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Adamo Bencivenga
Era come andare al bancomat
Gilda ha appena 15 anni quando scopre che
sua madre fa la vita per mantenere la
famiglia. Cerca di ribellarsi con tutta se
stessa, ma quella scoperta condizionerà inevitabilmente tutta
la sua vita

L’ADOLESCENZA
Mia
madre faceva la puttana! Lo scoprii un pomeriggio
d’inverno e mi crollò il mondo addosso. Al tempo avevo
poco più di 15 anni e il mio amichetto Pasquale, figlio
di una vicina di casa, mi venne a chiamare. Il
giorno prima avevamo litigato perché lui senza alcun
tatto mi aveva detto di aver visto mia madre con un
altro uomo. Ovviamente non ci avevo creduto e lui si era
offeso. Il giorno dopo però mentre stavo studiando da
sola in casa Pasquale bussò alla mia finestra al pian
terreno: “Dai Gilda, vieni, che ti faccio vedere.”
“Cosa mi vuoi far vedere.” Risposi spazientita. “Che
non dico bugie. Dai vieni.”
Spinta dalla
curiosità salii al volo sul suo motorino e dopo aver
percorso una buona parte della litoranea verso un posto
chiamato “Le dune” e ancora dopo, proseguendo a piedi
tra le sterpaglie, arrivammo in un grande spiazzo
interamente coperto da aghi di pini. Pasquale si fermò e
mi indicò una macchina bianca tra due tronchi di pini
rivolta verso il mare. Poi mi disse: “Dai, avvicinati e
guarda chi c’è dentro quella macchina. Vedrai che non ti
dico bugie.” Con il cuore in gola feci qualche passo, mi
tremavano le gambe. L’ultimo tratto lo feci a
carponi per non farmi vedere e inginocchiata a circa tre
metri dalla macchina vidi chiaramente mia madre che
stava baciando un uomo più anziano di mio padre.
Tornai indietro fissando sempre quell’auto. “Vedi che
avevo ragione?” Pasquale parlava, ma io non lo sentivo.
Mi prese un forte senso di rabbia, ma davanti a lui non
piansi.
Tornando verso casa però pensai che
fosse il suo amante o almeno ci speravo, ma il giorno
dopo, sempre alla stessa ora, spinta da un forte senso
di gelosia nei confronti di mio padre, tornai da sola in
quel tratto di spiaggia, e vidi di nuovo mia madre, era
seduta dentro una Mercedes scura e questa volta con lei
non c’era più il signore anziano del giorno prima, ma un
ragazzo moro di circa trent’anni. Mi rassegnai e come
aveva detto Pasquale, mia madre non aveva solo un
amante, ma faceva la prostituta anche perché, avendo già
avuto le mie prime esperienze amorose, sapevo benissimo
cosa stesse facendo con la faccia rivolta tra le gambe
del giovane.
Quella scena mi rimase nella mente
per molto tempo, credevo di essere la sola ad essere a
conoscenza di quel segreto, pensai anche di confidarmi
con mia zia, la sorella più giovane di mia madre che
abitava con noi, ma non ebbi il coraggio. La sera
pregavo la Madonna chiedendole di farla smettere o
quanto meno che nessuno sapesse, perché la mia
preoccupazione maggiore non era tanto il fatto che mia
madre andasse con altri uomini, ma che mio padre lo
venisse a sapere. Era un segreto troppo grande per me,
andai anche in chiesa e accesi un cero a San Giuseppe,
ma poi durante la confessione non dissi nulla al prete.
Comunque fu tutto inutile perché poi crescendo
scoprii che praticamente, anche se lei lo faceva di
nascosto, in casa lo sapevano tutti, compresa mia nonna,
mia zia e ovviamente mio padre. Col tempo capii che la
sua non era stata una libera scelta, ma, costretta dalle
circostanze, faceva il mestiere più antico del mondo per
mantenere tutta la famiglia e tutti stavano zitti, visto
che in casa non c’erano altre entrate a parte la misera
pensione di mia nonna e qualche soldo che mio padre
guadagnava a nero lavorando come carrozziere
nell’officina di un suo amico.
MIO PADRE
E MIA MADRE
Ricordo ancora quando la sera dopo
cena, ancora tutti a tavola, mia madre si alzava e,
raccomandandomi di sparecchiare la tavola, andava in
bagno a prepararsi. Quando tornava era un’altra persona,
bella e seducente, di solito con la gonna corta e una
scollatura esagerata, avvicinava quelle labbra rosso
fragola all’orecchio di mio padre, poi dandogli un bacio
gli sussurrava: “Torno presto, aspettami sveglio
tesoro.” Lui non rispondeva, aspettava che lei uscisse
per riempirsi il bicchiere di vino fino all’orlo e
rimanere lì in cucina a guardare la piccola tv in bianco
e nero. Tutto ciò mi sembrava davvero strano, non
riuscivo a farmene una ragione e dopo aver rigovernato
la cucina rimanevo accanto a lui a fare i compiti,
chiedendomi come facesse a tollerare tutto questo e
soprattutto come facesse a non essere geloso!
Seppi in seguito che quelle uscite serali erano dovute
al suo nuovo impiego in un albergo di lusso dove
ufficialmente faceva la cameriera ai piani. Ovviamente
non tornava mai prima delle due, tre di notte. Una sera
tardi, mentre ero nel letto, io dormivo su un divano nel
corridoio perché la mia stanza era occupata da mia zia e
dal suo nuovo compagno, sentii chiaramente tra il
dormiveglia la voce di mio padre dire: “Quello lo hai
visto già tre volte in una settimana.” Parlava di un
certo Franco che mia madre frequentava di giorno. Nella
voce di mio padre non avvertii alcun rimprovero, ma
semplicemente paura. Ne dedussi che a mio padre non
interessava affatto che sua moglie facesse l’amore con
altri, ma che non tollerava che frequentasse lo stesso
uomo. Con un certo sollievo pensai dapprima che fosse
geloso, ma poi riflettendoci capii che il suo timore era
solo quello che mia madre si potesse innamorare di un
altro uomo e lui di conseguenza perdere la sua unica
fonte di guadagno.
Per il resto, nella nostra
famiglia, il mestiere di mia madre era diventato una
cosa più che lecita tanto che, quando in casa vi era
penuria di soldi, tutti si rivolgevano a lei, perfino
Luciano il compagno di mia zia. Alle volte senza parlare
andava in bagno, si spalmava il suo rossetto fragola
sulle labbra, usciva e dopo circa un’ora tornava con i
contanti. Insomma per lei era come andare al bancomat
con la differenza che invece del codice pin usava le sue
belle labbra, il suo seno e le sue belle gambe di
quarantenne ancora giovani ed appetitose.
DICIOTTO ANNI
Avevo ormai 18 anni,
frequentavo l’ultimo anno di liceo, e la mia unica
preoccupazione era quella che le mie compagne di scuola
venissero a sapere cosa facesse realmente mia madre.
Visto il nostro tenore di vita abbastanza alto, quando
mi chiedevano cosa facesse mio padre, rispondevo che
lavorava da casa per una grossa azienda del nord
evitando che scendessero in dettagli ai quali non avrei
mai potuto rispondere. In casa non avevamo più avuto
difficoltà economiche, mio padre addirittura si era
comprato una Bmw di seconda mano ed io giravo con
vestiti costosi e borse alla moda. Insomma mia madre, da
quanto avevo intuito, si era specializzata nella
professione e in un certo senso, se così si può dire,
aveva fatto carriera. Non lo faceva più in macchina per
pochi spiccioli, e la sua nuova clientela era gente
benestante, liberi professionisti e commercianti delle
zone limitrofe. Lo dedussi una volta quando, in
compagnia di Alberto, il mio ragazzo, la vidi seduta
insieme ad altre sue colleghe in un grande albergo
fronte mare in una località a qualche decina di
chilometri da dove abitavamo. Ovviamente feci finta di
non conoscerla e pregai Alberto di andare a prendere il
nostro aperitivo in un altro locale con la speranza che
lui non l’avesse notata.
Con me lei era sempre
carina e sorridente, premurosa ed apprensiva si
comportava come una normale madre coprendomi d’affetto e
di regali, ma io vivevo male quella situazione. La sera
pregavo ancora la Madonna e sempre sull’orlo della
vergogna pensavo a quanto fosse assurda quella
situazione e l’unico mio proposito era quello di
sposarmi ed andare via da quella casa. Proposito che
divenne ancora più forte quando una sera, tornando a
casa, sentii da fuori le grida di mio padre e il pianto
di mia madre che ripeteva continuamente con la voce
rotta: “Non è successo niente.” In realtà qualcosa era
successo e solo in seguito venni a sapere che mamma
nelle ore per così dire di riposo se la spassava con
Luciano, il compagno di mia zia. Evidentemente mio padre
li aveva colti sul fatto, ma durante quella litigata,
pur insultandola, non le disse mai “puttana” o parole
simili. Tra me e me pensai quanto fosse ridicola
quella scena con mio padre geloso e mia madre che
cercava di rassicurarlo appellandosi alla sua moralità
ossia che mai avrebbe fatto qualcosa in casa. Del
resto un uomo in più cosa sarebbe cambiato? Poi capii il
vero senso di quella litigata quando mio padre le disse:
“Ora lo fai anche gratis!” Ecco, appunto, la questione
non era tanto che avesse fatto l’amore con il cognato,
ma il fatto che lui non l’avesse pagata! Ovviamente
quella litigata non ebbe strascichi, anzi certe sere era
lo stesso Luciano ad accompagnare mia madre al lavoro.
ALBERTO
Ero esasperata e quando
terminai la scuola prospettai ad Alberto di andare a
convivere, lui però prese tempo dicendomi chiaramente
che non si sentiva ancora pronto. Lui era il figlio di
un fabbricante di cucine componibili molto famoso nella
zona e al contrario di me aveva proseguito gli studi
iscrivendosi all’università. Ormai erano quasi tre anni
che stavamo insieme e sin da primo giorno mi aveva
sempre protetta e ricoperta di attenzioni. Insomma era
follemente innamorato di me ed io ne approfittai
smettendo un bel giorno di prendere la pillola
anticoncezionale senza dirgli nulla. Dopo due mesi,
appena compiuti 19 anni, rimasi incinta di Luca e con
mia grande felicità lui fu costretto a interrompere gli
studi e a lavorare nell’industria del padre. Qualche
mese dopo ci sposammo ed in cuor mio credevo di aver
risolto tutti i miei problemi compreso quello di essere
uscita definitivamente dalla vita di mia madre e dalla
sua professione che odiavo con tutta me stessa.
Con Alberto andammo a vivere in una bella villetta messa
a disposizione dai suoi genitori strafelici che la loro
adorata nuora avrebbe messo al mondo un loro nipote.
Ovviamente sia Alberto che la sua famiglia non erano a
conoscenza di cosa facesse mia madre, ma circa un anno
dopo tornando a casa dopo una cena di addio al celibato
di un suo carissimo amico proprio nell’hotel dove
lavorava mia madre, Alberto mi disse: “Ora so che
mestiere fa tua madre.” Sconvolta non gli chiesi in
quali circostanze lo fosse venuto a sapere, anzi per la
verità non mi diede il tempo perché andò su tutte le
furie. Sostanzialmente gli argomenti furono due, ovvero
il fatto che non glielo avessi detto prima, lui
giustamente era convinto che io lo sapessi, e il fatto
che quell’attività della suocera infangasse il suo buon
nome, quello della sua famiglia e ultimo, ma non ultimo,
l’attività del padre.
Cominciammo a litigare e
non solo quella sera. Lo vedevo sempre più irrequieto e
dilaniato dai sensi di colpa, senza capirne la ragione.
Alla fine una notte, dopo aver fatto l’amore, mi
confessò che durante quell’addio al celibato, c’era
stato una specie di gioco e lui aveva vinto il primo
premio. Premio che consisteva nel fare sesso orale al
buio nella stanza adiacente con una professionista in
abbigliamento molto sexy e munita di mascherina. Così
avvenne, gli altri ospiti della festa attesero per circa
mezz’ora e poi fecero irruzione in quella stanza
accendendo la luce! Beh sì, mi aveva tradita, ma per il
fatto che quella professionista fosse mia madre, non si
prese alcuna briga di scusarsi anzi secondo lui dovevo
essere io a scusarmi. Aveva fatto l’amore con la suocera
e questo fatto per lui era intollerabile! Andammo avanti
per qualche settimana, lui nonostante tutto giurava di
amarmi, ma ormai tutti sapevano del mestiere di mia
madre, compresi i suoi genitori, per cui a malincuore mi
disse che sarebbe stato meglio interrompere la nostra
relazione ed io dovetti trasferirmi con mio figlio in
un’altra città lasciando definitivamente quella casa.
IL DIRETTORE DEL SUPERMERCATO
Fu un
periodo nero per me. Mi dovetti rimboccare le maniche e,
per mantenere mio figlio, fare qualche lavoro saltuario.
Accettai qualche aiuto da parte di mia zia pur sapendo
benissimo che quei soldi provenivano da ciò che mi stava
rovinando la vita ovvero l’attività di mia madre. Ne
avevo bisogno e feci buon viso a cattivo gioco. Separata
con un figlio di appena un anno il mantenimento che
ricevevo da Alberto serviva a malapena a svezzare Luca
per cui, decisa a non accettare più quegli aiuti da
parte dei miei, mi diedi da fare e dopo tanto penare
trovai lavoro come cassiera in un supermercato della
zona.
Vivevo in una casa in affitto in una zona
abbastanza periferica e dovetti acquistare una piccola
auto di decima mano per gli spostamenti. Comunque ero
piacente, non tanto alta, ma con un fisico invidiabile e
con un paio di tacchi a spillo diventavo magicamente
bella ed appetibile. Le attenzioni degli uomini, specie
al lavoro, non mi mancavano e dopo qualche mese di
sbandamento ebbi, dopo Alberto, la mia prima relazione.
Il fortunato fu il direttore del supermercato dove
lavoravo. Lui mi invitò a cena e forse sarà stato il
posto romantico, le sue attenzioni, la mia astinenza che
ci fu un inevitabile dopocena a casa mia.
Dopo i
primi tre mesi di prova venni assunta regolarmente e lì
capii quanto gran parte del merito fosse dovuto alla mia
disponibilità col direttore. Dopo quella volta iniziammo
ad avere una vera e propria storia. Lui era sposato e ci
vedevamo il venerdì pomeriggio clandestinamente in un
motel fuori mano, la mia casa era troppo pericolosa
visto che abitavo a poche decine di metri da suo
cognato. Così assaporai l’amaro calice di essere
un’amante e per giunta l’amante del capo! Ben presto gli
sguardi maliziosi delle colleghe non si fecero attendere
e nonostante lui mi giurasse ripetutamente quanto fosse
innamorato di me e che un giorno saremmo potuti andare a
vivere insieme, quel ruolo mi andava decisamente
stretto. Del resto ero ancora giovane e sapevo che avrei
potuto chiedere molto di più alla mia vita.
Ma
per il momento dovevo fare i conti con la realtà. Vivevo
sempre con lo spettro di mia madre e con terrore che
qualcuno mi potesse ricordare che in fin dei conti ero
sempre la figlia di una puttana. Tutto mi irritava e un
giorno dissi a brutto muso a mia zia di non venirmi più
a trovare e che avrei fatto a meno di quei soldi
sporchi. Così facendo interruppi qualsiasi rapporto, ma
nonostante la mia rabbia pensavo spesso a loro e
soprattutto a mio padre. Non mi capacitavo come avesse
potuto accettare quel ruolo, poi però il pensiero andava
a mia madre, e nonostante considerassi quel lavoro
degradante, le riservavo sempre l’ultimo pensiero tenero
prima di addormentarmi. Mi sentivo molto diversa da
lei ed ogni volta mi ripetevo: “Gilda tu cerchi
l’amore!” Dopo qualche mese lasciai il direttore del
supermercato con tutte le difficoltà del caso. Fu una
scena tragica, si mise addirittura a piangere, ma poi
subentrò l’orgoglio di maschio ferito, allora mi diede
dell’ingrata e dell’egoista e per punirmi mi ridusse le
ore di lavoro e di conseguenza la paga settimanale.
MARCO
Desideravo una nuova vita, un
rapporto alla luce del sole e senza sotterfugi, e
convinta che l’amore fosse un toccasana iniziai il mio
peregrinare sentimentale. In cinque anni ebbi due
relazioni importanti e qualche breve convivenza, ma ogni
volta dopo l’entusiasmo iniziale mi abbattevo alle prime
incomprensioni e diventavo intrattabile. L’ultima fu la
classica goccia che fece traboccare il vaso. Marco era
il classico ragazzo tutto casa e lavoro, come si dice
dalle mie parti “un pezzo di pane”, buono, ma non bello,
faceva l’operaio e si prendeva cura di Luca. Insomma un
ragazzo d’oro e un buon padre per mio figlio, ma
nonostante le sue attenzioni e il suo amore smisurato io
rimanevo sempre fredda, insicura e spesso irascibile.
Lui non era un tipo passionale e l’amore lo
facevamo una volta a settimana, ma io gelosa dell’aria,
temevo che mi tradisse con le prostitute e praticamente
ogni sera mi lasciavo andare a incredibili e assurde
scenate di gelosia. “Vai con le puttane vero?” Per me
era un chiodo fisso e quando pronunciavo quella frase il
pensiero andava immediatamente a mia madre. Lui poverino
sopportava in silenzio queste mie alzate di testa, poi
quando mi calmavo mi rassicurava dicendomi che mai mi
avrebbe tradita e soprattutto con le donne a pagamento.
Ovviamente non mi bastava e il giorno dopo tornavo alla
carica finché una sera durante la cena, forse perché
stanco oppure totalmente spazientito, alzò le mani,
prima con una serie di schiaffi anche sul viso e poi,
visto che non la smettevo, mi strinse il collo quasi a
soffocarmi. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e per la
prima volta temetti veramente per la mia vita, poi alla
vista del sangue si calmò e mi accompagnò d’urgenza al
pronto soccorso. Mi misero sette punti in testa e
ovviamente dissi ai medici mentendo che ero caduta
accidentalmente dalle scale. Dopo una settimana quando
mi rimisi in sesto lui fece le valigie e se ne andò di
casa.
Ero distrutta e sfinita. Mi davo della
cretina addossandomi tutta la colpa di quell’ennesimo
fallimento. Lo chiamai, lo pregai di tornare, lui alla
fine obbedì, ma dopo una settimana eravamo punto ed
accapo. Questa volta non reagì, non mi mise le mani
addosso, ma prese le sue valigie non ancora disfatte,
salutò Luca e se ne andò definitivamente dalla mia vita.
Sola in quella piccola cucina mi convinsi quanto il
rapporto di coppia non facesse per me perché in realtà
non cercavo un compagno di vita e neanche un padre per
mio figlio, ma un uomo che potesse scacciare dalla mia
mente le tante fobie, il mio passato e soprattutto mia
madre.
L’AMARO CALICE
Luca stava
crescendo ed io rimasi di nuovo da sola. Lavoravo ancora
come cassiera, ma la paga non mi permetteva di arrivare
a fine mese, per cui iniziai a fare qualche servizio in
casa di due vicine che abitavano nello stesso mio
palazzo. Lavoravo molto e la sera ero letteralmente
distrutta. Mi guardavo allo specchio, a soli 25 anni
avevo un viso pieno di rughe con profonde occhiaie nere.
Mi dicevo: “Gilda che fine hai fatto? Non puoi
continuare così!” Ma per il bene di mio figlio avrei
sopportato anche quella vita squallida finché un
pomeriggio tornando dal lavoro la mia macchina di decima
mano mi lasciò per strada. Maledicendo tutto il mondo e
credendo in un guasto irrimediabile chiamai il carro
attrezzi. L’omino caricò l’auto e mi accompagnò
nell’officina praticamente sotto casa dove
periodicamente facevo il cambio d’olio e il controllo
dei fumi di scarico.
Fu davvero un caso!
Giovanni, il proprietario in tuta bianca, mentre cercava
di capire che guasto avesse la mia macchina, con la
testa dentro il motore, si lasciò andare ad una serie di
complimenti piuttosto diretti. Per la sorpresa mi
guardai intorno credendo ci fosse qualche bella e
avvenente ragazza nei dintorni, tra l’altro indossavo
ancora il camice rosso con il logo del supermercato, ma
lui insistette e solo a quel punto mi resi conto di
essere io l’oggetto di quelle avances. Giovanni
aveva circa sessant’anni, pelato e con un po’ di pancia,
ironico e spassoso era il tizio che non sai mai se
prenderlo sul serio o meno. “Signorì, ma lei, dico io,
ogni tanto si ricorda di mettere la benzina?” Poi però
tolse la testa dal motore, mi invitò nel suo piccolo
ufficio pieno di grasso, mi guardò di nuovo e mi disse:
“La guardo sempre la mattina presto quando esce di casa
e sa cosa mi dico? Io con lei ci verrei anche a costo di
impegnarmi casa, officina, moglie e figli.” Cercai di
ridere, ma venne fuori per l’imbarazzo un ghigno da oca
giuliva. Lui non si perse d’animo e aggiunse: “Faccia
lei il prezzo.”
Rimasi un attimo inebetita, ma
poi realizzando che il prezzo non era per l’auto, ma per
me, scappai immediatamente lasciandogli chiavi e
macchina. A casa piansi, ma non per quello che aveva
detto Giovanni e per come lo aveva detto, ma solo per
rabbia. La vita mi stava portando nelle stesse
condizioni dove presupponevo si fosse trovata mia madre
la prima volta e ne fui certa quando, mentre stavo
facendo cenare Luca, mi arrivò un SMS del padrone di
casa il quale gentilmente mi ricordava dei tre mesi di
affitto non ancora pagati. Misi Luca a nanna e seduta
sul letto mi diedi cento colpi di spazzola e in quel
preciso istante percepii chiaramente il profumo forte e
dolciastro di mia madre quando si preparava prima di
uscire. Passai la notte insonne. Era arrivato il momento
di bere l’amaro calice?
BELLA DA MORIRE
Il giorno dopo mi alzai molto presto. Davanti
all’armadio scelsi la mia unica gonna sexy di pelle nera
e il mio unico paio di sandali col tacco alto. Poi
indossai una camicetta super aderente per mettere in
mostra il mio seno e allo specchio non risparmiai le mie
labbra di un rosso molto simile al colore della fragola.
Lasciai Luca dalla vicina e scesi lentamente le scale.
Mi sentivo una regina e per la prima volta in vita mia
anteposi la mia femminilità a tutto il resto. In realtà
mi illudevo che dovevo soltanto recuperare la mia
macchina, ma nell’intimo della mia coscienza soffocata
sapevo benissimo che non fosse solo per quello.
Giovanni era con un cliente, ma appena mi vide, salutò
frettolosamente l’uomo, mi portò nel suo ufficio ed
esclamò: “Signorì le dispiace se mi metto seduto?” Prese
teatralmente un fazzoletto di stoffa e si asciugò la
fronte: “Lei è davvero un paradiso!” Pensai in quel
momento quanto ci volesse davvero poco per circuire un
uomo e sicuramente con molta meno fatica che fare la
cassiera o andare a servizio. Giovanni mi diede le
chiavi della macchina e immancabilmente tornò alla
carica: “Faccia lei il prezzo.” A quel punto abbassai
gli occhi, era davvero arrivato il momento che da sempre
non avrei mai voluto vivere! Col cuore in gola e
instabile sui quei tacchi altissimi mi appoggiai alla
parete, presi fiato e sparai una cifra esagerata, ovvero
l’ammontare delle tre mensilità di affitto che dovevo al
padrone di casa. In fin dei conti per me sarebbe
stata la prima volta in assoluto e non lo avrei fatto,
per nessuna ragione al mondo, meno di quanto avessi
bisogno. La sua risposta si fece attendere, del resto
non era una cifra da poco e in quel frangente sentii
chiaramente il mio respiro grosso e l’odore del mio
rossetto misto a quello forte di grasso e benzina. “Va
bene! Per lei questo ed altro!” Mi disse pregandomi di
tornare la sera all’ora di chiusura.
Rimasi
delusa, non so perché, ma avevo immaginato che avremmo
consumato subito in modo che non mi lasciasse ulteriore
tempo per pensarci. Purtroppo non andò così. Ovvio in
questo modo avrei avuto tutto il tempo per ripensarci e
soprattutto non avrei potuto dare la colpa al caso o al
fatto di non aver avuto tempo per riflettere. Comunque
tornai a casa presi Luca e lo accompagnai a scuola, poi
andai al lavoro, sicura della mia decisione, ma per
tutto il giorno mi sentii strana. Mi ripromisi di non
paragonare la mia storia a quella di mia madre e
soprattutto di non credere che fossimo travolte dallo
stesso destino. La mia condizione era completamente
diversa dalla sua, io ero sola con un figlio da
mantenere e che comunque, mi ripromisi, che non avrei
mai fatto quella vita. Quell’incontro sarebbe stato
unico ed esclusivamente per pagare l’affitto. Il
pomeriggio andai a prendere mio figlio, poi insieme
andammo al centro commerciale, ci mettemmo seduti in un
bar e gli comprai un gelato al pistacchio, il suo gusto
preferito. Lui era contento, ad un certo punto mi disse:
“Mamma, ti voglio bene.” Mi commossi, era la prima volta
che mi diceva così ed io effettivamente mi sentivo
serena e forse guardandolo senza aver timore del futuro
inconsciamente le stavo trasmettendo il mio benessere.
LA PRIMA VOLTA
Alle sette meno
dieci lasciai Luca dalla vicina, passai per casa, mi
cambiai le mutandine, slacciai due bottoni della
camicetta e ripassai le mie labbra. Alle sette in punto
mi presentai all’officina vestita esattamente come la
mattina. Lui quando mi vide mi disse di entrare, poi con
fare sospetto guardò fuori in strada e chiuse la
serranda. Disse di nuovo: “Sei davvero un paradiso!” Poi
mi cinse i fianchi e mi guidò verso il piccolo ufficio.
Mi ero ripromessa di non pensare e così feci lasciando a
lui ogni tipo di iniziativa. Certo la cifra non avrebbe
giustificato altro che l’amore completo e così avvenne.
Non ci furono preliminari e da parte mia non ci fu
bisogno di alcun impegno. Giovanni si sbottonò i
pantaloni della tuta e notai quanto già fosse eccitato.
Mi sfilò la gonna, slacciò la camicetta e poi mi invitò
a distendermi su un plaid che aveva adagiato sul
pavimento. Il tempo di togliermi le mutandine ed era già
dentro di me.
Non ci volevo credere, al contrario
di quanto pensassi durò il tempo di un respiro. Dopo
cinque minuti era già tutto finito ed io non avevo avuto
neanche il tempo di pensare. Niente a che vedere con le
ore ed ore di sesso fatto con Alberto o Marco o il
Direttore del supermercato, ovvio qui non c’era amore e
mi resi conto di quanto il sesso senza amore si
riducesse all’essenziale ovvero all’osso, al bisogno,
all’istinto nudo e crudo del maschio e alla totale
passività della donna. Certo lo avevo sentito dentro
sì, ma ricordavo solo la penetrazione iniziale e poi il
suo rantolo liberatorio al raggiungimento del piacere.
In mezzo il nulla, come se non fossi stata io la donna
distesa su quella coperta. Ma la cosa che mi fece più
pensare fu la mia totale assenza, come se non ci fosse
stato alcun coinvolgimento né fisico e né emotivo. Come
una bambola gonfiabile ero stata semplicemente lì ferma
ad aspettare il suo piacere. Ora capivo mia madre e di
conseguenza mio padre. Facendo quel tipo di sesso non si
offre nulla della propria anima e soprattutto non si
tradisce. Certo per me fu più facile perché non avendo
legami sentimentali la componente del tradimento era
totalmente esclusa.
Nonostante la mia passività
lui mi accarezzò la fronte e mi disse che ero stata
meravigliosa e mentre mi stavo rivestendo mi baciò in
bocca dicendomi: “Sei stata davvero carina Gilda!” Poi
aprì la cassetta di ferro e mi diede il dovuto e
qualcosa in più. Nonostante facessi la cassiera mi fece
uno strano effetto vedere tutti quei soldi in una volta
sola per me. Certo me li ero guadagnai e in un certo
senso ero fiera di me. Tornando a casa mi sentii leggera
e di buon umore pensando però che prima o poi sarebbero
arrivati tutti gli effetti traumatici della
consapevolezza. Avevo passato una vita a fuggire da mia
madre pagandone tutte le conseguenze e quindi ero ben
cosciente che da un momento all’altro avrei pagato quel
gesto. Ma la mia depressione rimase fuori da me, dal mio
mondo e dal negozio in cui comprai a Luca un paio di
scarpe da tennis della sua marca preferita e due gonne
corte e della biancheria intima per me.
La sera
nel letto ripensai all’esatto momento in cui Giovanni
era entrato dentro di me, sentii fisicamente il suo pene
che non era affatto diverso da quelli che a parole
dicevano di amarmi. A modo suo anche Giovanni era un
amante e finché lo avrei fatto solo con lui mi sarei
tenuta alla larga da qualsiasi amara riflessione.
Passò qualche settimana e le attenzioni di Giovanni
rimasero inalterate, all’ora di chiusura mi facevo
trovare bella e provocante nel suo ufficio, lui stendeva
la coperta e nel giro di un minuto massimo consumava
tutta la sua voglia. Ovviamente le cifre delle
prestazioni non furono più quelle della prima volta, ma
furono sufficienti per arricchire il mio scarno
guardaroba di tacchi altissimi, gonne corte e vestiti
con scollature vertiginose, su consiglio del meccanico
aggraziai il tutto con mutandine di pizzo, autoreggenti,
perizoma interdentali e perfino un reggicalze. Dalla
frenesia e la velocità di Giovanni compresi quanto fosse
utile e importante il modo di vestire. La sensualità
effettivamente riduceva i tempi allo stretto necessario
e soprattutto facilitava le occasioni.
L'EPILOGO
Aiutata da Giovanni conobbi il mio
secondo “amante”, ovvero il marito della parrucchiera,
poi ci furono l’impiegato della Posta, l’amministratore
del condominio, il mio dentista, il padrone di casa,
l’idraulico e suo fratello. A quel punto però mi chiesi
quanti amanti avrei potuto considerare tali e quale
fosse il limite, il numero al di sopra del quale da
amante mi sarei dovuta considerare una puttana. Mi
fermai ad otto e iniziai a rifiutare altre offerte
rimanendo nei confini di quella cerchia di amici e
quindi della mia strana morale. Successivamente
sostituii qualcuno, ma non superai mai quel numero.
L’unica difficoltà fu quella di farlo segretamente e
credo che mio figlio, al contrario di me, non abbia mai
saputo niente.
Le modalità erano semplicissime.
Loro mi mandavano un messaggio ed io mi facevo trovare
vestita, secondo i loro gusti, all’ora stabilita nel
posto concordato: casa, studio, garage, negozio oppure
al “Motel Girasole” a circa una ventina di chilometri da
dove abitavo. Durante quel percorso mi ripetevo che
non sarei mai stata mia madre e che mai avrei fatto quel
mestiere! Non considerai mai il compenso come una
tariffa bensì come un regalo generoso. Certo non era
sempre semplice e veloce come con Giovanni, qualcuno
consumava fino all’ultimo centesimo quei 150 euro, ma
tornavo a casa con i contanti in tasca e il sorriso
sulle labbra: già era come andare al bancomat.
FINE
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IMMAGINE GENERATA DA IA
Pur basato
su temi ricorrenti questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale
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