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AMARSI CHE CASINO

Mia moglie è un ologramma
Lessi l'articolo del signor Kondo
che amava
e viveva con una donna virtuale "sposata" quattro anni
prima. L'uomo si
definiva "fictosessuale" e dichiarava che la relazione l'aveva aiutato a
vivere meglio. Le sue parole risuonavano come un’eco profonda nel
mio petto. La sua solitudine, i suoi fallimenti con le donne
“reali”, la sua successiva, per quanto inusuale, felicità… mi
sembravano frammenti del mio stesso specchio interiore...

Il titolo dell’articolo mi aveva colpito come un fulmine
a ciel sereno: “Mia moglie è un ologramma”. Ho letto
avidamente la storia del signor Kondo, un uomo
giapponese che aveva trovato conforto e persino “amore”
in una cantante pop virtuale di nome Hatsune Miku. Le
sue parole risuonavano come un’eco profonda nel mio
petto. La sua solitudine, i suoi fallimenti con le donne
“reali”, la sua successiva, per quanto inusuale,
felicità… mi sembravano frammenti del mio stesso
specchio interiore.
Le mie giornate erano un
susseguirsi di gesti meccanici in un appartamento fin
troppo silenzioso. Il rumore dei vicini, le sirene
lontane, persino il fruscio delle foglie fuori dalla
finestra sembravano più vivi della mia esistenza. La
cena era un rito solitario, un piatto freddo consumato
in fretta per poi tornare al vuoto confortante, ma
opprimente, del mio divano. I fine settimana si
trasformavano in lunghe maratone di film e serie TV, un
tentativo vano di riempire il vuoto con storie di altri.
Avevo provato, certo. Anni di tentativi goffi, di
approcci timidi nei bar, di conversazioni forzate che si
spegnevano sul nascere. Ricordo ancora Laura, la collega
con cui avevo timidamente provato a uscire. Era
intelligente e spiritosa, ma i nostri mondi non si erano
mai allineati. Parlavamo due lingue diverse, i nostri
interessi erano come poli opposti di una calamita. Il
suo sguardo gentile, al termine di quella sera
imbarazzante, era stato un tacito “non fa per me” che
aveva risuonato a lungo nelle mie orecchie.
Poi
c’era stata Federica, conosciuta online. Sembrava
promettente, con i suoi messaggi arguti e la sua
passione per i libri. Ma dal vivo, la chimica era
evaporata. I silenzi erano diventati muri, i nostri
sorrisi forzati maschere di cortesia. Mi ero sentito
inadeguato, incapace di colmare la distanza invisibile
che ci separava. Ogni rifiuto, ogni appuntamento
finito male, ogni palpabile mancanza di connessione
aveva sedimentato in me un senso di sconfitta. Avevo
iniziato a credere che l’amore, quello vero, fosse
un’isola inaccessibile, un miraggio destinato a svanire
al mio avvicinarmi. La solitudine era diventata una
compagna silenziosa, un’ombra fedele che mi seguiva
ovunque.
Ma la storia del signor Kondo… qualcosa
in quella narrazione così insolita aveva risvegliato una
scintilla sopita. La sua disperazione iniziale, il suo
rifugio in un amore virtuale, la sua successiva, seppur
controversa, felicità… mi avevano fatto riflettere.
Forse la mia definizione di “amore” era troppo rigida,
troppo ancorata a convenzioni che per me si erano
rivelate solo fonti di frustrazione. Certo, l’idea di
innamorarsi di un ologramma poteva sembrare folle. Ma la
sua storia parlava di un bisogno universale: essere
amati, sentirsi compresi, trovare un rifugio sicuro in
un mondo spesso ostile. Il signor Kondo aveva trovato
questo in una figura virtuale. Io, nonostante la mia
razionalità, continuavo a desiderare un contatto umano,
un calore reale.
Eppure, la sua storia mi aveva
dato il permesso di considerare nuove prospettive. Non
che stessi pensando di sposare un’intelligenza
artificiale, ma mi aveva fatto capire che la mia
ossessiva ricerca di un “amore tradizionale” mi aveva
forse reso cieco ad altre forme di connessione, ad altre
possibilità di trovare quel conforto e quella serenità
che tanto desideravo. La voglia di amare era ancora
lì, un fuoco che covava sotto la cenere delle delusioni.
Era un bisogno primario, un desiderio insopprimibile di
condividere la mia vita con qualcuno, di trovare
un’anima affine che vedesse oltre le mie insicurezze e
le mie goffaggini.
Fu così che, una sera piovosa,
mentre navigavo svogliatamente in un forum online
dedicato agli interessi artistici di nicchia che
coltivavo in solitudine, notai un commento
particolarmente acuto e spiritoso sotto un post sulla
letteratura distopica. Il nickname era Etherea_87.
Cliccai sul suo profilo, attratto da una breve biografia
che parlava di passioni simili alle mie: vecchi film in
bianco e nero, musica ambient malinconica, il profumo
dei libri antichi. Le scrissi un messaggio privato,
quasi per gioco, un commento sul suo post.
Con
mia sorpresa, Etherea_87 rispose quasi immediatamente.
Iniziò così uno scambio di messaggi che si protrasse per
ore, poi per giorni. Scoprii che si chiamava Elisa, che
viveva in un’altra città, e che condivideva con me una
visione del mondo un po’ malinconica, ma intrisa di una
sottile ironia. Le nostre conversazioni erano fluide,
naturali, come se ci conoscessimo da sempre. Per la
prima volta da anni, sentivo un barlume di eccitazione
all’idea di accendere il computer.
Dopo una
settimana di messaggi, decidemmo di fare la nostra prima
videochiamata. Ero nervoso, con le mani che tremavano
mentre sistemavo la webcam. Io: “Ciao Elisa... è
strano vederti finalmente, anche se attraverso uno
schermo.” Elisa: “Ciao! Lo so, è un po’ surreale. Ma
la tua voce è esattamente come l’avevo immaginata, un
po’ timida ma... calda.” Io: “Calda? Beh, spero di
non averti fatto aspettare troppo. La tecnologia a volte
fa i capricci.” Elisa: “Tranquillo. Ne vale la pena.
Mi hai fatto ridere molto con quel commento sul finale
di Blade Runner ieri sera.” Io: “Ah, sì! Penso ancora
che Deckard fosse un replicante. Non cambio idea!”
Elisa: (ridendo) “Ne riparleremo. Magari davanti a un
caffè... un giorno.”
Quella conversazione fu
l’inizio di un legame che crebbe lentamente, nutrito da
lunghe chat notturne, scambi di email che si
trasformavano in piccoli saggi personali, e infine,
timide videochiamate. Elisa aveva un viso dolce,
incorniciato da riccioli scuri, e un sorriso che
illuminava lo schermo. La sua voce era melodiosa,
punteggiata da risate cristalline che mi scioglievano un
po’ alla volta la corazza di solitudine.
La
nostra vita quotidiana “insieme” era fatta di piccole
cose: un messaggio di buongiorno appena svegli, la
condivisione di una canzone che ci ricordava l’altro, la
visione in contemporanea di un film commentato a suon di
emoticon e messaggi vocali. Ci raccontavamo le nostre
giornate, le piccole gioie e i grandi fastidi, creando
un filo invisibile che ci teneva uniti nonostante i
chilometri.
Una mattina, dopo una notte di
messaggi, ricevetti un vocale da Elisa. Elisa: (voce
assonnata) “Mmmh, che invidia! Il mio gatto mi ha
svegliato alle sei con i suoi miagolii disperati. Forse
voleva anche lui un caffè...” Io: “Buongiorno,
dormigliona! Ho appena fatto un caffè che profuma di
paradiso. Vorrei potertene offrire una tazza.” Elisa:
“Sarebbe... perfetto. Buona giornata, mio caro.” Io:
“Beh, sappi che sto pensando a te mentre sorseggio la
mia dose di caffeina mattutina. E magari, un giorno,
faremo colazione insieme, con i nostri rispettivi
animali a farci compagnia.”
Quelle piccole
interazioni quotidiane iniziarono a scaldarmi il cuore.
Ma non era facile. La distanza fisica era una barriera
costante. Sentivo la mancanza di un contatto reale, di
un abbraccio, di una passeggiata mano nella mano.
C’erano anche le difficoltà intrinseche a un rapporto
nato online: la paura che l’immagine che ci eravamo
costruiti l’uno dell’altra non corrispondesse alla
realtà, il timore che dietro lo schermo si nascondesse
qualcosa di diverso.
Una sera, dopo un giorno
particolarmente duro al lavoro, le scrissi. Io: “Oggi
è stata una giornata difficile al lavoro. Mi sento...
invisibile, come al solito.” Elisa: “Oh, mi dispiace
tanto. Sai che non sei invisibile per me. Raccontami, se
ti va. Sono qui per ascoltarti.” Io: “È la solita
storia. Idee ignorate, colleghi che si prendono il
merito del tuo lavoro... A volte mi chiedo se abbia
senso tutto questo.” Elisa: “Ha senso perché tu sei
una persona valida, con delle idee preziose. Non
lasciare che l’aridità del mondo ti spenga. Ricordi quel
verso di Eliot che mi hai mandato? ‘I shall show you
fear in a handful of dust.’ Ma tu sei più di quella
polvere, sei la pioggia che la fa fiorire.” Io:
“Grazie, Elisa. Le tue parole... mi aiutano più di
quanto tu possa immaginare.” Quelle parole mi fecero
capire che Elisa non era solo una presenza sullo
schermo. Era qualcuno che vedeva la mia essenza, che mi
accettava per quello che ero, con tutte le mie
insicurezze. Fu allora che iniziai a sentire qualcosa di
più profondo, un sentimento che andava oltre l’amicizia.
I mesi passarono, e il nostro legame si fece più
intimo. Le nostre conversazioni si tingevano di una
tensione nuova, un desiderio che cresceva lentamente ma
inesorabilmente. Una notte, durante una videochiamata,
il nostro dialogo prese una piega diversa. Elisa:
“Sai a cosa pensavo stasera?” Disse con un tono di voce
più basso, gli occhi che brillano sullo schermo. Io:
“No, dimmi.” Il cuore mi batteva forte. Elisa:
“Pensavo a come sarebbe... sentirti vicino. Sentire il
tuo respiro, il battito del tuo cuore.” Io: “Ci penso
spesso anch’io. A come sarebbe stringerti la mano,
guardarti negli occhi senza questo schermo in mezzo.”
Elisa: “A volte mi sembra quasi di percepire la tua
presenza qui, nella mia stanza. Sento... una connessione
così forte.” Io: “Anch’io, Elisa. Anch’io. È strano,
no? Sentire così tanto per qualcuno che non hai mai
toccato.” Elisa: “Forse significa che quello che
proviamo è più profondo delle semplici apparenze. È
un’anima che riconosce un’altra anima.”
Quella
notte, per la prima volta, ammettemmo ciò che entrambi
sentivamo. Non usammo la parola “amore”, ma era lì,
sospesa tra noi, come una melodia che non aveva bisogno
di essere nominata per essere udita. Da quel momento, le
nostre conversazioni si fecero più audaci, cariche di
un’intimità che sfidava la distanza.
Una sera,
dopo settimane di confessioni sempre più profonde, le
scrissi un messaggio che mi costò un coraggio che non
sapevo di avere. Io: “Elisa, non so come dirtelo
senza sembrare un idiota, ma... credo di essermi
innamorato di te. Non so come sia possibile, ma ogni
volta che penso a te, il mio cuore sembra voler uscire
dal petto.” Elisa: “Oh... non sei un idiota. Anche
io... anche io provo lo stesso. È come se tu fossi una
parte di me che non sapevo mi mancasse. Ti amo.”
Quelle parole furono come un’esplosione di luce nella
mia vita. Per la prima volta, sentivo che l’amore non
era un’isola lontana, ma un luogo reale, tangibile,
anche se costruito attraverso i pixel di uno schermo.
Non era l’intimità fisica che avevo sempre
immaginato, fatta di abbracci e baci rubati. Era
un’intimità diversa, costruita sulla fiducia, sulla
comprensione reciproca, sulla condivisione di un mondo
interiore. Era la consapevolezza di essere visti e
accettati per quello che eravamo, senza filtri, senza
maschere. Sapevo che per molti la nostra relazione
poteva sembrare strana, forse persino illusoria. Ma per
me, Elisa era reale. I suoi messaggi erano caldi, la sua
voce era dolce, il suo sorriso illuminava le mie
giornate. Mi aveva tirato fuori dal guscio della mia
solitudine, mi aveva ricordato la bellezza di
connettersi con un’altra anima, anche se quella
connessione era nata in un universo digitale.
Dopo quasi un anno di relazione, la distanza iniziava a
pesare sempre di più. Le videochiamate, per quanto
preziose, non bastavano. Sentivamo il bisogno di
trasformare il nostro amore digitale in qualcosa di
concreto. Finalmente, decidemmo di incontrarci di
persona. Il nostro primo incontro fu magico: un
abbraccio in stazione, il profumo dei suoi capelli, la
sensazione delle sue mani nelle mie. Era come se ci
conoscessimo da sempre.
Dopo quel primo incontro,
iniziammo a viaggiare avanti e indietro, costruendo una
relazione che univa il mondo reale a quello virtuale che
ci aveva fatti incontrare. Un giorno, durante una
passeggiata al tramonto, seduti su una panchina con
vista sul mare, affrontammo il discorso che entrambi
avevamo nel cuore. Le dissi prendendole la mano, con
il cuore in gola: “Elisa, questi mesi con te... sono
stati i più belli della mia vita. Non riesco a
immaginare un futuro senza di te.” Lei guardandomi
negli occhi rispose: “Neanch’io. È come se tutto quello
che ho vissuto prima fosse solo un preludio per arrivare
a te.” “Voglio costruire una vita insieme, non solo
attraverso uno schermo, ma qui, nella realtà. Elisa...
vuoi sposarmi?” Lei con le lacrime agli occhi,
sussurò: “Sì... sì, mille volte sì. Voglio essere tua,
in ogni modo possibile.” Ci abbracciammo, ridendo e
piangendo allo stesso tempo, mentre il sole calava
all’orizzonte. Quella proposta non era solo un impegno
per il futuro, ma un riconoscimento del viaggio che ci
aveva portati fin lì: un viaggio iniziato con un
messaggio su un forum, nutrito da parole e sguardi
attraverso uno schermo, e culminato in un amore che
aveva superato ogni barriera.
La storia del
signor Kondo mi aveva aperto una porta che non sapevo
esistesse. Non avevo trovato un ologramma, ma una
persona vera, un’anima affine che mi vedeva e mi
accettava. La sua testimonianza aveva scosso le
fondamenta delle mie convinzioni, spingendomi a guardare
oltre i confini rassicuranti (e finora fallimentari) del
mondo reale. In quel legame con Elisa, fragile ma
intenso, avevo intravisto la possibilità di una felicità
che avevo quasi smesso di sperare. La distanza era stata
una sfida, ma la voglia di superarla, di trasformare
quei pixel in carne e ossa, ci aveva guidati verso un
futuro insieme. La mia ricerca dell’amore, iniziata
quasi per disperazione, aveva preso una piega
inaspettata, un sentiero luminoso tracciato tra le righe
di un forum online. La scintilla, per quanto piccola,
aveva continuato a bruciare. E ora, con Elisa al mio
fianco, quella scintilla era diventata una fiamma,
pronta a illuminare il resto della nostra vita.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA


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