Reportage dalle terre del Kalash, un’isola pagana nell’oceano
dell’Islam. Tremila individui che vivono di allevamento di ovini
ai confini tra Pakistan e Afghanistan. Le loro donne sono
bellissime, portano il velo e vestono abiti coloratissimi con
copricapi ornati di conchiglie, campanellini, bottoni e perle di
corallo, si truccano pesantemente, ballano e parlano in pubblico
e possono divorziare a loro piacimento.
Dai vicini musulmani
vengono chiamati con disprezzo kafiri, cioè infedeli, poiché
seguono una religione politeista, coltivano la vite, bevono vino
e fanno uso di canapa. I Kalash hanno la pelle chiara,
lineamenti fini, nasi sottili, occhi e capelli tipicamente
europei, parlano una lingua non scritta.
Safiya mi
accompagna tra le strade montuose e impervie tra il Pakistan e
l'Afghanistan. Lei è sicura che stiamo andando in direzione di
Chitral, la città più grande nell’area delle Kalasha Desh, ma
all’orizzonte non si vede ancora nulla. Qui non c’è anima viva e
lo scenario è così emozionante che sembra di essere oltre la
fine del mondo. Le bestie sono stanche, il mio cavallo, un
turcomanno imbastardito con qualche asino locale, avrebbe solo
voglia di riposarsi. Nonostante le mie resistenze Safiya decide
di proseguire fino al tramonto. Già il fatto che mi abbiano
assegnato una donna come guida dimostra che gli abitanti di
queste terre hanno una mentalità molto diversa rispetto ai
popoli confinanti.
Safiya mi dice che solo i folli
intraprendono questo viaggio, lei parla senza mezzi termini e
sicuramente non attudisce i miei timori. Dice che la zona è
chiamata anche Kafiristan e prende il nome da kafir, termine
arabo che sta per “miscredente” o “infedele”. Non è un gran
posto in cui vivere, per quasi settant’anni, fino al 1896,
l’emiro dell’Afghanistan offrì tangenti alla gente del
Kafiristan al fine di dissuaderli dal derubare i forestieri e
gettarne i corpi giù dalle montagne.
Infatti qui vive un
popolo le cui origini hanno radici nella mitologia greca.
Praticamente un’isola pagana in un mondo islamico. I Kalash sono
una popolazione di circa tremila abitanti radicalmente diversa
dal Pakistan e dall’Afghanistan sia per religione che per etnia.
Safiya mi spiega durante il viaggio che questa mitica terra,
secondo la tradizione, venne popolata dallo stesso dio Dioniso
il quale durante un viaggio nelle Indie si insediò da queste
parti accompagnato da un corteo di festosi baccanti. Da quel
giorno questa terra rappresenta l’ebbrezza, l’amore, la poesia,
tutti i sentimenti e le pratiche pagane annesse. Anche
storicamente ci sono delle testimonianze e lo stesso Alessandro
Magno soggiornò su queste terre con il suo esercito, ma ebbe a
pentirsene in quanto gli effluvi del mosto e delle belle donne
bionde con la carnagione bianca catturarono i suoi soldati al
punto che durante il soggiorno preferirono disertare e sposare
le donne native.
Oggi i Kalash stessi sostengono di essere
di origine Macedone e di essere i discendenti di soldati di
Alessandro Magno. Questa tesi è suffragata da alcune ricerche
sul DNA le quali hanno accertato la loro stretta parentela
genetica con gli europei.
Sempre Safiya mi racconta che i
Kalash sono antichi produttori di vino, raccolgono l’uva dalle
viti a settembre, facendola pigiare esclusivamente da bimbi
maschi. Il vino prodotto viene bevuto durante una grande festa
del solstizio d’inverno. Durante quei giorni tutta la
popolazione si ubriaca, sia uomini che donne, col pretesto di
avvicinarsi a Dio.
Al contrario degli abitanti delle terre
adiacenti le donne dei Kalash sono libere e non indossano il
chador, anche Safiya ha il volto scoperto e i suoi occhi sono di
un azzurro intenso. Si sposano molto giovani a 14/15 anni anche
perché non vivono molto. La donna da queste parti ha il diritto
di chiedere il divorzio, è sufficiente presentare ai notabili
del villaggio un altro uomo con il quale è pronta a vivere e il
gioco è fatto.
Lei mi parla in uno stentato inglese,
imparato durante il suo soggiorno per alcuni mesi in Europa, ma
la loro lingua, mi dice, conserva molti prestiti dal sanscrito,
possiede una sonorità atipica e visto l’esiguo numero di persone
che ne fanno uso, è purtroppo destinata a scomparire. I giovani
convertiti all’Islam sono dovuti emigrare in altre città e qui
sono rimasti solo i veri pagani. Del resto la separazione
religiosa è molto netta e regna una sola legge tra i Kalash:
“Chi diventa musulmano deve andarsene!” Nelle tre valli di
Bumburet, Birir e Rumbur i kalash si contrappongono al resto
islamico bevendo alcol, assumendo sostanze stupefacenti e
abbandonandosi ai divertimenti proibiti. Il vino kalash ha un
sapore strano tra l'aceto e lo sherry, e il tara è un distillato
locale. Le droghe più consumate invece sono l’oppio e, in misura
maggiore, il nazar, un tabacco da masticare derivato dall’oppio
che provoca stordimento e nausea.
Safiya mi racconta che
l’isolamento dal resto delle popolazioni afgane era tale che
ancora alla fine dell’ottocento i Kalash non conoscevano la
bevanda del thè. Solo una strada sterrata, impervia anche per
gli asini, raggiunge ancora oggi quelle terre. La loro economia
è basata sulla agricoltura e pastorizia in un sistema economico
che ignora la moneta per cui gli scambi avvengono
prevalentemente secondo il sistema del baratto. Il sistema è
basato sul valore della capra, una mucca può valere dieci capre
e una casa sei mucche quindi sessanta capre. Non esistendo
commercio, nulla è prodotto per la vendita e l’eccedenza non ha
scopo i lucro, ma un fine sociale, infatti viene redistribuita
tra la popolazione secondo quanto stabilito dagli anziani. Gli
invasori russi e successivamente gli americani non sono mai
arrivati da questa parti ed il popolo conserva fieramente la sua
etnia greca.
*****
Finalmente arriviamo in
un piccolissimo villaggio, una ragazza kalash fuori dalla sua
abitazione indossa un copricapo vistoso e collane tradizionali.
E' bella sì ma Safiya mi avverte che da queste parti la poca
acqua non si usa per lavarsi. Ci fermiamo, lei parla con alcuni
uomini e poi mi dice che questa gente non vede uno straniero da
oltre sei mesi. Per segno di benvenuto la sera stessa siamo
invitati ad un festa di proprietà dell’anziano del villaggio,
che è anche insegnante e allevatore di capre. Ovviamente non
possiamo rifiutare. Durante la festa alcuni uomini iniziano a
suonare il flauto e le percussioni e tra i partecipanti qualcuno
fa passare di mano in mano qualche coscio di capretto,
accompagnato da una specie di distillato denso in bottiglie di
plastica e subito dopo del tabacco oppiato. Alla festa di
benvenuto sono presenti una ventina di uomini e solo tre donne,
di cui due sposate e tutte senza velo. Gli uomini vestono con i
chitrali, un lungo e largo camicione di cotone con pantaloni
larghi e comodi. Le donne invece indossano il kafiro, una specie
di saio di stoffa grezza nera.
Quando si aprono le danze
alcuni uomini iniziano a ballare tra loro. Sono in apprensione e
guardo Safiya, non vorrei che qualcuno mi invitasse. Qui
l’omosessualità non è vietata perché gli omosessuali non
esistono, qui esistono solo effusioni tra uomini, ma sono
considerati atti privati che non interessano la società e il
capo del villaggio. Le donne non ballano, ma bevono vino insieme
a noi. Dopo circa due ore, improvvisamente, due uomini iniziano
a litigare, ovviamente non capisco il vero motivo, forse
qualcuno ubriaco ha allungato le mani su una delle donne, Safiya
comunque si alza, mi si avvicina e mi prega di andare.
Il
cielo è uno spettacolo mai visto, le stelle enormi e lucenti
sembrano vicinissime, mi fermo ad ammirare questo incanto quando
Safiya mi chiede se ho bisogno di amore a pagamento. Mi dice che
sulla strada principale, a due miglia dal villaggio, in una casa
dai mattoncini rossi, vive una donna piuttosto giovane che offre
questi servizi.
“Sai qui l’amore non si offre ad ore come in
Europa, l’amore qui si conta a giorni o addirittura a settimane
e il compenso avviene col sistema del baratto. Sono graditi thè,
bottiglie di vino e tabacco.” Ovviamente, pensando allo scarso
uso dell'acqua per lavarsi, ringrazio Safiya, ma rifiuto deciso
l’invito. Poi ci salutiamo, lei mi dice che andrà a dormire da
una famiglia, amici dei suoi da vecchia data, mentre io sono
destinato in una stanza chiamata generosamente pensione.
*****
La mattina seguente mi sveglio
prestissimo e sotto la finestra del tugurio dove ho dormito
fervono i preparativi della cerimonia del Chaumos, una
festa che celebra l’inizio della stagione fredda. Safiya mi dice
che la festa dura circa due settimane durante le quali si
accendono fuochi con la legna di ginepro, si bruciano vecchie
ceste, le donne si lavano i capelli (finalmente!) e adornano le
loro teste con le kupas, ricche di conchiglie e di perline
colorate. Nelle case si cuoce il pane e decine di caproni
vengono macellati davanti all’altare del Grande Dio. È una festa
che ribadisce la propria diversità dall’Islam in cui l’ebbrezza
viene ricercata nell’oppio, nel vino, nel loro politeismo
animato da fate con tre seni, ma anche nella salvaguardia dei
costumi sessuali sinonimo di gioia e libertà.
E' ancora
l'alba e insieme a Safiya salutiamo i nostri amici e scendiamo a
valle. Il tempo è rigido, ma il sole all’orizzonte sembra una
tela dipinta. È davvero uno spettacolo suggestivo e unico. Alla
prima sosta prendo i miei appunti di viaggio e qualcosa mi
sembra di aver capito di queste terre, la loro filosofia di vita
é estremamente semplice come del resto lo sono i loro bisogni.
Credono negli spiriti maligni e nelle fate benevole, come del
resto al vento, al sole, alla luna e al tempo che cambia, e le
stagioni sono un motivo di festa e quindi di danza, di vino e di
divertimento. Mi è parso un popolo molto tollerante in fatto di
religione e le loro credenze pagane convivono tranquillamente
con l'Islam, semmai il problema, scrivo, è che l’Islam non
convive con loro.
FINE
