’intensità che avevo imparato a riconoscere. Mi tremarono le gambe pregando di sbagliarmi. “Sapete, Suor Chiara, in tutti i miei anni in questo ateneo, non ho mai conosciuto una suora così... bella e affascinante. Avete una grazia che trascende l'abito. Quegli occhi verdi, quel portamento… siete come una santa scesa tra noi, ma con il fuoco di una donna vera.” Quelle parole caddero su di me come gocce di miele avvelenato; Sentii un nodo stringermi in gola, il cuore che accelerava in un'eco del terrore passato. “Rettore, apprezzo il complimento, ma vorrei concentrarmi sul corso…” Risposi abbassando lo sguardo sui miei appunti. Ma lui non si fermò. Si alzò lentamente, con la fluidità di un attore consumato, e fece il giro della scrivania, i passi attutiti dal tappeto persiano. “No, sorella, permettetevi di essere sincero. In questo mondo di astinenza forzata, voi siete una rivelazione. Una tentazione divina.” Raggiunse la porta e la chiuse, poi con un gesto teatrale, abbassò le pesanti tendine di velluto rosso, trasformando lo studio in un confessionale intimo. L'aria si fece densa, carica di un silenzio opprimente. “Padre Bellini, cosa state facendo?” Ma lui si avvicinò con passi misurati, il volto arrossato da un desiderio a lungo represso. "Shh, non temete. È solo un momento di debolezza umana. Dio capisce i suoi servi.” Mi afferrò la mano destra e senza esitazione, la guidò verso il basso, premendola con fermezza contro il rigonfiamento del suo pene in erezione. Il contatto fu elettrico, umiliante, sentii la durezza attraverso il tessuto sottile della tonaca, il calore che irradiava come una marchiatura, mentre lui emetteva un sospiro roco, stringendo le mie dita al suo piacere. Mi ritrassi e dissi: “Ma siete il rettore, un uomo di Dio!” Lui mi guardò: “Sono anche un uomo fatto di carne ed ossa che non resiste alla bellezza femminile. Perdonatemi sorella.”
Strinse ancora di più la mia mano sul suo pene. Era di fatto la mia prima volta perché nei due episodi precedenti non avevo mai sentito la consistenza del maschio eccitato. Lui, nonostante la mia resistenza non si perse d’animo. Mi disse: “Non credo affatto di essere il primo.” E in quella posizione, lui in piedi ed io seduta, tirò fuori il suo pene invitandomi ad assaggiarlo con la bocca. “Dio mio, voi siete pazzo.” Dissi, ma lui afferrandomi la testa avvicinò il mio viso pregandomi di non fare resistenza. Poggiò il suo pene ed io per la paura che qualcuno entrasse nella stanza, lui non aveva chiuso la stanza a chiave, schiusi le mie labbra e goffamente, credo, gli diedi piacere. Tutto si svolse in pochi secondi, credo un minuto appena, con lui che, invitandomi a sincronizzare mano e bocca, elogiava la morbidezza delle mie labbra.
Una volta soddisfatto si adagiò sulla poltrona ansimante, sistemandosi con discrezione. "Perdonatemi, sorella. La vostra bellezza... è troppo. Andate ora, ma ricordate: questo resta tra noi e il Signore."

Uscendo dallo studio con le gambe molli e quel sapore acre in bocca, mi sentii svuotata e senza Dio. “Sono io la pietra dello scandalo, pensai, mentre scendevo le scale di marmo con il cuore arrossato di vergogna e terrore. Con la mia bellezza, ho sedotto un santo senza volerlo. Dio mi ha creata così per punirmi? Il Congo, la pineta, e ora il rettore! Se parlo rovino lui, l'università, la Chiesa intera, ma sarò io l'accusata! L'Ordine mi spedirà in esilio, e la mia vocazione? Frantumata come vetro.” Ma in quel vortice di pensieri confusi mi chiesi: “Se respingo gli uomini di Dio, sto respingendo Cristo stesso?” La colpa mi paralizzava: “Forse dovrebbe essere Bellini a perdonarmi e non viceversa… Sono una tentazione ambulante, un inciampo per le anime deboli.” Purtroppo non successe solo quella volta e non gli concessi solo la bocca, ma ogni volta mi chiedevo se dare piacere a un luminare della Chiesa rientrasse nella mia missione.”

Esausta dopo mesi di sensi di colpa Chiara non resse più. Una sera d'inverno 1995, nel refettorio del convento, si aprì con Suor Teresa, una consorella anziana. Sedute a un tavolo di legno grezzo, Chiara sussurrò: “Teresa, ho un peso... abusi, da anni. Preti che mi hanno... usata.” Le parole uscirono in un fiotto: il Congo, la pineta, lo studio del rettore. Teresa ascoltò in silenzio, poi prese la mano di Chiara: “Non sei sola, sorella. Anni fa, un confessore mi palpò durante l'assoluzione. E non siamo le uniche: ho sentito storie da missionarie in Africa, da novizie qui a Roma. È un male sistemico, nascosto sotto i voti.”

Quella rivelazione fu un terremoto: per la prima volta, Chiara vide il suo dolore non come peccato personale, ma come sintomo di un cancro ecclesiale. Incoraggiata, scrisse una lettera formale alla Commissione Etica del Vaticano, un organo pontificio per gli abusi interni, dettagliando gli episodi con nomi, date, luoghi. “Chiedo giustizia, non vendetta.” Concluse. Ma la risposta fu un muro di silenzio. La Commissione insabbiò tutto per evitare lo scandalo: la lettera fu archiviata come fraintendimenti relazionali. Chiara fu consigliata di tacere con una visita pastorale paternalistica: “La Chiesa protegge se stessa, non le sue figlie!”

Oggi, a settantatré anni, Chiara porta i segni di quei soprusi: rughe profonde intorno agli occhi, una cicatrice invisibile sull'anima. Ha lasciato l'Ordine nel 2015. “Parlarne ora è liberatorio." Mi dice con un sorriso stanco. "Non per vendetta, ma solo perché la bellezza non dovrebbe essere un prezzo da pagare. Ho dato tutto a Dio, ma alcuni uomini hanno preso ciò che non era loro. Oggi, prego non per me, ma per chi ancora tace.”
  



IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
Il racconto pur basato su
fatti ricorrenti è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale
 





 
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