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GIALLO PASSIONE
 

Vera Renczi
La femme fatale
Famosa per aver ucciso con l’arsenico 35 uomini nell’arco di un decennio. Le sue vittime furono i numerosi amanti, i due mariti e suo figlio.
Bucarest, 1903 – 1960
 


 

 
Vera Renczi aveva quindici anni quando il mondo cominciò a sembrarle troppo stretto per contenere il suo cuore affamato. A Berkerekul, dove la famiglia si era trasferita da Bucarest due anni prima, viveva in una villa di pietra gialla insieme ai suoi genitori, lui ungherese rigido come un orologio, lei rumena morbida come un canto.

Di giorno Vera era una bambola di porcellana: capelli neri, bocca rossa e occhi verdi. Indossava abiti di lino bianco e camminava scalza sul parquet lasciando le impronte umide dei suoi piedi. Ma di notte la bambola diventava umana e, piena di ardore, scappava dalla finestra della soffitta, scavalcando il davanzale con l’agilità di un gatto.
Sotto, l’aspettava un uomo ogni volta diverso: un cocchiere con le mani callose, un insegnante di pianoforte che puzzava di tabacco, un soldato in licenza con la divisa slacciata. Li sceglieva più vecchi perché, pensava, fossero più facili da possedere. Li baciava con furia, e poi li stringeva fino a far male, sussurrando: “Sei mio, solo mio.”

Una volta tornò all’alba con un livido sul collo e un sorriso che non era più infantile. La madre la trovò in cucina, seduta sul tavolo che mangiava ciliegie direttamente dal cestino.
“Dove sei stata?” Chiese la donna. Vera sputò un nocciolo sul pavimento. “A prendere ciò che mi spetta.” I genitori provarono a chiuderla in casa, ma lei trovava sempre un modo per uscire: una chiave rubata, una finestra lasciata aperta, un servo compiacente.

A scuola era brillante, intelligentissima, ma distratta, scriveva poesie d’amore sui margini dei libri di matematica e le firmava con nomi maschili. Le compagne la invidiavano e la temevano. I maschi, quelli della sua età, li ignorava: “Troppo puliti. Troppo superficiali.” Lei voleva attenzioni, sentirsi desiderata e soprattutto più grande della sua età.

Una sera d’autunno, mentre la pioggia batteva sui vetri, Vera sedette sul bordo del letto e si guardò allo specchio. Aveva le labbra gonfie di baci, gli occhi cerchiati di sonno rubato. Si toccò il collo, dove un morso aveva lasciato un segno viola. “Un giorno saranno tutti miei.” Mormorò. Fu allora che il desiderio smise di essere un gioco. Diventò una gabbia che costruiva con le sue stesse mani, mattone dopo mattone, amante dopo amante.

A diciannove anni, Vera tornò a Bucarest, conobbe Karl Schick e lo sposò in una chiesa ortodossa gremita di fiori bianchi. Lei in seta color avorio, lui in tight nero. Karl aveva quarantadue anni, capelli grigi sulle tempie e un orologio d’oro nel taschino. Andarono a vivere in via Smârdan, una casa di tre piani con balconi di ferro battuto e tende di velluto verde. Rimase subito incinta e Lorenzo nacque undici mesi dopo il matrimonio. Un bambino pallido con gli occhi di sua madre. Vera lo allattava di notte, cantandogli ninnenanne in rumeno, sembrava quasi felice.

Karl lavora in banca e rimaneva tutto il giorno fuori. Quando la sera tornava a casa odorava di sigari e di un profumo troppo dolce e troppo femminile che non era il suo. I sospetti cominciarono a ferirla come punture di spillo. Un capello biondo sul bavero. Un biglietto profumato nella tasca interna. Una risata troppo lunga al telefono. Vera smise di dormire e di allattare suo figlio. Si sedeva davanti allo specchio della toeletta e si pettinava per ore, contando i colpi di spazzola: uno per ogni bugia, due per ogni donna che immaginava sua rivale.

Quando Karl rientrava, lei faceva finta di nulla: “Com’è andata oggi, tesoro?” Lui rispondeva distratto e lei registrava ogni esitazione. Una sera di marzo, la neve sciolta colava dai tetti come lacrime nere. Karl arrivò più tardi del solito, le guance arrossate dal vino, la bocca livida per i tanti baci che avevano deliziato l’amante di turno. Vera aveva preparato la cena: filetto al pepe verde, patate al rosmarino, e una bottiglia di Tokaji del ’98. Versò il vino con mani ferme, non prima di aver sciolto nel bicchiere di lui una polvere bianca. Arsenico di Parigi, lo chiamava tra sé, come se fosse un profumo.

Karl bevve. Parlarono di Lorenzo, del tempo e della banca. Poi lui si portò la mano al petto, tossì, si piegò in avanti. Il bicchiere gli scivolò dalle dita e si frantumò sul parquet. Vera lo guardò cadere, il viso contratto in una smorfia di dolore. Lei gli accarezzò i capelli grigi. “Shh…” Disse. “Adesso sei solo mio e per sempre!”
Vera pianse davanti ai parenti di Karl, accorsi da Vienna, in modo perfetto: lacrime vere e singhiozzi. “Dio l’ha chiamato. Era il suo destino.” Ripeteva a sua cognata.
Per giustificarsi disse a parenti ed amici che non poteva tollerare di essere stata abbandonata poi cambiò versione dicendo che suo marito era morto in un incidente stradale.

Tornata a casa, chiuse a chiave la porta della cantina. Lì, in un angolo, aveva già fatto portare una cassa di zinco da un falegname fidato. Dentro ci mise il corpo di Karl, avvolto in un lenzuolo di lino. Poi sigillò il coperchio con la cera e vi incise una data: 15 marzo 1923. Sopra, nella nursery, Lorenzo dormiva. Vera salì le scale, si lavò le mani con acqua di rose e si guardò allo specchio. Aveva vent’anni ed era una vedova perfetta, ma il lutto lo portò per pochi mesi. Intanto Lorenzo cresceva con la balia e la villa in via Smârdan sembrava troppo grande per una donna sola. Gli specchi la guardavano con rimprovero: “Hai ucciso l’amore, ora cosa farai con il vuoto?” Vera rispondeva pettinandosi i capelli fino a farli sanguinare.

L’incontro con Iosif Renczi avvenne a un ballo di beneficenza nella primavera del 1924. Lui aveva ventitré anni, capelli castani arruffati. Era un ingegnere, figlio di un commerciante di legname con le mani che sapevano disegnare ponti e gli occhi che sapevano mentire. Ballarono un valzer sotto i lampadari di cristallo e Vera sentì il suo corpo giovane premuto contro il suo come una promessa di normalità.
Si sposarono in giugno, in una chiesetta di campagna fuori Bucarest. Niente sfarzo: solo una ventina di invitati, un abito di pizzo color champagne. Iosif le baciava la nuca mentre firmavano il registro, e Vera chiuse gli occhi convinta che quel matrimonio sarebbe stato diverso e lei si sarebbe sentita amata, desiderata e non tradita.

I primi mesi furono un’illusione perfetta. Iosif tornava a casa alle sei, portava fiori di campo, leggeva il giornale sul divano mentre Vera gli massaggiava le tempie. Facevano l’amore ogni giorno con le finestre aperte, lasciando entrare il profumo di tigli. Ma poi arrivarono le trasferte: “Un cantiere a Brașov.” “Una settimana a Timișoara.” Iosif partiva con la valigia di cuoio e tornava con l’odore di un’altra donna sulla camicia.

Vera ricominciò a contare i bottoni mancanti, le macchie di rossetto sul fazzoletto. Una sera lo seguì. Lo vide entrare in un caffè in via Lipscani, sedersi con una brunetta dalle labbra rosse e carnose. Rise a una battuta di lei. Le toccò la mano. Tornata a casa, Vera aprì il cassetto della toeletta. L’arsenico era ancora lì, in un flacone di vetro scuro con l’etichetta Profumo di Parigi. Ne sciolse una dose in una tazza di tè alla menta. Iosif rientrò alle undici, stanco, con un sorriso colpevole. “Tesoro, ho fame.” Disse sedendosi a tavola. Vera gli porse un piatto di carne stufata e un bicchiere di vino rosso. “Bevi, ti scalderà.” Lui bevve tutto d’un fiato. E poco dopo si portò le mani alla gola, si piegò sul tavolo, rovesciò la sedia. Vera lo guardò cadere con la stessa calma con cui aveva guardato cadere Karl. Gli accarezzò i capelli castani: “Anche tu sarai mio per sempre.” Disse.

La mattina dopo, Iosif era sparito. Vera raccontò a tutti la stessa storia, con varianti minime. “Mi ha lasciata.” Disse alla madre di lui. Al vicino di casa disse: “È partito per l’Argentina.” Alla balia: “Gli uomini sono tutti uguali. Prima promettono, poi scappano.”
A tutti mostrava una lettera scritta con la calligrafia perfetta di suo marito. Carta intestata dell’Hotel Athénée Palace, inchiostro blu, una macchia di caffè per realismo. Vera la leggeva ad alta voce con le lacrime agli occhi. Nessuno dubitò.

Iosif non fu mai trovato. Vera chiuse la cantina a doppia mandata. Nella cassa di zinco accanto a quella di Karl, ce n’era una nuova. Dentro, Iosif giaceva con il suo sorriso congelato, vestito con l’abito delle nozze. Vera vi appoggiò sopra un mazzo di fiori secchi e incise la data: 12 ottobre 1924. Poi smise di sposarsi. Non perché non volesse, ma perché aveva capito che gli uomini si potevano collezionare in un altro modo.

A ventitré anni, Vera Renczi non era più una sposa, né una vedova: era una collezionista. La villa di via Smârdan si era trasformata in un alveare di silenzi. Di giorno, Lorenzo giocava nel giardino con la balia; di notte, Vera usciva. Non scappava più come da adolescente: entrava. Nei caffè, nei teatri, nelle case altrui. Vera non si vestiva: si armava!
Ogni abito era una trappola, ogni accessorio un amo mascherato. Il nero era il suo colore di battaglia, ma non il lutto delle vedove. Il suo nero assorbiva la luce e la rendeva unica.

Indossava tubini di crêpe che scivolavano sul suo corpo come acqua scura, lasciando intravedere la curva del fianco, del seno e il bordo di una calza di seta. La scollatura era sempre un invito calcolato: profonda quel tanto da far abbassare lo sguardo di un uomo, ma mai abbastanza da sembrare volgare. Un filo di perle nere le cingeva il collo come un cappio di lusso.

I cappotti erano armi pesanti: di cachemire nero con collo di volpe argentata, tagliati stretti in vita e svasati sui fianchi, che ondeggiavano quando camminava come ali di corvo. Li portava aperti anche d’inverno, per mostrare il vestito e il lampo di una giarrettiera di pizzo. I tacchi a spillo di ebano lucido erano così sottili da sembrare coltelli; il cappello a falda larga di feltro nero, inclinato che nascondeva metà del viso e lasciava scoperto solo le labbra. Il trucco era un rituale di guerra.
Rossetto rosso sangue, ombretto fumé, orecchini a goccia di onice, una borsetta nera, abbastanza piccola da contenere solo un portacipria, un rossetto e una fiala di vetro scuro.

Quando entrava in un qualche locale gli uomini smettevano di parlare. Vera si fermava sulla soglia, lasciava cadere la stola, si sistemava la calza. Era vestita per uccidere. E lo sapeva.

Le sue prede la guardavano e pensavano di averla scelta. Non sapevano di essere già stati scelti. Il primo dopo Iosif fu un tenente di cavalleria, sposato, con baffi impomatati e una moglie incinta a Ploiești. Si incontravano in un appartamento preso in affitto. Lui le portava cioccolatini svizzeri; lei gli portava il tè. Ma quando si accorse che in quella casa in affitto non era la sola ospite, tre settimane dopo, magicamente, il tenente sparì. La moglie ricevette una cartolina da Costanza: “Partito per manovre. Non aspettarmi.”

Poi venne un commerciante di seta, poi un medico, poi un violinista del Teatro Nazionale. Tutti sposati, tutti più vecchi, tutti infedeli. Bucarest cominciò a parlare di quegli uomini spariti nel nulla. Tutti stanchi della propria vita coniugale che avevano abbandonato le proprie mogli.
Le voci arrivarono alla polizia. Il commissario Ionescu, un uomo magro con occhiali tondi e un tic all’occhio sinistro, aprì un fascicolo intitolato Donna in nero. Dentro c’erano ritagli di giornale, foto, testimonianze e una lista di nomi cerchiati in rosso che avevano frequentato Vera.

La prima volta che la convocarono, lei arrivò con un cappotto di volpe e un velo di pizzo sul viso. “Signora Renczi, dove si trova il signor Gheorghe Popescu?” Domandò Ionescu. “Mi ha lasciata, commissario. Come tutti.” Vera tirò fuori dalla borsetta una lettera d’addio. Il commissario la lesse, la confrontò con le altre. Tutte uguali. Troppo uguali. Si insospettì e cominciò a pedinarla.
Due agenti in borghese, uno con cappello di feltro, l’altro con una cicatrice sul sopracciglio, la seguivano da lontano. La vedevano entrare nei caffè, sedersi accanto a un uomo, ridere, toccargli la mano da vera femme fatale.

Fu la moglie di un suo amante, un funzionario di banca di nome Milorad, che seguì suo marito per tre giorni fino a via Smârdan, nascondendosi dietro i platani. La terza sera si appostò fuori, vide suo marito entrare con un cappello in mano e un mazzo di rose rosse. Attese, ma il coniuge non uscì mai da quella casa, per cui la donna denunciò la scomparsa: “Mio marito è dentro quella casa.” Disse al commissario Ionescu, indicando la villa con un dito tremante. “L’ho visto entrare. Non è uscito.”

Ionescu bussò alla porta e Vera aprì in vestaglia di seta nera, i capelli sciolti sulle spalle. “Signora, conosce il signor Milorad Popescu?” Lei rise: “Mai sentito.”
Allora il commissario le mostrò una busta. Dentro, una lettera scritta con l’inchiostro viola di Vera: “Stanotte vieni da me, amore mio. Ti aspetto con il fuoco nel sangue.” Vera sorrise ancora. “Un’ammiratrice, immagino. Gli uomini ricevono tante lettere di questo tipo.”
Il mandato di perquisizione arrivò alle sei del pomeriggio.
Sei agenti sfondarono la porta della cantina chiusa con un lucchetto.
Un agente lo spezzò con un’ascia. L’odore li colpì come un pugno: dolce, metallico, di fiori marci e carne vecchia. Le torce illuminarono file di bare di zinco, trentadue, allineate come in una cappella privata. Alcune ancora lucide, altre opache di condensa. Sui coperchi, incise con un chiodo: date e iniziali dei nomi delle vittime.

Al centro della stanza, una poltrona rossa di velluto, sfondata al centro come se qualcuno ci si fosse seduto per anni. Accanto, un cero da chiesa consumato fino alla base, la cera colata in rivoli bianchi sul pavimento. Sul bracciolo della poltrona, una bottiglia di champagne vuota, etichetta Moët & Chandon 1915, il collo avvolto in un nastro nero.

Il commissario Ionescu si avvicinò alla bara più recente. Sopra c’era scritto: M.P. – 28 ottobre 1925. Aprì il coperchio. Milorad era lì, in giacca e cravatta, le rose ancora strette al petto, il viso bluastro, gli occhi aperti sul soffitto. L’arsenico gli aveva congelato il sorriso.

Vera non disse nulla. Non pianse. Non parlò. Solo, quando passò davanti alla poltrona rossa, si fermò un istante: “Era il mio posto.” Disse piano. “Da lì li guardavo dormire.” Nella cantina, gli agenti contarono: 2 mariti, 32 amanti, 1 bambino.

La villa fu sigillata e Vera fu portata in carcere. La cella era piccola, umida, con una finestra alta che lasciava entrare solo un taglio di luce grigia. Vera sedeva su una panca di legno, le manette d’argento ai polsi, i capelli neri sciolti sulle spalle. Non indossava più la vestaglia di seta. Le avevano dato una camicia da notte grigia di tessuto grezzo. Ma il suo sguardo era lo stesso: verde, immobile, come un lago ghiacciato.

Il commissario Ionescu entrò con un fascicolo spesso e una sedia. La posò davanti a lei, si sedette. “Parli, signora Renczi.” Vera sorrise. Il rossetto era sparito, ma la bocca era ancora rossa.
“Cosa volete sapere, commissario? Ormai sapete tutto.”
Poi sospirò: “Trentacinque. Tutti avvelenati con l’arsenico. Lo tenevo in una boccetta, nascosta tra le mie lingerie. Profumo di Parigi, lo chiamavo. Ne bastava un pizzico nel vino, nel caffè. Il movente commissario? Tradimento, tutti mi tradivano perché gli uomini sono nati per tradire! Del resto l’amore è possesso e quando un uomo smetteva di essere mio, smetteva di esistere. Tutto è iniziato col mio primo marito Karl Schick, lui pensava di poter avere altre donne oltre me. Gli ho chiuso le palpebre con le dita.”

Poi Vera continuò, la voce bassa, quasi una ninna nanna. Parlò di Iosif Renczi, il secondo marito. Di un tenente di cavalleria, un medico. un violinista, un altro banchiere, un avvocato, un dentista: “Tutti sposati, tutti bugiardi. Bevevano. Ridevano. Poi si irrigidivano. Io restavo lì. Parlavo con loro fino all’ultimo respiro. Sei mio. Sei mio. Sei mio. Dicevo. A volte piangevo. Ma non li lasciavo mai soli.”

A quel punto il commissario le chiese di suo figlio. “Lorenzo aveva dieci anni. Una sera è sceso in cantina. Cercava i suoi soldatini ed ha visto le bare. Gli ho dato il latte con il miele...” Il commissario chiuse il fascicolo. “Perché?” Vera alzò gli occhi e rispose. “Perché l’amore è una gabbia. E io non sopporto chi cerca di scappare.”

Il processo si tenne nella primavera del 1926, in un’aula gremita di Bucarest. Vera Renczi entrò in manette, vestita di nero come sempre, ma stavolta era un nero da tribunale: abito di lana pesante, collo alto, capelli raccolti in una crocchia disordinata. Non guardò nessuno. Solo il giudice che lesse l’accusa: “Trentadue omicidi premeditati con arsenico tra cui due mariti. E un figlio.” Il pubblico trattenne il respiro. Vera sorrise.
“Trentacinque.” Disse piano. “Ne ha dimenticati tre. Ma non importa. Li ho amati tutti.”

La difesa provò a parlare di follia. Un medico portò un referto: psicosi possessiva, delirio erotico. Vera rise. “Non sono pazza. Sono precisa.” La condanna arrivò il 14 maggio: morte per impiccagione. Ma la Jugoslavia, dove il caso era stato trasferito per competenza territoriale, non giustiziava le donne. La pena fu commutata in ergastolo. Senza appello. Senza visita. Senza luce.

La portarono al carcere di Požarevac, una fortezza di pietra grigia in mezzo alla pianura serba. La cella era 2 metri per 3. Un letto di ferro. Una finestra con sbarre. Le tolsero il nome. Diventò Detenuta 217. Ma lei, dentro di sé, era ancora Vera.

Gli anni passarono lenti. I capelli neri divennero grigi, poi bianchi. Il corpo si incurvò. Ma gli occhi restarono verdi. Le guardie dicevano che parlava da sola. Che cantava ninnenanne in rumeno. Che accendeva un fiammifero ogni sera e lo guardava spegnersi, sussurrando: “Buonanotte, amore mio.”

Nel 1939, un giornalista americano la visitò. Le chiese: “Si è pentita?” Vera, allora cinquantacinque anni, magra come un chiodo, rispose: “Mi pento di non averne avuti di più…”
Nel 1945, durante un bombardamento, la prigione fu colpita. Una parete crollò, ma Vera non scappò.
Morì il 12 giugno 1960. Infarto. Aveva 76 anni. La seppellirono nel cortile del carcere, senza nome, senza croce. Solo una lapide anonima.

Nel 1941, dall’altra parte dell’oceano, Joseph Kesselring scriveva Arsenic and Old Lace. Un’opera teatrale in cui due vecchie signore dolci avvelenano uomini solitari con vino di sambuco e arsenico. Una cantina di dodici bare. Un nipote che le scopre.

Il pubblico rideva, ma non sapeva che, anni prima, in una villa di Bucarest, una donna bellissima aveva fatto lo stesso. Senza ridere. Senza rimpianti. Qualcuno disse che Kesselring lesse i resoconti del processo sui giornali francesi. Quando, nel buio di un teatro, Brewster grida: “Ci sono dodici corpi in cantina!” Qualcuno, tra le quinte, giura di aver sentito un profumo di gardenia e una voce di donna, lontana, che sussurra: “Trentacinque bare! Trentacinque!”

 

IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI: https://it.wikipedia.org/wiki/Vera_Renczi
https://en.wikipedia.org/wiki/Vera_Renczi







 
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