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GIALLO PASSIONE

Le fogne del Paradiso
La vita spericolata di
Albert Spaggiari
L’autore della rapina del secolo
Albert Spaggiari si confessa: “Senza odio, senza violenza, senza
armi.”

Mi chiamo Albert Spaggiari detto Bert, sono francese
di origini italiane e mi definisco un idealista, un
rivoluzionario, a volte un anarchico, anche se Wikipedia
mi definisce testualmente un criminale francese famoso
per la grande rapina di Nizza, commessa ai danni di una
delle più importanti banche francesi. Io invece sono
d’accordo con Bertolt Brecht che nell' opera "Santa
Giovanna dei Macelli" affermava tranquillamente che è
più criminale fondare una banca che rapinarla! Comunque
io sono un tipo pacifico, forse troppo silenzioso, non
spreco mai le parole, odio il superfluo, quanto la
volgarità, la prepotenza e l'ipocrisia. Dopo tanti
anni di galera sono diventato un po’ cupo, ma appena ho
a che fare con persone vive e leali, mi apro
completamente, a volte addirittura sorrido, altre mi
innamoro. Ai miei compagni d’avventura non ho mai fatto
mancare loro l’amicizia, che reputo sacra, e alle mie
donne, l’affetto e soprattutto l’amore. Ci sono riuscito
perché da prigioniero sono sempre riuscito a difendere
alcuni spazi che reputo inviolabili quali la dignità,
l’orgoglio e il rispetto in me stesso.
Comunque
vidi la luce un mercoledì a Laragne, in un villaggio di
montagna in Provenza, da una famiglia di immigrati
italiani, esattamente il 14 dicembre del 1932 sotto il
segno del Sagittario. Nacqui nell’anno in cui in India
il Mahatma Gandhi iniziava in prigione il suo primo
sciopero della fame e in Germania il Partito nazista
otteneva alle elezioni la maggioranza relativa con il
37,4% dei voti e divenendo così il partito più
importante della Germania.
A due anni rimasi
purtroppo orfano e mia madre si trasferì nella cittadina
di Hyères e dopo alcuni mesi si risposò e per me fu un
vero trauma. Non vissi un’adolescenza felice, odiavo il
mio patrigno, già al tempo avevo uno spirito ribelle,
scappai più volte casa e il rapporto con mia madre si
incrinò tanto che compiuti 18 anni mi arruolai
volontario nel 3° battaglione paracadutisti coloniali
dell'esercito francese.
Feci salti di gioia
quando qualche settimana dopo mi spedirono in Indocina
perché io ero un montanaro, legato alle mie origini, e
vedevo nell’esercito la conquista della mia libertà. In
Indocina ci rimasi quattro anni a combattere le forze
vietnamite, fondate nel 1941 da Ho Chi Minh. Ben presto
mi resi conto di quanto potesse essere dura la guerra e
l’obbedienza anche perché la mia indole anarchica si
ribellava continuamente. Comunque mi feci le ossa,
finché un bel giorno venni rimpatriato dalla polizia
militare in stato di arresto con l’accusa di aver rubato
gioielli e quant’altro in un bordello di Saigon.
Purtroppo era vero e quando tornai in Francia mi
spedirono direttamente in carcere. Rimasi quasi tre anni
dentro e fui rilasciato solo nel 1957 grazie ad
un'amnistia, ma non avendo un soldo in tasca andai ad
abitare con mia madre a Hyères. Decisi di non tornare
più in carcere e di mettere la testa apposto. Pochi mesi
dopo conobbi Marcelle Audi, lei faceva l’infermiera
nell’ospedale di Nizza. Insomma uscimmo insieme qualche
volta finché ci innamorammo pazzamente e senza pensarci
troppo ci sposammo qualche mese dopo. Al tempo mi
mantenevo facendo dei lavoretti saltuari e Marcelle
continuava il suo lavoro da infermiera. Entrambi eravamo
sempre stanchi e insoddisfatti della nostra vita finché
un bel giorno decidemmo insieme di darci un taglio e di
trasferirci in Senegal. Lì frequentammo la comunità
francese ed io trovai lavoro in una fabbrica di
casseforti, ma non facemmo fortuna per cui ben presto ci
rendemmo conto che quella non era assolutamente la vita
che avevamo sognato finendo per ritornare in Francia a
Nizza nel 1960.
Quello era un periodo di intensi
fermenti politici, le colonie francesi si ribellavano
alla madre patria e chiedevano insistentemente
l’indipendenza da Parigi. Fu in quei momenti che entrai
nell'Organisation Armée Secrète, un movimento politico
di estrema destra che al tempo si schierava contro
l'indipendenza dell'Algeria. Presi l’attività seriamente
tanto che nel novembre del 1961, insieme ad un gruppo di
militanti, tentammo addirittura di assassinare l'allora
presidente Charles De Gaulle, colpevole ai nostri occhi
di aver abbandonato i nostri concittadini, i cosiddetti
"pieds noirs", e di essersi piegato alle richieste di
indipendenza degli algerini.
Ovviamente
l’attentato fallì, venni arrestato e quando riconquistai
la libertà ritornai a Nizza da mia moglie. Anche questa
volta promisi a me stesso di non tornare in carcere e mi
mantenevo da vivere facendo il fotografo, un lavoro
tranquillo e molto remunerativo tanto che nel 1966 mi
permise di mettere su un piccolo studio e negozio di
fotografia. Da buon montanaro nostalgico vissi per
diversi anni sulle colline dell’entroterra provenzale in
un rustico isolato che ribattezzai “Le Oche Selvagge”.
Aiutato anche dalle conoscenze politiche l’attività
andava a gonfie vele e nel settembre del 1974 presi
addirittura in affitto una cassetta di sicurezza nella
filiale di Nizza della banca francese Société Générale,
situata nella centralissima avenue Jean Médecin.
Durante una visita al caveau dove depositai alcuni
oggetti preziosi di mia proprietà, mi venne il lampo di
genio! Ecco sì, proprio qui iniziò a prendere forma
nella mia mente il piano di una rapina. Mi procurai una
piantina della città sotterranea e cominciai a studiarla
giorno e notte. Perlustrai più volte la zona, tombino
dopo tombino, poi mi procurai delle tute da operaio del
gas e cominciai a vagare per i sotterranei. Mai alcun
poliziotto mi chiese cosa stessi facendo, mai alcun
commerciante della zona si insospettì, anzi chiedevo
loro delle informazioni che puntualmente mi venivano
fornite. Ben presto considerai il piano fattibile, lo
discussi con alcuni miei amici e una notte di giugno a
casa mia decidemmo di intervenire. Arrivare a quelle
cassette era come bere un bicchiere d’acqua utilizzando
appunto una serie di gallerie della rete fognaria di
Nizza per poi aprire un tunnel di 8 metri di lunghezza
ed arrivare in prossimità della parete posteriore del
caveau della banca.
Fu un lavoro molto lungo e
meticoloso ed il primo problema fu come procurarci gli
attrezzi e le tute da operai del gas, dell’elettricità e
dell’acqua. Poi ci chiedemmo come portare lì sotto
l’energia necessaria per avere un impianto
d'illuminazione e ventilazione lungo tutto il tunnel.
Quando decidemmo di intervenire, portammo nella galleria
un filo elettrico di circa 400 metri e lo collegammo
all’impianto elettrico di un parcheggio sotterraneo. La
nostra banda era composta da tredici uomini, una specie
di Armata Brancaleone di esperti marsigliesi e di ex
militanti di destra, miei amici.
Scavammo sodo
senza interruzioni per ben due mesi lungo 3 km e mezzo
nelle fogne. Mangiammo e respirammo chili e chili di
polvere e stremati dalla fatica qualcuno iniziò a
dubitare, ma io ero convinto che alla fine ce l’avremmo
fatta! Finalmente il venerdì, 16 luglio del 1976,
riuscimmo a bucare la parete blindata del caveau e
raggiungemmo finalmente il nostro obiettivo. Qualcuno
portò due bottiglie di champagne e per festeggiare
bevemmo dalle bottiglie. Eravamo coscienti di passare
alla storia perché senza alcun dubbio quella sarebbe
stata la rapina del secolo! Tutto era andato liscio,
nessuno poliziotto si era insospettito e tra il 17 e 18
luglio, ovvero durante un sabato e una domenica, quando
la banca era chiusa, portammo a termine il nostro
lavoro. E dopo 48 ore di lavoro serrato riuscimmo ad
aprire la bellezza di 371 cassette di sicurezza, ma
decisamente una piccolissima parte rispetto alle 4000
cassette di tutto il caveau.
Comunque lo facemmo
con estrema calma, durante tutto quel fine settimana ci
alternammo dandoci i turni e c’è chi uscendo trovò il
tempo per andare dal barbiere, chi a trovare i figli a
casa, chi a cenare al ristorante con l’amante per poi
tornare e finire il lavoro. Era tutto studiato e quelle
uscite a turno ci permettevano a ciascuno di noi di
avere un alibi! Alla fine il bottino fu di oltre 50
milioni di franchi, più o meno 30 milioni di euro, anche
se fu difficile quantificarlo con precisione perché in
quelle cassette di sicurezza trovammo veramente di
tutto, comprese foto porno, diari segreti, documenti
compromettenti insomma un bel po’ di roba di cui i
proprietari preferirono non denunciare per non mettersi
nei guai.
Fu una rapina fantastica e la portammo
a termine senza armi, senza violenza e senza odio!
Quella frase la scrivemmo sul muro del caveau prima di
andare via. Poi, alcuni giorni dopo, festeggiammo in una
grande villa e ci dividemmo il bottino. Ero felice, anzi
strafelice perché ero stato il capo della banda della
rapina del secolo, perché in prima persona avevo ideato
ed attuato quel colpo inseguendo sì il miraggio di
diventare ricco, ma soprattutto perché era stata davvero
una meravigliosa avventura, un’impresa, una sfida contro
me stesso e il sistema intero.
La rapina ebbe un
clamore incredibile, le copertine dei giornali ci
definivano dei geni e le polizie di tutto il mondo non
persero tempo ad indagare. Anche se avevamo lasciato in
giro tracce inconfondibili non fu per nulla facile
risalire a noi. Comunque venni arrestato tre mesi dopo,
il 27 ottobre 1976, all’aeroporto di Nizza al rientro di
un mio viaggio in Giappone. Qualcuno della banda forse
aveva parlato, oppure avevo cominciato a spendere i
soldi in maniera sconsiderata, sta di fatto che mi
misero sotto torchio, ma non confessai mai i nomi dei
miei amici che avevano partecipato al colpo! Per farmi
parlare arrestarono anche mia moglie Marcelle la quale
ovviamente non ne sapeva nulla. Addirittura mi drogarono
e allora feci dei nomi, anzi dei soprannomi
completamente inventati, mentendo e dicendo alla polizia
di non sapere i nomi veri in quanto li conoscevo solo
superficialmente. Gli interrogatori si protrassero
fino al 10 maggio dell'anno successivo, il giorno in cui
riuscii ad evadere.
Fu un gioco da ragazzi! Ero
nell’ufficio della Procura per l’ennesimo
interrogatorio. Dissi al procuratore che quel giorno
avrei confessato, ma lo avrei fatto solo se fossi
rimasto da solo con lui, per cui lui ordinò ai
poliziotti di scorta di uscire dalla stanza. Con la
scusa di accendermi una sigaretta mi avvicinai alla
finestra e saltai giù dal secondo piano dell’edificio.
Atterrai morbidamente sul tettino di un’automobile. Ad
attendermi c’era un mio complice che mi aiutò a scappare
a bordo di una moto e a far perdere le mie tracce.
Percorremmo a tutta velocità la litoranea direzione
Mentone. Raggiunsi l’Italia. Qui mi nascosi in casa di
una donna italiana, Emilia De Sacco, lei era una donna
bella, affascinante e benestante. Ci incontrammo e ci
piacemmo e la sera stessa mi portò a casa sua. Lì rimasi
per mesi, anche perché le avevo fatto credere
inizialmente di essere uno scrittore, una specie di
bohémien e lei adorava i poeti maledetti. Quando le
dissi finalmente la verità ovvero chi fossi realmente
lei non si scompose affatto. Si era innamorata di me e a
quel punto essere uno scrittore o un rapinatore non
faceva alcuna differenza. Così Emilia divenne la mia
compagna e mi portò in Veneto, a casa dei suoi parenti.
Ma io rimanevo uno spirito ribelle per sempre
anarchico, era una vita troppo comoda per me e mi
sentivo soffocare! Dopo alcuni mesi le dissi che dovevo
assolutamente cambiare aria. Andai in un posto più
sicuro e tranquillo, cioè l’America Latina. In Paraguay
fui accolto a braccia aperte dal dittatore di destra
Alfredo Stroessner. In Argentina mi affidai alle mani
del grande chirurgo plastico Ivo Pitanguy, il quale mi
sottopose ad un profondo intervento di chirurgia
estetica. In Cile collaborai con la Dirección de
inteligencia nacional, la temibile polizia politica
DINA. Vissi da uomo libero e alla grande per anni
imbottito di soldi. Comparsi di tanto in tanto in
qualche foto oppure in qualche intervista televisiva
sempre in abiti sartoriali, occhiali da sole e con un
disarmante sorriso sulle labbra. Mi godevo la vita
finché tornai in Europa precisamente in Italia da Emilia
a Belluno, nonostante la distanza mi era rimasta
incollata nel cuore. Affittai insieme a lei uno chalet
sulle Alpi, ma ero malato di cancro. Da lì chiamai mia
madre confidandole la mia malattia. Avevo 56 anni.
Ecco questa è la mia storia, la storia dell’autore della
grande rapina del secolo!
Da morto alcuni suoi
amici tra i quali Emilia lo vestirono e lo acconciarono
in modo che sembrasse vivo e passarono la frontiera in
macchina, tenendolo seduto sul sedile posteriore.
All’alba del 10 giugno lo lasciarono davanti alla casa
dell’anziana madre a Hyéres. Venne inumato alcuni giorni
dopo nel cimitero del borgo natale di Laragne. Era
tornato finalmente tra le sue amate montagne.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
Il presente racconto è liberamente tratto dalla
vicenda di Albert Spaggiari
https://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Spaggiari
https://www.ilprimatonazionale.it/


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