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Adamo Bencivenga
Autogrill
Chi l’avrebbe mai detto che la signora dell’ultimo
piano… che fa la professoressa in una scuola privata, sì
proprio lei con il marito avvocato e due figli che
studiano dalle suore, in questa notte di nuvole e
pioggia corre in auto parallela alla tangenziale di
Roma. L’auto è tedesca con i sedili in pelle ed al mio
fianco c’è lui, il mio amante che conosco da poco, che
non fa l’avvocato e non è neppure dottore, ma fa il
costruttore e ha un giardino e una villa, con aranci e
limoni e una cagna bastarda, che ha partorito due
cuccioli in strada, la prima sera, la stessa, quando ci
ho fatto l’amore. Ci siamo incontrati per caso, con
la voglia di entrambi di sfuggire alla noia, e lui m’ha
chiamata il giorno seguente, perché a parer suo ero la
donna più adatta, a dare del pepe alla sua vita piatta,
a fare del sesso senza pretendere amore. Sorpresa ho
indugiato davanti all’armadio, perché di colpo non avevo
vestiti, per essere bella come volevo apparire, cercando
tra i miei trucchi il colore più adatto, al mio sangue
che fluiva senza inventare pretesti o complicarsi la
vita cercando ragioni. Ero lì bella e pronta per
quando avrebbe voluto, per quando si fosse appunto
deciso, come un letto d’albergo la prima notte di miele,
come tomba che aspetta vuota d’ogni buon senso. Poi di
colpo una chiamata pressante, di quelle che ti
trascinano via, e da quell’istante solo ore e minuti
perché i giorni li avevo riempiti, nell’attesa che lui
mi chiedesse di uscire, nell’arrendermi al pensare ed
esserne certa, che nessun’altro uomo avrebbe mai
invertito, il verso scomposto del mio sangue più caldo.
Ora sono qui su questa tangenziale, preda del suo gioco
perverso e affascinata dai suoi modi gentili, dalla mano
che tiene il volante e dall’altra che cambia le marce.
Sia mai che mi tocchi, non ci sarebbe motivo, perché lui
è la guida o il tassista di turno che mi porta laddove
il desiderio mi assale. Chi mai potrebbe dire che
siamo due amanti, che tra noi c’è un patto di non
guardarci negli occhi, perché il vero amore rimanga in
disparte, da questo rapporto che è fisico e pelle, è
sesso di maschio già pronto per l’uso, è nettare caldo
d’agrume spremuto, anche se ancora c’è tanta strada da
fare, per il primo autogrill lungo il bisogno. La
radio manda musica anni settanta ed io ritocco di rosso
le mie labbra perfette, proprio nel punto dove prima
fumavo, anche se so di non averne bisogno perché tutto
parla in questo silenzio, anche se non ci sono parole,
ma solo cartelli che scandiscono il tempo, di quanto
rimanga per un respiro più lungo, per trasmettere
all’altro l’ansia del dubbio, che davvero stasera è la
sera più adatta, per vivere veri desideri scomposti.
Non c’è altro motivo perché stasera sia uscita,
mettendo una scusa di una festa in collina, con vecchi
amici che nessuno conosce, ritrovati per caso in una
chat di Facebook. Se mio marito davvero sapesse
arrossirei per la scusa banale, ma sinceramente non mi è
venuto di meglio, per provare l’ebbrezza di una sera
diversa, per stare fuori di casa fino alle due di notte,
e sfidare la luna e sentirmi regina, unica luce al
centro del sogno. Passano secondi come spilli
appuntiti, passano minuti e cresce l’angoscia, di non
essere pronta e non essere al meglio, m’annuso frenetica
mi fiuto la pelle, cercando tra le pieghe il minimo
odore, che non sia profumo, fragranza di fiore, e mi
guardo allo specchio come se qualcuno mi vedesse, ed
evito di fare smorfie e boccacce, perché sia mai che una
ruga spuntasse, mentre carico di trucco e rossetto due
labbra che chiedono solo di farsi sgualcire.
Se
lo sapesse la cassiera che mi chiama signora o l’omino
del pane che mi venera tutta, dove sto andando in una
sera feriale, mentre tra le gambe mi sale l’angoscia, di
non essere pronta a questo tipo di gioco, di ricevere
amore se così si può dire. Ma lui è convinto che è una
tappa obbligata, l’ha già fatto con altre e ne è rimasto
deluso, ma io sono diversa e dice che posso arrivarci,
al suggello d’amore come prova provata, in un autogrill
di notte distante da Roma.
Vorrei solo che ora mi
consigliasse per essere unica, sola e diversa, da tante
amanti che ora, chiedono solo una stanza d’albergo, al
riparo da occhi e sguardi indiscreti. Guardo le luci che
corrono lente e vorrei che lui mi coinvolgesse, mi
dicesse tesoro se non gli viene null’altro e che
riempisse d’affetto l’attesa che sento, magari toccasse
le gambe, le tette, i capelli per farmi sentire già
pronta, nella mia prima notte di moglie infedele, senza
mio marito che prima che uscissi, aveva stasera qualche
linea di febbre. Quest’uomo m’ha presa dai piedi alla
testa, ed ora pazza lo seguo senza domande, chissà quale
meta c’è stasera nel buio, quale desiderio che lo fa
sentire padrone, quale bolla papale per legarci per
sempre. Ma stasera lo sento non è un anfratto qualunque,
un parcheggio di notte per due amanti normali, non è un
motel con un letto e un divano di stoffa, di fiori
appassiti impolverati da sempre.
Lui continua a
fissare dritta la strada, non è un motel l’alcova che ha
in mente, non credo che il gioco sia ritrovarci in un
letto, non credo sia lui l’amante stanotte. Mi vengono i
brividi soltanto a pensarlo, ma è il prezzo che pago per
andare giù in fondo, per scavarmi nel posto dove
un’anima inquieta, non si sazia nemmeno pensando ad un
anfratto, persa nel buio di un casolare in campagna,
dove uomini a turno s’alternano maschi. Mi sento
confusa, ma non voglio pensarci, che la cura che ho in
mente è fatta di sesso, inconfessabile agli altri quando
l’alba si schiara, regina di notte che cerca e che
vuole, superare il confine di donna per bene, che cova
in segreto solo un misero amante. Chissà se ho fatto
bene ad accettare l’invito, anche se ora stringe solo il
volante, del resto lui da giorni mi parla deciso, e che
avevo ragione a pretendere il meglio, che un rapporto
segreto non ha senso e non vale, se non t’annebbia la
mente e ti strappa anche il cuore. Che la mia malattia
non risiede nell’incavo del cuore, ma ancora più in
basso dove nasce la voglia, che un rapporto qualunque
non sarebbe una cura, che a quarant’anni c’è bisogno di
altro, di scandalo e vizio per sentirsi più sciolta, da
tutti quei lacci di moglie e di madre, di signora per
bene coi capelli raccolti.
Ora sono qui che
guardo la strada, alterno momenti di gioia a paura, mi
sento persa e mi maledico, per aver accettato senza
sapere, quello che a breve convinta mi tocca. Chissà che
darei per sentire la sua voce, che dice convinto che
m’ama davvero, al punto d’invertire di colpo la rotta e
ritrovarci su una terrazza di un albergo sul mare, ma
poi non lo voglio ed in cuor mio ho deciso, di seguirlo
nei vicoli stretti e perversi, di un gioco di ruoli dove
faccio la preda, la gatta in calore che smania sui
tetti. Chiedo solo una mano, la sua, la sola, in
mezzo alle gambe che si fa complice e maschio, e
rabbonisce quel dubbio che sale e s’ingrossa,
nell’incertezza di non essere degna, dell’amore che
m’offre e non ripago abbastanza. Ora lui rallenta, le
luci di un autogrill si fanno più intense, mi chiedo che
senso possa avere? Padrona di notte, di ombre di strada,
e poi non sono ombre e chissà cosa m’aspetta, mentre ora
sicuro mette la freccia e guarda e scruta il posto
migliore. Le luci dell’insegna sono distanti, mi viene
un fremito che gonfia il mio petto, se davvero non mi
sentissi all’altezza? Se qualcuno un parente qui a caso
mi vede? Lui è affabile e calmo, vestito elegante, non
ha dubbi e si vede che è convinto di farlo. Mi dice di
stare tranquilla, che è solo un gioco, dove non si perde
o si vince, ma solo una prova per fondere l’anima, che
penso d’amore, che pensa di fica.
Ferma la
macchina e finalmente mi guarda, m’accarezza e
m’apprezza e mi dice che m’ama, ma lo so che non è il
cuore che parla, ma solo il pretesto per darmi coraggio.
Mi dice che sono regina, che così seducente non ci sono
rivali, con questo seno che ammicca, che fa capolino tra
i bottoni di perla. Non ci sono riserve nella sua mano
che tocca, nel timbro più caldo della sua voce sicura. E
allora prendo coraggio e mi sento più bella, adagio il
soprabito sopra il sedile, ed esco dall’auto con passo
regale e respiro decisa una notte diversa, la sento
nell’aria nei tacchi che struscio, lo spacco che s’apre
e mostra le gambe, che come promesso non porto mutande,
al fascio di luna che mi fa davvero più bella,
appetibile a quanti mi capitano a tiro, al vento che
soffia delle auto in corsa.
Lui rimane in auto e
mi guarda voglioso, fa un giro e ritorna e m’illumina
tutta, e mi chiama signora e mi chiede per quanto,
quanto davvero può vale una bocca, quanto il mio culo, i
fianchi, le tette, per vendermi a pezzi come carne sul
banco, perché una donna di classe non si concede del
tutto, e quanta saliva se davvero volessi, è sufficiente
per essere brava, per sentirmi puttana e lui solo un
cliente. Alzo la gonna ed ho quasi l’affanno, chissà se
il mio sesso ha un aspetto decente, se vale più di
quando è coperto di seta, di quando di giorno mi dicono
bella. Oddio se ora mi vedesse il portiere, che mi
venera santa come madonna, e ogni volta mi dice convinto
e sicuro, che le donne come me bisognerebbe inventarle,
perché signore per bene è una fortuna trovarle!
Faccio tre passi ed un uomo mi guarda, nient’affatto
sorpreso di vedermi che parlo, che fumo ed ammicco, che
mi mostro davanti perché non ci siano dubbi, che quello
che offro è di qualità e di classe, che i seni che
pendono non sono rifatti. Chissà quante ne ha viste a
quest’ora di notte, cariche di trucco ed una gonna per
scusa, ma se solo sapesse che quello che vede, è un
gioco perverso di puttana e cliente, di una donna che
chiede per sentirsi regina, di nani di circo e d’avanzi
di strada, e sentirsi più nuda della carne che offre,
perché l’amore che ho in mente non passa per casa, nel
letto di notte col crocifisso sul muro. L’amore che
chiedo è scrollarmi di dosso, la patina fitta di una
signora borghese, che porta suo figlio la domenica a
messa, e si tappa le orecchie per una storiella un po’
sporca.
Perché l’amore che chiedo, passa e non
t’aspetta, e ne assapori lo strascico che sa
d’abbandono. Ha le mani sporche che lasciano tracce,
indelebili e nere sopra i miei seni, sopra la gonna di
lino leggera, ha i capelli di grano e gli occhi di mare,
che come fari t’illuminano i punti più oscuri, ti
denudano l’anima come fosse il mio sesso, che nudo, che
pronto vorrebbero avere.
L’amore che chiedo ha la
voce di uomo, che mi chiama volgare e mi piace sentire,
e m’offende e m’inquina fino a penetrarmi nel cuore, e
in qualsiasi parte che ostento pulita. Perché l’amore
che chiedo m’insulta e minaccia e subito dopo mi bacia
le scarpe, chiamandomi amore come se davvero lo fosse.
L’amore che chiedo non sta lì a pregarmi di
prenderlo al volo, a domandarmi se domani sarà un giorno
migliore, magari senza impegni, i figli, la scuola. Mi
gonfia le labbra e mi cambia la voce, e mi fa dire
parole oscene e indecenti, che a letto accompagno con un
segno di croce. Mi trasforma in madre senza natura,
irriconoscente verso chiunque m’ami davvero, che non
conosce altre mani, che non conosce altro sesso, che non
conosce altra bocca da dove mi lasci succhiare, tutta la
forza compreso il buon senso, quel briciolo di dignità
che ancora giuro di avere.
Ecco ora sono nuda!
Nascondo i vestiti dietro una siepe, m’allontano e li
guardo per essere certa, che la mia dignità giace
accanto ai rifiuti, ai bisogni di cani che ci fanno di
giorno. Stasera lo sento non mi serve un uomo, garbato e
cortese che la prende alla larga, due occhi e parole che
mi fanno la corte. Voglio il primo che passa, che non
badi alla forma, che si ferma e mi prende senza
consenso, come un biglietto al casello prima che s’alzi
la sbarra. Lo voglio muto nel sogno, senza l’obbligo
d’apparire gentile, un camionista rumeno, un tassista
abusivo, che non mi dica amore perché tanto non serve, e
si senta in dovere di stapparmi la voglia, come un
portiere che ripulisce un tombino, da foglie e cartacce
portate dal vento. Perché l’amore che chiedo è un
rigurgito intenso, che ora esplode in un orgasmo
violento, libero e intenso senza un padrone e buca la
pelle lontano dal cuore, qui in piedi di notte, distante
da tutti, davanti ad un uomo che mi ha fatto da guida.
L’amore che chiedo è una donna illuminata dai fari,
come gli occhi di un amante che l’ha vista godere e
senza che nessuno m’abbia sfiorata o abbia avuto
l’ardire di sentirsi più maschio. L’amore che sento è
una strada che corre, è una donna appagata che ora
risale e ringrazia l’amante e gli dice che l’ama, dentro
una macchina che riparte e scompare, perché è tardi
davvero e mio marito m’aspetta.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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