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GIALLO PASSIONE
 

DIECI OMICIDI SENZA UN COLPEVOLE
Il Mostro di Modena*
“Il Killer delle lucciole”
Esiste un “Mostro di Modena”? In altre parole: esiste un unico serial killer dietro i dieci anni di omicidi di dieci giovani prostitute legate al mondo dell’eroina?Marina, Donatella, Monica sono solo alcune delle dieci vittime di quello che i media chiamarono il ‘mostro di Modena’. Giovanissime, eroinomani, alcune prostitute, venivano avvicinate dal killer e uccise a coltellate o a mani nude. Il mostro, mai catturato, si ritirò nel 1995



 
 
*NEL RISPETTO DELLE PERSONE SCOMPARSE NELL'ARTICOLO
NON SONO RIPORTATI I COGNOMI DELLE VITTIME

 
Modena, 1983.
La nebbia calava fitta e grigia sulla città, avvolgendo i palazzi squadrati e le fabbriche che vomitavano fumo acre nei cieli autunnali. Era l'Emilia del boom industriale che già mostrava le crepe: operai che marciavano verso le catene di montaggio della Ferrari o delle officine meccaniche, mentre la notte ingoiava i sogni di una prosperità effimera. La crisi petrolifera del decennio precedente aveva lasciato ferite aperte, e le strade si riempivano di ombre – disoccupati, tossici con gli occhi vuoti, e donne come Filomena, che battevano i marciapiedi sotto i lampioni gialli per un pugno di lire.

La Sacca, quel quartiere isolato ai margini della città, era un labirinto di vicoli dimenticati, dove le case popolari si affacciavano su cortili pieni di rifiuti e l'aria puzzava di umidità e disperazione. Qui, la legge era un concetto vago, un sussurro ignorato tra i rumori delle auto che sfrecciavano sulla vicina autostrada, e la criminalità si annidava come un virus nelle vene della società emarginata.

Quella notte di novembre, il freddo mordeva le ossa, e la pioggia sottile s’adagiava come un velo sull'asfalto irregolare di Via delle Nazioni Unite, una striscia di terra desolata tra capannoni abbandonati e campi incolti. Filomena giaceva lì, riversa in una pozza di sangue che si mescolava all'acqua piovana, il corpo martoriato da ferite da coltello che raccontavano una storia di violenza brutale. I suoi occhi spalancati fissavano il vuoto, il rossetto sbavato sul viso pallido come un'accusa muta. Faceva la vita, si diceva in giro, una prostituta che adescava i clienti nei bar fumosi del centro o lungo le strade buie, dove la droga scorreva come un fiume sotterraneo. Nessuno si stupì quando la notizia rimbalzò sui giornali locali: un delitto tra reietti, un affare di spacciatori e magnaccia, derubricato in fretta dalle autorità che preferivano voltare lo sguardo altrove. La Modena perbene, quella dei tortellini e delle partite di calcio allo stadio Braglia, non voleva sporcarsi con storie del genere. Ma sotto quella patina di normalità, la città mordeva segreti, e l'ombra dell'omicidio di Filomena si allungava come un presagio su chi osava scavare più a fondo.

Modena, 21 agosto 1985.
L’estate del 1985 era una fornace. L’asfalto della via Emilia bolliva, le persiane rimanevano chiuse fino a sera e la gente si muoveva lenta, come se l’aria stessa fosse diventata viscosa. Nei bar si parlava di caldo record, di siccità, di quanto fosse bello andare al mare a Rimini, mentre le radio sparavano “Live is Life” degli Opus e i ragazzi con i Ray-Ban a specchio sfrecciavano sui Ciao rubati. Ma a Baggiovara, appena fuori città, il caldo non perdonava nessuno. La fornace abbandonata era lì da anni: un scheletro di mattoni rossi, camini spezzati, vetri rotti, erba alta che cresceva tra le macerie. Di giorno i ragazzini ci andavano a fumare le prime sigarette, di notte era territorio di chi non aveva più un posto dove andare: coppiette clandestine, tossici in cerca di un buco tranquillo, qualche puttana che batteva la strada per Carpi.

Fu un cane randagio a trovarla. Giovanna aveva diciannove anni, capelli neri tagliati corti alla moda, un sorriso che nelle foto sembrava sempre un po’ triste. L’avevano lasciata dietro il muro crollato della fornace, seminuda, il volto ridotto a una maschera di sangue e schegge d’osso. Una pietra grande come un melone, ancora lì accanto, incrostata di materia cerebrale e ciuffi di capelli. Il cranio sfondato con una violenza che non lasciava dubbi: non era stato un litigio, era stato odio puro.

La questura ci mise meno di ventiquattr’ore a trovare il colpevole perfetto: il fidanzato, Marco, ventidue anni, capelli lunghi, eroina nelle vene da quando ne aveva sedici. Lo beccarono che dormiva in una Panda rubata, con la siringa ancora nel cruscotto. Disse che non ricordava niente, che erano stati insieme la sera prima, che avevano litigato per i soldi, ma giurava di non averla toccata. Lo tennero dentro tre mesi. Poi arrivò l’alibi: un barista di Nonantola che lo aveva servito fino alle tre di notte, a venti chilometri da Baggiovara. Marco uscì. Ma il marchio gli rimase addosso come una lebbra.

La città ricominciò a respirare. Un altro delitto di tossici che si ammazzano tra loro, una ragazza che frequentava giri sbagliati. I giornali dedicarono mezza pagina, poi passarono al Modena Calcio che rischiava la retrocessione. Solo qualcuno, nei bar della periferia o nelle osterie di Cognento, iniziò a sussurrare: due donne uccise in due anni, entrambe di notte, entrambe sole, entrambe massacrate con ferocia bestiale. Filomena sgozzata nel 1983 alla Sacca. Giovanna sfondata a Baggiovara nell’85. E in mezzo, il silenzio. Un silenzio che puzzava di nebbia, di lamierati caldi, di sangue secco sotto le unghie di qualcuno che, forse, stava già cercando la prossima.

San Damaso, 12 settembre 1987.
L’estate si era trascinata fino a settembre, ma quella mattina l’aria era già autunnale, pungente, con le prime foglie gialle che si staccavano dai pioppi lungo il Panaro. San Damaso è un pugno di case basse, campi di granoturco e la strada provinciale che taglia dritta verso Spilamberto. Un posto dove di notte si sentono solo i cani e le rane.

Donatella aveva ventidue anni, lavorava come commessa in un negozio di abbigliamento in via Emilia e la sera arrotondava come tante: qualche giro in macchina, qualche cliente fidato. L’avevano trovata in un fosso, a cento metri dalla rotatoria, il corpo quasi nascosto dalle canne. Vestito strappato, gola aperta da un taglio netto, profondo, da orecchio a orecchio. E poi il cuore: due coltellate precise, come se l’assassino sapesse esattamente dove colpire per farla finita subito.

Il medico legale fu categorico: arma da taglio lunga, lama affilata, mano sinistra. L’angolazione delle ferite non lasciava dubbi. E lì, per la prima volta, qualcuno in questura accese una lampadina. Perché il coltello era lo stesso tipo di quello usato su Filomena alla Sacca nel 1983. Perché anche Giovanna, a Baggiovara, era stata colpita da dietro, anche se con una pietra.
Perché tre testimoni, uno per ogni delitto, avevano parlato di una Fiat 131 blu, colore ministeriale, con la targa coperta di fango, che si fermava, l’uomo scendeva, zoppicava leggermente (ginocchio sinistro, dicevano), parlava due minuti con la ragazza, poi la convinceva a fare qualche passo nel buio. Tre delitti. Tre donne sole. Tre volte la stessa ombra.

Ma la questura aveva i suoi problemi: la Uno bianca iniziava a sparare, la mafia pugliese scaricava eroina al porto di Ravenna, i terroristi erano ancora una minaccia. Tre prostitute (perché ormai le chiamavano così, anche se Giovanna lo era solo a metà) non facevano notizia. I fascicoli vennero messi uno accanto all’altro, qualcuno ci scrisse sopra a penna “possibile serial killer?”, poi li richiuse. L’uomo della 131 blu continuò a girare. Modena dormiva sonni inquieti, la nebbia tornava a scendere fitta sulle strade di periferia, e ogni tanto, nei bar, qualcuno abbassava la voce e diceva: «Quello là, è ancora in giro. Zoppica, guida una 131 blu. E cerca sempre la prossima.» Poi successe ancora e stavolta non poterono più far finta di niente.

Gargallo, 1° novembre 1987.
Il giorno dei morti. Questa volta non passarono due anni, ma due mesi! Faceva un freddo umido che entrava nelle ossa. Le zucche intagliate ancora sui davanzali, i lumini nei cimiteri, la nebbia così densa che i fari delle macchine sembravano occhi di gatti ciechi. Gargallo è un pugno di case lungo la strada per Carpi, niente di più: un bar, una chiesa, qualche capannone, e poi campi, campi, campi.

Marina aveva ventun anni, magra come un chiodo, occhi azzurri che sembravano sempre sul punto di piangere. Eroina da quando era un’adolescente, ma era una di quelle che ancora si lavava, si metteva il rossetto, le calze a rete, i tacchi alti e si aggrappava alla vita con le unghie laccate di smalto. La trovarono all’alba, in un fosso di via Albone, strangolata con il suo stesso foulard giallo. Quello che portava sempre, regalo della madre, prima che la buttassero fuori di casa. Il foulard era annodato così stretto che il collo si era spezzato. Nessuna violenza sessuale, nessuna coltellata. Solo la morte lenta, faccia a faccia.

Sul sedile della sua 126 rossa, parcheggiata a cinquanta metri, c’era il diario. Una copertina di plastica rosa, cuoricini disegnati con il bianchetto. L’ultima pagina era datata 31 ottobre: «Stasera ho un appuntamento importante. Finalmente. Mi ha chiamato lui. Lo zio ricco. Dice che vuole aiutarmi, che ha soldi, che mi porta via da questa merda. Mi ha dato appuntamento alle 23 a Gargallo, vicino al distributore chiuso. Forse è la volta buona.»

I carabinieri lo lessero solo tre settimane dopo, quando la madre di Marina, distrutta dal dolore, andò a riprendersi le cose della figlia nella macchina ancora sotto sequestro. Lei lo portò in questura. Il commissario scosse la testa, ormai era tardi. Il fascicolo era già chiuso: “overdose con complicazioni, eroina nel sangue e morte accidentale in ambiente tossicodipendente”.

Ma qualcuno, in procura, quella volta fece due più due. Perché Marina e Donatella si conoscevano. Perché la sera del 12 settembre, la sera in cui Donatella era stata sgozzata a San Damaso, Marina era lì. L’aveva detto a un’amica: «Vado a prendere Dona, c’è uno che ci vuole portare a una festa». E due mesi dopo era morta anche lei. I tempi si erano accorciati. Non più due anni tra un delitto e l’altro. Due mesi. Perché? Forse Marina aveva visto qualcosa? O qualcuno. Lo “zio ricco”. L’uomo con la 131 blu ministeriale. Quello che zoppicava leggermente dal ginocchio sinistro. Quello che sapeva esattamente dove colpire al cuore, o quando stringere un foulard fino a spezzare una vita. Adesso non uccideva più solo per il gusto di farlo. Uccideva per cancellare le tracce. E la nebbia, quella nebbia modenese che non ti fa vedere a due metri, nascondeva ancora una volta il suo passaggio.

Panzano, 30 maggio 1989.
Un martedì qualunque, le campagne intorno a Modena erano già gialle di grano maturo, l’aria sapeva di benzina dei trattori. Panzano è lì, a pochi chilometri dalla città, un paese che sembra sempre sul punto di addormentarsi: la piazza con l’osteria, la chiesa, la ferrovia che passa dietro e poi subito i campi, i fossi, i capannoni.

Claudia aveva ventiquattro anni. Bionda ossigenata, un neo sopra il labbro che la faceva sembrare più grande. Faceva la vita da un paio d’anni, ma con stile: minigonna bianca, giacca di jeans, orecchini a cerchio grandi. I clienti la chiamavano “la tedesca” per via dei capelli. La trovarono alle sei del mattino, quando un contadino andò a buttare l’immondizia nel cassonetto di via del Gorgo. Era nuda, accovacciata contro il muro di un magazzino abbandonato, il corpo già gonfio per il caldo. Solo un laccio da scarponcino nero stretto al collo, annodato dietro con un nodo doppio, professionale. Il segno era profondo, viola, la lingua fuori, gli occhi aperti sul nulla.

Ancora una volta: niente violenza sessuale evidente. Ancora una volta: colpita da dietro. Ancora una volta: l’assassino aveva preso i vestiti e se li era portati via, come un trofeo. Un vecchio che abitava lì vicino giurò di aver visto, verso le due di notte, una Fiat 131 blu fermarsi per qualche minuto, motore acceso, fari spenti. L’uomo era sceso, zoppicava appena, aveva parlato con qualcuno, poi era risalito ed era sparito verso la tangenziale.

Ma il maresciallo dei carabinieri scrisse nel verbale: “Testimonianza poco attendibile, soggetto in stato di ebbrezza”. I giornali locali, stavolta, non si trattennero più. Il Resto del Carlino titolò a tre colonne: “IL KILLER DELLE LUCCIOLE COLPISCE ANCORA”. La Gazzetta di Modena invece mise la foto di Claudia in bella evidenza e sotto: “QUINTA VITTIMA IN SEI ANNI: LA POLIZIA BRANCOLA NEL BUIO”. Per la prima volta qualcuno in questura tirò fuori tutti i fascicoli e li mise allineati sulla stessa scrivania: Cinque donne.
Cinque modi diversi di uccidere (coltello, pietra, foulard, laccio), ma sempre da dietro, sempre di notte, sempre in periferia. Sempre sole. Sempre puttane. Sempre una 131 blu.

Il vicequestore, uno di Bologna trasferito da poco, fece qualche sopralluogo, qualche interrogatorio, ma i fascicoli tornarono nei cassetti. Il “Killer delle lucciole” divenne una leggenda da bar, una storia da raccontare sottovoce quando la nebbia calava fitta. E l’uomo della 131 continuò a guidare tranquillo, con il ginocchio sinistro che gli dava noia aspettando il momento giusto.

8 marzo 1990, Staggia di Bomporto.
Il canale era gonfio per le piogge di febbraio, l’acqua marrone scorreva lenta sotto i pioppi ancora spogli. Fabiana aveva ventun anni, era di Bomporto, una di quelle che tutti conoscevano perché era sempre in giro in bicicletta, con il walkman nelle orecchie e la faccia scavata dall’eroina. Non batteva, non aveva mai battuto. Era solo una tossica che chiedeva i soldi ai genitori o al nonno pensionato.

La trovarono i bambini che andavano a pesca di rane: galleggiava a faccia in giù, tra le bottiglie di plastica e i sacchetti. Vestita. Jeans Lee, maglioncino verde acido, K-Way aperto. Ma il volto era irriconoscibile: preso a calci, a pugni, con qualcosa di pesante. Il cranio sfondato in più punti, la mascella spezzata, i denti sparsi nell’acqua come chicchi di grandine. Un massacro che non assomigliava a niente di quello che era successo prima. I carabinieri dissero: regolamento di conti per droga. Caso chiuso in quindici giorni.

Modena 1991-1995
Poi arrivò il 1991 e il ritmo si fece infernale. Antonietta, 28 anni, soffocata con una calza di nylon in un campo tra Nonantola e Stuffione. Calza annodata dietro, nodo perfetto. Nuda dalla vita in giù.
Anna, 26 anni, 4 luglio 1992, strangolata con le mani nude vicino al cimitero di Cittanova. Segni di unghie sul collo: l’assassino portava l’anello con il sigillo.
Annamaria, 23 anni, 19 marzo 1993, undici coltellate al cuore in un fosso di Corlo di Formigine. Undici. Come se non si fidasse di fermarsi prima. Il corpo era coperto di foglie, quasi sepolto alla meglio.

Ogni volta la stessa storia: fascicolo aperto, fascicolo chiuso.
«Ambiente tossicodipendente».
«Prostituzione».
«Regolamento di conti».
La parola “serial killer” non venne mai scritta ufficialmente. Fino a Monica. 3 gennaio 1995, via Rua Freda, pieno centro di Modena, terzo piano di una palazzina popolare dietro il mercato Albinelli. Monica aveva trent’anni, era ancora bella nonostante l’eroina. La trovarono sul letto, in mutande e reggiseno, un ago piantato nel braccio sinistro, il laccio ancora al bicipite. Overdose, dissero subito i primi agenti.
Ma l’autopsia raccontò un’altra storia: era morta strangolata. Il segno del laccio era profondo, l’ago era stato infilato dopo, il sangue non era nemmeno colato. Qualcuno aveva voluto farla sembrare una morte banale da buco.

E lì, per la prima volta, saltò fuori un nome. Un ispettore della Mobile, quarantadue anni, sposato, due figli. Frequentava Monica da più di un anno. Andava da lei due volte a settimana, le portava la roba buona, quella che arrivava direttamente dalla questura sequestrata. Lo beccarono perché il portiere dello stabile lo riconobbe dalla foto. Lo interrogarono per tre giorni.

Lui disse: «Sì, ero lì il 2 gennaio, abbiamo fatto l’amore, poi lei si è fatta. Io sono andato via alle undici». Non aveva un graffio. Nessun segno di lotta.
Lo incriminarono per spaccio e favoreggiamento. Di omicidio, mai.
Ma nei corridoi della questura qualcuno iniziò a sussurrare davvero:
Perché l’ispettore zoppicava leggermente dal ginocchio sinistro, da un vecchio incidente in servizio nel 1981.
Perché guidava una Fiat 131 blu ministeriale, targhe coperte di fango quando pioveva.
Perché era mancino.
Ma era un collega. E i colleghi non si toccano. Il caso Monica finì in un cassetto. Il “Killer delle lucciole” continuò a essere una leggenda da bar. E Modena, la città grassa e disperata, continuò a sanguinare nel silenzio.

Monica era stata l’ultima che era entrata ufficialmente nella sequenza attribuita al Mostro di Modena: dieci donne, dal 1983 al 1995, tutte uccise di notte, quasi tutte tossicodipendenti o prostitute, quasi tutte ritrovate in aperta campagna o in vicoli di periferia.

Passarono sei anni fino a quando i corpi vennero riesumati e i casi riesaminati con il DNA. Un giornalista free-lance prese i dieci punti esatti dei ritrovamenti e li unì su una cartina topografica della provincia di Modena, il disegno venne fuori da solo: un pentacolo quasi perfetto, con la punta rivolta verso la Ghirlandina. I vertici erano i luoghi delle uccisioni: Sacca, Baggiovara, San Damaso, Gargallo, Panzano, Staggia, Nonantola, Corlo, Cittanova, via Rua Freda. Un simbolo esoterico chiaro, netto, inquietante. Il giovane giornalista portò la mappa in procura. Gli dissero: «Coincidenze geografiche». Portò la mappa alla Mobile. Gli dissero: «Non siamo in America, qui non ci sono sette sataniche». Portò la mappa in televisione, a “Chi l’ha visto?” Il servizio andò in onda nel 2009.

Due giorni dopo ricevette una telefonata anonima: «Lascia perdere, o finisci anche tu in un fosso». Il pentacolo non entrò mai in nessun atto ufficiale. Perché avrebbe significato ammettere che per dodici anni, tra il 1983 e il 1995, qualcuno aveva ucciso dieci ragazze seguendo un rituale, quindi l’ammissione della presenza concreta di un serial Killer.

Oggi i fascicoli sono ancora lì, in un armadio al quarto piano della questura di Modena, con l’etichetta «atti relativi a omicidi in ambiente tossicodipendente – archiviati». Dieci faldoni con dieci etichette e dieci nomi: Filomena, Giovanna, Donatella, Marina, Claudia, Fabiana, Antonietta, Anna, Annamaria, Monica. Dieci nomi che aspettano. Aspettano che qualcuno, un giorno, abbia il coraggio di aprire quell’armadio, di guardare la mappa, di leggere i diari, di ascoltare le cassette dei vecchi interrogatori. Perché la nebbia, a Modena, non ha mai cancellato tutto. Solo nascosto sotto la nebbia.

 




IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
https://www.fanpage.it/attualita/il-mostro-
di-modena-dieci-morti-su-cui-non-si-volle-indagare/
https://ilgiornalepopolare.it/il-mostro-di-modena-
nuove-indagini-e-forse-una-svolta/
https://corrieredellumbria.corr.it/news/cronaca/
30663943/mostro-modena-donne-uccise-assassino-
killer-citta-borghese.html







 
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