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REPORTAGE
 
 
NEL PAESE DOVE NON ESISTONO LE PROSTITUTE
Un viaggio tra gli Inuit, il popolo dell’ospitalità senza confini

Gli Eschimesi sono un popolo con un forte senso dell’ospitalità anche sessuale. L’offerta della moglie all’ospite è vista come un segno di fratellanza




 

Il mio aereo atterra al tramonto all’aeroporto di Iqaluit, la capitale del territorio di Nunavut, Canada, una delle principali porte d’accesso alle comunità Inuit delle coste artiche. L’aria è pungente, il cielo tinto di viola e arancione, e appena scendo dalla scaletta il freddo mi morde il viso, un morso secco che penetra attraverso il cappuccio della giacca. Il vento ulula, sollevando mulinelli di neve che danzano sulla pista. Mi stringo nel parka, mentre aspetto il mio contatto.

Ad accogliermi c’è Amaqjuaq, un ragazzo di 27 anni che ho conosciuto online per organizzare questo reportage. È un Inuit dal sorriso aperto, con occhi vivaci e una folta chioma nera che spunta dal cappello di pelliccia. È sposato, padre di quattro figli, e guida una motoslitta, il mezzo più comune qui. “Sali, non è lontano!” Mi dice, battendo le mani per scaldarsi. Monto dietro di lui, e mentre sfrecciamo verso il suo villaggio, il vento gelido mi taglia la pelle scoperta. La neve ci avvolge come una cortina, e il freddo è così intenso che ogni respiro sembra solidificarsi nell’aria. Amaqjuaq, incurante del clima, inizia a parlarmi della sua cultura.

“Da noi, l’ospitalità è tutto…” Dice, alzando la voce per sovrastare il ruggito del motore e il vento. “Condividiamo cibo, casa, calore… e anche le nostre famiglie. È il nostro modo di essere fratelli, di restare uniti. Qui il sesso non è tabù, è vita, è comunità. Offrire la moglie a un ospite è un segno di fiducia, capisci? Non c’è gelosia, solo rispetto.” Le sue parole mi colpiscono, ma il freddo mi distrae, e annuisco senza approfondire, stringendomi a lui per ripararmi.

Dopo una ventina di minuti, arriviamo al suo piccolo villaggio, un gruppo di case basse e qualche igloo sparso, immersi in un paesaggio di neve infinita. La sua casa è una struttura moderna, ma semplice, con pareti di legno rinforzate e un tetto coperto di neve. Dentro, il calore mi avvolge come un abbraccio. L’odore di carne cotta e pellicce riempie l’aria. Ad accogliermi c’è Sana, la moglie di Amaqjuaq, una donna di 25 anni. Ha lineamenti delicati, occhi profondi come laghi ghiacciati e lunghi capelli neri raccolti in una treccia. Indossa una tunica di pelliccia decorata con perline colorate, e il suo sorriso è caldo, accogliente. “Benvenuto nella nostra casa…” Dice in un inglese morbido, porgendomi una tazza di tè caldo. “Qui sei uno di noi.”

La casa è un unico grande spazio, con un angolo per il fuoco, pelli di foca e caribù stese sul pavimento, e un’area rialzata coperta da una tenda dove dormono i bambini. Le abitudini sono semplici: tutto ruota attorno alla sopravvivenza e alla comunità.

Amaqjuaq mi fa accomodare su un piccolo divano basso, lui si siede su una delle pellicce. Sa che sono qui per un reportage e allora mi descrive la loro vita semplice e dice: “Il popolo Eschimese vive principalmente in Groenlandia e lungo le coste artiche del Canada, dell’Alaska e della Siberia nordorientale. Il nome Eskimo è stato dato loro dagli indiani Abnaki e significa "mangiatori di carne cruda", anche se noi preferiamo essere chiamati Inuit, che nella nostra lingua significa semplicemente persone. Purtroppo siamo rimasti solo in cinquantamila, tutti cercano scampo dal freddo ed emigrano in paesi più caldi. Qui la divisione del lavoro è netta e importante: gli uomini si occupano di caccia e pesca e le donne sono responsabili del fuoco e della casa. Siamo un popolo molto tollerante, crediamo nella reincarnazione e il nuovo nato viene allevato in base al genere maschile o femminile dello spirito che incarna, anche quando non corrisponde al sesso biologico.”

Gli chiedo circa i rapporti di coppia. Lui mi guarda sorride: “Beh ti sorprenderò, ma fino a poco tempo fa, gli Inuit non celebravano il matrimonio o almeno non esisteva un preciso contratto matrimoniale, abbiamo sempre avuto una tradizione molto libera riguardo ai rapporti di coppia. In caso di morte del marito la moglie diventava automaticamente la sposa di uno dei fratelli del defunto, di solito il minore, anche se quest'ultimo era già sposato. La cura dei bambini ricadeva completamente sulle spalle del nuovo marito.”

“Ed oggi? Gli chiedo curioso. E lui: “Ancora oggi resistono queste tradizioni e la loro particolarità principale è un forte paracadute sociale ma anche un senso di ospitalità. L’offerta della moglie all’ospite e la condivisione delle mogli in genere, sono visti come un segno di fratellanza e soprattutto, data la bassa densità della popolazione, come un rimedio all’auto conservazione della specie, attraverso lo scambio genetico. Il sesso insomma, aiutato dal clima rigido, viene usato per rafforzare e unire la comunità. Se la moglie dell’amico ritorna incinta, il bambino appartiene all'amico.”

Sorpreso dal suo racconto gli chiedo sulle condizioni della donna. Lui risponde sorridendo: “Amico, qui l’ultima parola tocca alle donne, loro possono volontariamente avere relazioni con altri uomini abbandonando se vogliono l’igloo coniugale. Non è raro che le ragazze inuit abbiano il primo figlio già attorno ai 16 anni e ancora prima di sposarsi, e che poi si uniscano in matrimonio con uomini che non sono padri biologici dei loro bambini. Capisci ora perché la prostituzione non avrebbe alcun senso in una società caratterizzata dalla poligamia, da un’ampia libertà sessuale e dallo scambio delle mogli perché nessuno avrebbe interesse a pagare per qualcosa di così condiviso e accessibile.”

Beh sì concordo ed avrei altre mille domande da fare, ma Sana ci avverte che la cena è pronta. Il pasto è a base di muktuk, ossia pelle di balena con uno strato di grasso, carne di foca stufata e bacche raccolte d’estate. Ci sediamo in cerchio su pelli morbide, e i quattro figli di Amaqjuaq, tra i 2 e i 7 anni, ridono e giocano, incuriositi dallo straniero, che poi sarei io.

Sana mi dice: “Ti piace il muktuk? È un po’ strano per chi non è abituato, ma dà forza contro il freddo.” In effetti ha un sapore strano e forte e non riesco a mentire: “È… interessante! Non avevo mai mangiato nulla del genere. Grazie per l’accoglienza, mi sento davvero a casa.”
Amaqjuaq ride: “Casa nostra è casa tua! Qui non lasciamo mai un ospite solo. Sana ha preparato tutto per te, sai? Anche un igloo vicino, se vuoi riposare…”
Sana senza imbarazzo aggiunge: “È la nostra tradizione. Sei nostro fratello ora, e noi condividiamo tutto.”

Le loro parole mi spiazzano. L’offerta è così naturale, detta con una semplicità disarmante, ma il mio istinto europeo mi rende titubante. “Grazie, davvero, ma… non so, è tutto nuovo qui per me.” Balbetto, arrossendo. Loro ridono, senza insistere, e cambiano argomento, raccontandomi storie di caccia e spiriti della tundra.

Con il passare delle ore, l’atmosfera si scalda. I bambini vengono messi a dormire, e Amaqjuaq tira fuori una bottiglia di liquore artigianale, un distillato forte che brucia in gola, ma scioglie ogni tensione. Ridiamo, parliamo della vita, delle stelle che brillano sopra la neve.
Ad un certo punto Sana si alza e si siede vicino a me, nel posto lasciato libero da uno dei ragazzi, il suo profumo di pelliccia e bacche mi avvolge.

Il calore della casa si intensifica, non solo per il fuoco che crepita al centro, ma per l’atmosfera che si fa sempre più intima. Il liquore artigianale, mi scalda il petto e scioglie ogni residuo di tensione. Le risate si mescolano al suono del vento che fischia fuori.
Amaqjuaq, seduto di fronte, racconta un aneddoto sulla caccia, ma la sua voce sembra lontana. Osservo sua moglie che lentamente si sistema i capelli, i suoi occhi, profondi come il cielo artico, incontrano più volte i miei, e il suo sguardo si fa sempre più intenso. Sento improvvisamente un’energia silenziosa, un invito al limite dell’incitamento diretto. La sua naturalezza mi spiazza quando lascia scivolare la spallina del suo vestito di pelliccia. Il gesto è lento, quasi casuale, ma il tessuto scende quel tanto che basta per mostrarmi la curva morbida del suo seno. Rimango senza fiato, ma lei insiste come se mi stesse mostrando un oggetto prezioso, un souvenir della loro cultura.

Amaqjuaq, che sta versando altro liquore, non batte ciglio. Anzi con un cenno del capo dice: “Sana è bella, vero? È un onore condividere con te la sua bellezza.” Le sue parole sono così semplici, così prive di gelosia o malizia, che mi lasciano ancora più disorientato.
Il mio imbarazzo è palpabile e la mia mente europea cerca di razionalizzare quella tradizione, ma l’alcol e l’intensità di Sana mi trascinano in un altro mondo, dove i confini che conosco si dissolvono rapidamente.
Lei si avvicina ancora, si sporge verso di me come per offrirmi quel suo bene prezioso: “Non pensare troppo. Qui siamo una famiglia.” Sussurra, afferrandomi la mano e guidandola delicatamente sul suo seno. Capisco che in quel momento un mio rifiuto sarebbe un affronto e allora mi lascio trascinare.

Amaqjuaq intanto si alza battendo le mani. “L’igloo è pronto…” Dice, con un tono ospitale e solenne. “Vai con Sana, è un onore per noi.” Sana si alza, mi prende per mano e mi guida fuori.
Mentre usciamo nella notte gelida, il contrasto tra il freddo pungente e il calore del suo palmo mi fa quasi girare la testa. L’igloo ci aspetta, illuminato dalla luce di una lampada a olio.
Dentro, è piccolo ma accogliente, con pelli soffici e coperte pesanti. Lei mi guida con una calma che ha qualcosa di rituale, come se stesse conducendo un cerimoniale antico. Chiude l’ingresso con una pelle di foca e il silenzio che segue è denso, rotto solo dal mio respiro, che si fa più rapido senza che me ne accorga. Sana si siede, mi guarda ancora, e il suo silenzio dice tutto. Questo non è solo ospitalità: è un rituale antico, un modo per tessere legami che sfidano il tempo e il gelo. Non parla, ma il suo sguardo è un richiamo. Con movimenti lenti inizia a spogliarsi. La tunica di pelliccia scivola dalle sue spalle, la sua pelle è liscia e dorata. Non c’è fretta nei suoi gesti, né imbarazzo: è come se ogni movimento fosse parte di un’offerta sacra, un dono che trascende il desiderio fisico.

Quando l’ultimo strato di tessuto cade, rimane completamente nuda, il suo corpo è al tempo stesso fragile e regale, snello e forte con le sue curve che parlando di maternità e sopravvivenza. Sembra una cacciagione, una preda che si offre volontariamente al cacciatore, ma non c’è sottomissione nel suo portamento. È lei a condurre la danza, a decidere.

La guardo e leggo nei suoi occhi una profondità che mi sconvolge: non è solo una donna, è l’incarnazione di un ideale di femminilità primordiale, radicato nelle viscere della terra. Mi offre tutta la profondità del suo essere, non solo il suo corpo, ma la sua essenza, come se stesse condividendo un frammento della sua anima, un legame che unisce la sua gente da generazioni.

Sono sopraffatto, lo stupore mi inchioda. Non avevo mai provato nulla di simile: c’è qualcosa di animalesco nella sua offerta, ma non nel senso crudo o brutale. È un’animalità pura, spontanea, come il volo di un falco o il corso di un fiume. È natura viva, senza filtri, senza vergogna. Mi sento trascinato in un’immersione profonda, come se stessi sprofondando nelle radici della terra, in un luogo dove l’essere umano si spoglia di ogni convenzione e torna a essere parte del tutto. La sua nudità non è solo fisica: è un’apertura totale, un invito a condividere non solo il piacere, ma la vita stessa.

Il suo calore mi avvolge prima ancora che mi tocchi. “Non avere paura… Non sai quanto ora Amaqjuaq sia felice…” Sussurra, la sua voce è morbida come il vento che accarezza la neve. Mi prende le mani e le guida sul suo corpo. Non c’è nulla di meccanico o forzato: ogni suo gesto è fluido, istintivo, come se stesse danzando un rituale che conosce da sempre.

Si dona con una generosità che mi sconvolge, non come un oggetto, ma come un’onda che si infrange nell’inevitabile. Mi guida a sdraiarmi sulle pelli, e il suo corpo si muove sopra il mio, un ritmo antico che sembra sincronizzato con il battito della terra.
In quel momento, perdo ogni senso del tempo. Non sono più solo un viaggiatore, un estraneo in una terra lontana: sono parte di qualcosa di più grande, un cerchio di vita che unisce uomini, donne, neve e stelle.

Alle prime luci dell’alba Sana si sveglia, mi bacia dolcemente sulla guancia e mi dice che deve andare da suo marito e dai suoi figli, il dovere la chiama. La guardo, so che tra noi non c’è stato amore, ma per assurdo, qualcosa di più profondo. Disteso su quelle pelli rimango a pensare: la notte nell’igloo è stata un’esperienza che va oltre il fisico, un’immersione nelle profondità dell’essere umano, dove il desiderio si intreccia con il rispetto, la condivisione con la sopravvivenza. Sana, con la sua offerta, mi ha portato a toccare l’essenza di ciò che significa essere vivi, in un mondo dove il gelo non può spegnere il calore della comunità e dell’anima.





FONTI:
https://www.deabyday.tv/amore-e-coppia/sessualita/
article/5174/Sesso-e-amore-nel-mond
o--gli-Inuit.html
https://www.widenews.it/2019/10/26/tra-carne-cruda-
esogamia-e-ospitalita-sessuale-per-gli-eschimesi-
vale-il-pudico-bacio-sulla-punta-del-naso/
https://www.eroticfeel.com/it/blog/la-sessu
alita-nel-mondo-dall-antico-egitto-agli-inuit

 

 







 
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