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RACCONTO 
Adamo Bencivenga
Tra le chiavi e il rossetto
Sono le 14:30 del primo d’agosto, m’affaccio furtiva alla
finestra: il sole spacca l’asfalto, il parcheggio dell’Eur è
deserto, solo un clacson impaziente rimbomba fino al settimo piano.
In ufficio, quasi vuoto, siamo solo io e Sandro, il collega che anni
fa mi offrì una spalla, accendendo una scintilla proibita. Ora, tra
il dubbio di mio marito e i vagiti di Giovanna, quel fuoco si
spegne, lasciando solo il calore di un’estate romana.

.Sono le 14,30 del primo d’agosto, m’affaccio
furtiva alla finestra, fuori c’è un sole che spacca
l’asfalto, il parcheggio dell’Eur è vuoto e deserto,
solo una macchina impaziente che suona, rimbomba fino a
qui al settimo piano. Oddio come è tardi! In ufficio
quasi nessuno, tutti in ferie, al mare, nel mondo, da
qualsiasi parte lontano da Roma. Io e il mio collega
Sandro, per un mese da soli! Chi l’avrebbe mai detto, me
lo sentivo che sarebbe successo! Già chiamarlo collega è
riduttivo perché qualche anno prima c’era stato un
approccio. Lui m’ascoltava senza dare un giudizio, sul
mio matrimonio che andava in macerie, tra me e mio
marito una voragine fonda, scavata ogni sera da
incomprensioni e litigi e soprattutto da Giovanna che
non voleva arrivare. E Sandro comprensivo che mi porgeva
la spalla, e lui avvoltoio non si è fatto scappare,
quella tristezza che portavo di fianco, quella rabbia
incavata nel fondo degli occhi.
Le prime volte
paziente mi accompagnava sotto casa, da perfetto collega
mi apriva lo sportello, parlavamo di me e della mia
sorte più nera, del tempo sprecato a rimettere insieme,
cocci e rimpianti d’un matrimonio fallito. Dopo un
mese preciso ci hanno atteso frondosi, due tronchi di
pino vicino al Raccordo, non vi erano dubbi che si
sarebbe fermato, solo pochi minuti per confessarmi
sincero, che da sempre non aspettava che il caso, il
coraggio per dirmi che all’alba ogni giorno, nel sogno o
già sveglio lo andavo a trovare, vestita di niente o con
un reggiseno a fiori, vestita di bianco con pizzi e
merletti. Non v’erano dubbi che sarebbe successo, siamo
rimasti due ore a guardare il tramonto, con la sua mano
che m’accarezzava la spalla, con il suo fiato più caldo
che m’arricciava i capelli. Non era solo conforto e ne
avevo bisogno, ed il passo era breve come un lampo di
sole, al primo colore d’arancio stampato, sul parabrezza
e dentro i suoi occhi, che filtrava sulle chiome dei
pini marini, che accecava quel bacio così lungo e
impaziente, e lui impacciato slacciava ansie e bottoni,
ed io impacciata scendevo con la testa di fianco, e con
occhi chiusi baciavo quel mondo, baciavo la voglia di
sentirmi inghiottita, nelle viscere calde di un amore
accogliente.
Poi si sa come vanno le cose, quale
trambusto si generi dentro, nel cuore, nell’anima di una
donna infedele. Sta di fatto che la sera a casa mio
marito si è accorto, che qualcosa nell’aria stava
cambiando, dalle mie labbra più fredde, testarde e
restie, dalla mia aria distratta in eterno conflitto. Mi
ha chiesto sì, se fosse successo qualcosa, ma ogni mia
negazione rafforzava il suo dubbio. E da quel giorno
quel dubbio l’ha reso più mite, l’ha reso più attento ad
ogni mio disagio, quel sospetto ha appianato ogni sorta
di screzio, tanto che, nonostante gli impegni, da quella
volta ogni giorno, si è fatto trovare, alle 14 e 30
sotto il mio ufficio, per essere certo d’aver preso un
abbaglio, e sua moglie era santa e lui un cretino,
d’aver pensato che un uomo, un collega qualunque,
potesse recidere quella gemma di pelle, quel germoglio
accennato non ancora maturo, che lui coltivava ogni sera
nel letto, sperando che un giorno potesse sbocciare.
E così è successo, i vagiti di Giovanna hanno
rafforzato il legame e con Sandro diradammo gli
incontri, continuando a vederci la mattina a buonora,
davanti al caffè sotto l’ufficio, ma la nascita di
Giovanna, mi ha reso diversa, allontanandomi di fatto da
quel futuro precario, dove insicura ero entrata ogni
volta, per attenuare quell’ansia di donna incompiuta, di
femmina al bivio e madre mancata.
Quel ricordo è
rimasto e mi scombina la mente, a Margherita l’ho detto,
l’ho ripetuto più volte, perché oltre il mio capo è la
mia amica migliore: “Con lui non ci resto, ti prego,
cambiami il turno.” Ha riso dicendo che sarebbe stata
una prova: “Chissà nel frattempo t’avrà pure scordata!”
Mi sembra una vita, ma solo ieri è successo, quando
son tornata in stanza pensosa, con la consapevolezza che
nulla sarebbe accaduto, che il mio amore per Giovanna
andava oltre quel bacio, quando scendevo con la testa di
fianco, tra due tronchi di pino vicino al Raccordo.
*****
Sono le 14,30 del primo di
Agosto. Oddio come sono in ritardo! Che pazza che sono,
mio marito che suona, ed io qui in piedi nuda senza
pudore, a mostrarmi più bella a quest’uomo seduto, che
mi guarda e mi scruta tra le gambe che mostro, tra le
rughe dell’anima che sanno di sesso. Non porto il
reggiseno, me la ha tolto prima di dirmi ti amo, non
porto la gonna, l’ho tolta alle 8,40, dopo il primo
buongiorno, il primo caffè e un sorriso ammiccante.
Abbiamo fatto l’amore tre volte, ed ancora mi guarda,
ancora mi cerca, e precisa è tornata più netta, la
sensazione infinita d’essere un’altra, con il desiderio
staccato dal cuore e la mente, obbediente e disposta al
richiamo del sesso, come se Giovanna, mio marito, il
lavoro, fossero stati soltanto un mero pretesto. Il
cellulare suona ed io non rispondo, il clacson suona ed
io non m’affaccio. Chi se ne frega se continua a
suonare, tanto non sa che sono con Sandro e non può
immaginare ciò che accade qui dentro. “Oh Sandro,
Sandro! Ti prego fai in fretta.” Non mi dà tregua ed io
non penso nemmeno, a respingere netto questo fuoco che
ora, torna deciso, dove mai ho sentito, questi brividi
densi che mi marcano spessa, la linea invisibile tra
ragione e follia. È crollato tutto, neanche un “ti
prego”, “Un aspetta, magari il primo giorno parliamo!” È
crollato tutto come castelli di sabbia, buoni propositi
sgretolati in un niente, come un colpo di vento che ti
toglie la gonna, sorpresa a pensare dove nel tempo,
negli anni ho soffocato la brama, dove la voglia che
m’ha gonfiato le labbra, questa bocca perfetta che non
ha sbagliato una mossa, respiri e saliva sincronizzati
ai suoi baci.
Mio marito suona, continua a
suonare: “Oddio ma dove sarà?” Cerco la gonna in tutte
le stanze, chissà su quale scrivania m’ha presa per
prima? E lui ancora mi segue, ancora mi vuole, ma il
clacson suona e il cellulare non smette. Eccolo di
nuovo, sul corridoio dentro una nicchia, ecco di nuovo
davanti alla macchinetta del caffè. Avete mai giocato a
Baseball? L’effetto è lo stesso quando aspetti la palla
ed impugni la mazza. Sono secondi dove intorno c’è il
nulla, sono attimi intensi e ci guardiamo negli occhi.
“Oddio Sandro, fammi andare, ti prego.” Ma quale ti
prego! E’ solo coscienza, non certo di carne e non viene
dal basso! “Fammi morire, non smettere ti prego,
continua ad inseguirmi e lascia che io scappi, perché è
più bello sentirsi una preda, giocare coi ruoli di
femmina e maschio.” Lui sa, capisce che questo clacson è
solo il ritmo di una folle passione e infatti non mi
molla, mi sazia e m’affama, mi spinge, mi ferma, mi
tappa la bocca, come se ad ogni colpo ne aspettassi un
altro, più intenso e più forte di quello di prima. Mi
dimeno e poi corro e poi mi blocco, l’attendo ansimante
in un gioco sottile, con le urla scomposte di una donna
che chiede, di uomo disposto a ridarmi vigore, un tono e
un colore al fiore reciso, a ridare una forma ai miei
seni abbondanti, per troppo tempo spremuti come buste di
latte, lasciati appassire tra orari e pappette.
Sono le 14.30 ed è solo il primo d’agosto. Oddio che
bello ogni giorno lo stesso, per un mese l’amore, ogni
volta più intenso, per un mese la bocca di velluto e di
seta, questo corpo di pietra, d’antico romano, tra mio
marito che suona ed io che ora m’affanno, tra il
cellulare che squilla ed il reggiseno scomparso. Ma in
quale stanza l’avrò poggiato? Lui m’aiuta a cercarlo, ma
è solo una scusa, ora nel bagno, sul divano d’entrata,
sul tavolino di noce nella sala d’aspetto, sulla
moquette nella stanza del capo, Dio che effetto, mi
sento volare, supina l’aspetto, a carponi l’accolgo,
come se fosse la prima volta da sempre, come una vedova
dopo anni di lutto.
Solo le 14.30 ormai passate
da tempo, ma non oso guardare l’orologio. Di corsa mi
infilo le scarpe, prendo la borsa e lui freme e mi
bacia, m’insegue e mi coglie mentre m’aggiusto la gonna,
mentre scendo le scale e m’arruffa i capelli, e precaria
per poco non cado per terra, e sicura per tanto gli
offro la bocca, e incosciente l’aspetto tre gradini più
in basso, Dio sono senza reggiseno, ma il cellulare non
smette, ma che importa se suona, chi se ne frega se
aspetta, quando dietro c’è un maschio che mi dà la
misura, del tempo passato da quei due tronchi di pino,
dalla nascita di Giovanna, da un sogno mai domo, fino ad
ora che esco e mi trovo davanti, un piazzale infuocato
di una Roma deserta, l’aria allarmata di mio marito che
chiede.
“Buongiorno mio caro. Un contrattempo
imprevisto, il solito cliente un attimo prima, un fax da
fare prima di chiudere tutto.” Mi bacia ed io gli offro
la guancia, ora è attento a guardare la strada, a dirmi
che m’ama, a sfiorarmi la mano, a ringraziare la sorte
che ci ha fatto incontrare. Mi rilasso, lo guardo e gli
offro un sorriso, mentre sbadata ripenso d’essere nuda
sotto la maglia. Oddio spero che non s’accorga, perché i
miei seni ora ballano ad ogni frenata, e impalpabili
oscillano nonostante una quarta, li sento leggeri,
infantili, giocosi, come se davvero fossi indietro negli
anni, e nulla fosse accaduto perché ero in un sogno,
nulla di nulla, soltanto lavoro, mi convinco e lo prego
d’accostare un momento.
*****
Ma
poi ci ripenso, lo bacio e gli dico tesoro, e mi do
della pazza: “Ma che vado a pensare?” Perché nulla di
nulla è potuto accadere, se non fosse per la mia mania
di inventare le storie, e raccontarne i dettagli come
fossero vere, per sentirmi diversa, intrigante e
signora. Ed inventarmi un giorno, il primo di agosto, un
ufficio vuoto e un collega che vuole, e lo chiamo
Sandro, come chiamo Margherita il mio capo, e Sandro è
forte, muscoloso, maschio e tra le scrivanie mi reclama
e mi prende, in nome di una storia passata nel tempo,
tra due tronconi frondosi vicino al Raccordo. Ed io che
mi lascio baciare, per desiderio e per noia oppure per
altro, che pazza che sono, ma cosa vado a pensare, al
punto che quasi ci avevo creduto!
Sento le parole
di mio marito che mi chiamano amore, i suoi baci caldi
sul collo e le spalle, gli dico di far presto diretti a
casa, perché se ci penso sono giorni che aspetto,
Giovanna, i cambi, le pappe e non c’è mai tempo, e ora,
forse per quel racconto inventato, sento l’astinenza che
sale e mi dà brividi e brucia sudori bollenti lungo la
schiena, tremiti intensi senza respiro. Lui ha
capito, obbedisce, riparte ed io gli dico di accelerare,
di passare col rosso perché è un’emergenza, lo sprono,
lo incalzo, perché vada più in fretta, lui con una mano
regge il volante, con l’altra m’accarezza sotto la
gonna, chiudo gli occhi e sento la mano, chiudo gli
occhi e mi sento felice, donna appagata da un marito
stupendo, adagio la testa sullo schienale, ripenso a
quella storia e rido di cuore, mi prometto che un giorno
scriverò dei racconti, ma scuoto la testa ed apro la
borsa, in cerca di occhiali per questo sole accecante,
guardo dentro e senza risposta allibita mi chiedo, come
sia possibile che il mio reggiseno a fiori, sia finito
per sbaglio nella borsa tra le chiavi e il rossetto?
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è
puramente casuale..
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