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Adamo Bencivenga
Il ballo all’ambasciata
SAIGON 1971 Era un giorno di festa, mi sono alzata
presto e senza fare rumore sono andata in cucina ed ho
preparato la colazione, poi sono entrata nella vostra
camera, ho aperto le finestre e delicatamente vi ho
svegliato con la luce del giorno. Vi ho guardati a
lungo, distesi nel letto, eravate penosamente distanti e
nel mezzo tra voi un vuoto siderale. Le lenzuola erano
così in ordine che non ho avuto alcun dubbio che non vi
eravate neppure sfiorati. Vi davate le spalle come due
soldati che dormono al fronte, come due carcerati che si
odiano per la convivenza forzata. Non c’era amore in
quella posizione, non c’era passione consumata nel buio.
Ora capivo le parole che mi avevi detto, la tua voglia
di essere amato, capivo la voglia di lei, il desiderio
d’essere scavata nel ventre, d’avere un buco nell’anima
a forma di sesso.
A tua moglie ho offerto una
rosa adagiata sul vassoio, a te un bacio sulla fronte,
cercando di non farmi accorgere da lei ancora assonnata,
e comunque di rimanere lontana da qualsiasi indugio. Non
dovevo sbagliare, non dovevo diventare la causa e la
scusa del vostro malessere. Sarei stata come uno dei
tanti pretesti da buttare via quando si tenta di
ricucire un rapporto.
La sera prima avevate
bisticciato, ma non ho capito il motivo, forse non c’è
neanche bisogno di un motivo quando si è così distanti,
ma mi illudevo che fosse per colpa mia, o forse no,
anzi, avrei desiderato con tutta me stessa essere
l’armonia nei vostri cuori, la leggerezza dei vostri
passi, l’ultima promessa prima di riprendere sonno.
L’amore che appanna ed appiana, la passione che entra
violenta ed esce a forma di fiore che addolcisce l’amore
di ogni giorno che passa.
Da più di due mesi ero
la vostra donna di servizio, tu mi avevi chiesto
gentilmente se conoscessi una ragazza, quella sera
quando mi hai incontrata in quel bar dove facevo la
cameriera. Eravate da poco in città, così belli, europei
e spauriti ed allora mi sono offerta e tua moglie non ha
avuto nulla da ridire. Ero bella sì, il mio corpo pieno
di insidie, ma forse lei aveva altro a cui pensare in
quel momento.
In poco tempo sono diventata la
confidente di entrambi, l’amica ed il gioco di quando
uno di voi due non era presente, ma in cuor mio speravo
che presto sarebbe stato diverso, che avrei riempito la
parte centrale e intatta del vostro letto,
inesorabilmente vuota e a forma di conca. Senza più
sotterfugi o segreti sarei stata l’amante, l’amante
ufficiale, tua e di lei senza bugie, accettata dall’uno
e dall’altra riempiendo quel vuoto, senza limiti
all’amore che davo, senza sentirmi infedele quando
offrivo la bocca alle vostre parti intime.
Quella
notte avevo dormito nella mia stanza come una domestica
o una cagna nella sua cuccia. Nessuno di voi due si era
alzato per venirmi a trovare. Prima di prendere sonno
pensavo che se avessi sentito il minimo rumore avrei
chiuso gli occhi ed accettato le mani di chiunque
fossero state come si accetta un destino. Contavo i
secondi fino a 20 a 30 a 50 illudendomi che prima della
fine avrei sentito un alito denso senza conoscere il
nome. Di te o di lei m’importava poco o nulla perché il
mio posto era riempire quel vuoto, scaldare la freddezza
delle tue maniere gentili, succhiare quel nettare di
lei, caldo e femminile, fino alla sorgente, perché mi
illudevo che solo in questo modo vi avrei fatto del
bene, non escludendo mai l’altro nei miei pensieri di
sempre.
Sono rimasta ferma e immobile senza
prendere sonno, sono passate ore fino a rendermi conto
che nessuno sarebbe venuto, sono rimasta buona buona nel
letto pensando che come donna, trascorsa la notte,
valevo di meno, che come amante mi mancavano i fiori, il
profumo che invade la stanza e il cuore.
Mi sono
alzata prestissimo, un’alba più rossa veniva dal mare ed
aveva invaso di luce la casa. Ho scostato appena la
tenda per spiarvi nel letto. Mi chiedevo cosa mai avessi
potuto fare per rendere quella giornata migliore, ma poi
ho fatto salti di gioia quando contemporaneamente mi
avete detto che ero anch’io invitata alla festa
dell’ambasciatore. Ero felice sì! Felice perché sapevo
che vi eravate consultati, felice perché anche una
domestica di Saigon può partecipare a quelle feste
esclusive, felice perché era un altro gradino della mia
conquista, d’essere l’amante ufficiale agli occhi del
mondo senza che voi ancora ne aveste accettato il ruolo
di entrambi.
Tua moglie mi ha chiesto quanto
fossi felice, certo sì lo ero, tanto che le ore di
quella giornata sono passate troppo lentamente. Lei mi
ha vestita all’occidentale, in fin dei conti avevo
soltanto due taglie di meno ed i suoi vestiti mi
facevano più grande degli anni che avevo. Mi ha truccata
caricando i colori, gli occhi, la bocca, per essere
immagine e somiglianza del suo desiderio, per essere
quello che lei non sarebbe mai riuscita ad essere ai
tuoi occhi. Mi truccava e mi baciava, ad ogni tocco
di colore mi tirava i capelli, mi stringeva la carne
nelle parti più sensibili. Voleva trasmettermi tutto il
suo potere, avvertirmi che nonostante fossi bella ero
sua in esclusiva e nessuno mai avrebbe potuto
avvicinarmi nemmeno con gli occhi.
Mi domandavo
se avesse saputo di te, di noi, come si sarebbe
comportata, se quella passione fosse stata altrettanto
possessiva e maschile. Ad ogni sua carezza avevo più
dubbi. Le sue mani erano troppo energiche, i suoi baci
violenti, ero convinta che volesse emularti, che in
qualche modo avesse capito o addirittura scoperti,
spiati la sera prima mentre in terrazza mi hai baciata.
Tu eri già fuori e non potevi vederci, lei mi baciava il
collo, il seno, mi stringeva i capezzoli e ti giuro ero
così in estasi che dentro quel piccolo bagno sarei
voluta rimanere per tutto il ballo, per tutta la festa
nonostante ci tenessi. In quei momenti speravo che tu
tornassi a casa e che mi vedessi, venerata come una Dea,
ma anche usata come una schiava di quella passione. Lei
inginocchiata davanti a me, con il viso tra le mie
gambe, desiderava che godessi, mi ripeteva: “Te lo
ordino!” E alla fine ho ceduto nonostante ti avessi
giurato il giorno prima che il mio nettare fosse stato
solo tuo. Poi siamo uscite da casa, tu ci stavi
aspettando, ma non ti sei accorto di nulla.
*****
La casa dell’ambasciatore era una villa bellissima,
dalla vetrata si vedeva in controluce un albero
gigantesco, uno dei tanti tamarindi piantati un secolo
prima che dominava il giardino fiorito fuori
dall’ingresso principale. Mai avevo visto tanto sfarzo
tutto insieme, non immaginavo che a Saigon ci fosse
tanta ricchezza, tanti uomini importanti, generali
imprenditori d’affari e tanti camerieri del posto
ripuliti alla buona. Seduta su un divano di pelle
bianca riempivo i miei occhi di luci e cristalli, di
pietre e gioielli che impreziosivano i decolleté di
donne fatali. Avevo paura che prima o poi qualcuno mi
riconoscesse come la cameriera di uno squallido bar di
periferia, come una delle sei figlie della sarta Nguyet.
Tu avevi capito il mio imbarazzo, la tua mano mi ha
accarezzato discreta i capelli scoprendomi il volto, per
farmi capire che non c’era nulla di male, nulla di cui
vergognarsi perché la povertà non è un delitto. Per
sciogliermi da ogni timore mi hai invitato a ballare.
Tra le tue braccia mi sono sentita più sicura, più
leggera di quanto pesassi. È bastato un nonnulla perché
scomparisse ogni paura, ogni minima tentazione di
fuggire lontano. Certo sì, non avevo ancora capito se
tutta quella gente fossero i difensori o gli assassini
del mio popolo, ma tra le tue braccia erano scomparsi
gli echi e le miserie di una guerra assurda.
Ho
sentito in quel momento il desiderio convinto di fare
l’amore con te, tu, al contrario di tua moglie, ancora
non sapevi affatto quanta devozione mettessi in
quell’atto, quanto il mio sesso fosse uno squarcio di
sogno, una finestra di mondo che non conoscevi. Quella
sera non l’avevo coperto di nulla, o meglio tua moglie
aveva preteso che la lasciassi nuda. Tu te ne sei
accorto, ma non hai detto nulla quando la tua mano è
risalita tra le mie gambe fino al mio piacere. Ad ogni
stretta accennata avvertivo il bisogno di darmi ed
appagarti. Sarebbe bastato un qualsiasi attimo per
occupare quel posto che ti spettava, lo stesso che avevo
dato a tua moglie ed ora nutrivo un senso incolmabile di
colpa per non avertelo detto. Durante quel ballo mi
baciavi e mi sfioravi, ed io non potevo fare a meno di
farti capire quanto il mio corpo fosse disponibile.
Solo in quel momento ho pensato a tua moglie. Oddio,
se ne sarebbe accorta! Ma ero in estasi e mai ti avrei
rifiutato! Per un attimo ho pensato di andare via,
lasciarti solo con lei. La musica stava finendo, mi sono
guardata intorno cercando con gli occhi tua moglie.
Quando l’ho vista impegnata in un ballo con un tenente
inglese mi sono decisa: “Scopami ti prego!” Ma tu non
capivi, tanto che mi è venuto il dubbio d’averlo detto
nella mia lingua.
Ho riguardato ancora tua
moglie, il tenente inglese la teneva per i fianchi e lei
lasciva non disdegnava quella stretta di maschio.
Avvertivo nel mio cuore sentimenti contrastanti, forse
ero gelosa, in quell’istante avrei voluto avervi
entrambi. Poi dietro una grande fioriera ho intravisto
una porta. Sono stata io a spingerti. Siamo entrati, era
buio, non si vedeva nulla. Era un lungo corridoio
adibito a magazzino. Mi sono appoggiata contro una pila
di scatole con dentro dei viveri, bottiglie di vino e
farina. Ti ho stretto a me con violenza come per non
farti fuggire, come per dirti che qualsiasi strada,
voglia o pensiero quella sera ti avrebbe condotto nella
mia fica.
Tu conoscevi il vestito, bianco
trasparente, scollato dietro fino ai fianchi. Chissà
quante volte l’avevi visto indosso a tua moglie e magari
ci avevi fatto l’amore. “Scopami, ti prego! Chiudi
gli occhi ed accarezza la stoffa, se proprio non vuoi,
fai almeno finta che io sia tua moglie.” Ecco, sapevo
che in quel modo sarebbe scattata la molla. Ho
accettato quello schiaffo, chiaro e diretto. Ne avrei
voluti degli altri, ma non c’era tempo e non ce n’era
bisogno. Ero tua fino ai capelli. Tua con tutto il corpo
proteso sul tuo sesso.
Appoggiata al muro e con
l’aria strafottente ho alzato il vestito senza permesso,
spalancato le gambe senza criterio, come una porta che
s’apre di scatto o il vento la spinge e vi penetra il
mondo. Per me sarebbe bastato anche un solo secondo, un
accenno che lasciasse la carne affamata, ma saziasse il
bisogno di essere tua, di sentirti alla pari con tua
moglie che ora parlava e amoreggiava senza sosta nella
grande sala. Non so se in quel momento ti stessi
amando, ma volevo a tutti i costi che tu fossi pari a
lei per occupare quel posto che ritenevo mio, vostro. Lì
in mezzo a voi, quel vuoto che nessuno di voi due
avrebbe mai riempito. Sapevo che non avevo altri mezzi,
che non avrei potuto darvi altro che mia fica e allora
ti ho urlato: “Scopami, ti prego! Eri lì davanti a me ed
io t’imploravo di farmi capire quanto dolore avrebbe
potuto sopportare il mio ventre, quanta donna c’era
dentro quell’anima che a carponi, se tu avessi voluto,
avrebbe leccato la terra e masticato erba fino a sentire
chiaramente lo strazio di carne come nel sogno della
notte precedente.
“Scopami, ti prego!” Ti
ripetevo. Proprio dove andavo cercando il contrario di
quella voragine che ad ogni tua stretta mi convinceva
d’essere solo fatta di pelle, d’essere faccia e mani e
null’altro. Tu non parlavi, ma non mi servivano domande
e le mie risposte erano dentro quelle pieghe che
profumavano da lontano ad ogni richiamo. Ringraziavo il
cielo per avermela fatta bella come una conchiglia dove
sarebbe bastato poggiarci l’orecchio per ascoltare i
flutti di mare. Perché nonostante mentissi a me stessa
tu servivi per nutrirmi il cuore, come tua moglie del
resto, anche se non l’avrei mai confessato!
In
quel momento avrei voluto implorarti di dirmi che non
valevo un semplice buco, quanto quelli che incontravi
nei tanti bordelli in città. Ne ero quasi sicura, perché
altrimenti l’avresti trovato in qualsiasi parte, sotto
qualsiasi gonna, qualsiasi strada fuori di lì, dove
masse di disperate sulle strade pregavano che la guerra
non finisse mai e che i soldati non andassero mai via.
Volevo sentirtelo dire perché mi accorgevo di averne
bisogno!
“Scopami l’illusione che con te sarà
tutto diverso, che m’accetterai anche quando saprai che
mi scopo tua moglie, che allargo le gambe senza
distinguere il sesso. Io cerco amore indipendentemente
dal tipo di sesso! Che strano sentirlo vero?” Ma non te
l’ho detto, non è uscita la benché minima parola. La tua
faccia era lì inespressiva e quasi mi vergognavo d’aver
pensato di chiederti amore.
Eh già Amore! Cosa
stavo dicendo? Un’inutile parola per infarcirmi la bocca
per il solo motivo di sentire la brama che avida avrei
voluto mi penetrasse, che ingorda avrei voluto
trattenere. T’aspettavo impaziente, aspettavo il fulmine
che si fosse fatto boato, tuono di Dio, di ira e
passione, ma tu eri lì fermo immobile. Mi hai
chiesto, come se ti dovessi fare un favore, di
inginocchiarmi. Senza nessun coinvolgimento sei entrato
tra le mie labbra, senza un gemito, un urlo, come due
pesci in silenzio nel mare. Non era un sesso che sentiva
piacere, non era un cazzo che m’estasiava le membra! Ne
avevo sentiti ben altri di maschi affamati, ingordi di
buchi che mi leccavano il cuore, nella smania di sapermi
più aperta prima d’entrare.
Eri lì senza parole,
con i colpi ovattati e un’amarezza di fondo, quasi
imbambolato senza renderti conto, che un inserviente del
posto era passato coprendosi gli occhi. Avevo capito
sai, non mi avresti presa, ma per me era già tanto
sentire il tuo sapore, ma avrei voluto avvertire la
forza, il frastuono del sangue che corre, che bolle,
l’energia d’un maschio che scarica a foce i detriti e le
scorie d’un atto d’amore. Ma eri lì quasi immobile,
una prolunga soltanto, non avevi né mani, né labbra, ed
io di rimando lì genuflessa somigliavo sempre più ad una
bocca di moglie, pieghe di un passato che mai avrei
voluto vedere nei tuoi occhi.
Sapevi che non ero
uguale alle altre, che una donna innamorata è uguale ad
una luna che esclusiva si offre, per questo tentavi e
sudavi, per questo m’avevi concesso di spalancare la
bocca. In un sussulto inatteso t’ho sentito più molle.
Allora non era questa la donna che stavi cercando, non
era quello l’antro umido per svernare i tuoi sogni. Mi
hai presa di peso e fatta alzare. Come per dirmi che ero
soltanto ridicola in quella posizione. Mi hai baciata
perché era l’unico mezzo per sentirci vicini, mi hai
leccato il seno perché non era questo il momento di
darmi risposte.
Avevo fallito, forse non ci
sarebbe stata un’altra occasione, forse davvero avresti
preferito far l’amore con qualsiasi altra donna, perfino
a tariffa, perfino di bordello. Poi sei andato via e mi
hai lasciata lì, forse ho pianto, forse ho riso. Quando
sono rientrata in sala ti ho visto che ballavi con tua
moglie. La stringevi, l’accarezzavi, la temevi. Allora
ho capito che non eravate sullo stesso piano e che per
me non ci sarebbe stato alcun ruolo.
La sera
stessa ho fatto le valigie e senza dire nulla sono
andata via nonostante tua moglie mi reclamasse nel suo
letto. Non so se lei abbia capito che non ero fatta per
quell’amore, che il mio posto era stare in mezzo a voi,
riempire il vostro vuoto alla luce del giorno, senza
sotterfugi, senza tradire per amare. Non ci sono
riuscita e non me ne faccio una colpa, amen, il destino
aveva deciso così.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
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