|
HOME
CERCA NEL SITO
CONTATTI
COOKIE POLICY

RACCONTI 
Adamo Bencivenga
Emma

...
.
Quando mio padre se ne andò per sempre io avevo appena compiuto sedici
anni. Per me fu un duro colpo e mia madre quella sera, prendendomi da una
parte, con mio padre ancora disteso senza vita sul letto di casa, mi disse
che un mese di assenza da scuola non mi avrebbe tolto nulla. In effetti
avevo bisogno di allontanarmi da quella casa, da tutto ciò che mi legava a
lui e lei senza pensarci due volte mi spedì al paese da mia zia Emma.
Il giorno dopo preparai in fretta la valigia e, accompagnato da mia
madre, presi la prima corriera del mattino. Feci tutto il viaggio in
apnea, non sapevo cosa avrei trovato, ma sicuramente sapevo cosa avevo
perso per sempre. Perché quando mio padre morì fu per me il mio primo
grande dolore, se ne era andato il compagno dei miei giochi, il mio
spettatore preferito alle partite di calcio, il mio allenatore e il mio
avversario imbattibile alla Play Station. Se ne era andato in fretta,
appena dopo sei mesi dall’insorgere della malattia, senza darmi il tempo
di abituarmi alla sua assenza. Lo avevo visto spegnersi giorno dopo
giorno, proprio lui, così energico ed invincibile, così grande come un
eroe dei fumetti, era diventato pelle ossa e quell’immagine di lui dentro
quel letto, che non faceva il minimo volume, mi rimase impressa per mesi e
mesi.
Alla stazione dei pullman c’era mia zia ad aspettarmi. Mia
madre l’aveva avvisata e lei mi accolse con la sua aria allegra e
spensierata e sin da subito cercò di consolarmi dicendomi che avremmo
fatto tante cose divertenti insieme. “Sai il paese non offre molto, ma
sono sicura che ti troverai bene qui.” Con la sua Panda rossa mi fece fare
un giro di perlustrazione per i dintorni del paese, poi andammo in un
agriturismo, assistemmo ad una gara di aquiloni e pranzammo all’aperto.
Nel pomeriggio visitammo un vecchio maniero diroccato, lei era
appassionata di fotografia e con la sua Nikon mi fece una serie infinita
di foto, poi finalmente all’imbrunire andammo a casa.
Comunque
nonostante i suoi sforzi per giorni e giorni piansi lacrime amare e lei fu
molto carina con me, mi accolse in casa come un figlio, affettuosa e
premurosa non mi fece mai mancare nulla. Ogni istante mi domandava come mi
sentissi e se avessi bisogno di qualcosa, lei era single, non aveva figli,
aveva all’incirca il doppio dei miei anni, bionda con un bel viso tondo e
un fisico da sportiva. Mi chiedevo come mai non si fosse ancora sposata.
Al contrario di mia madre si sforzava di comportarsi da giovane ed
era sempre gioiosa e pronta a qualsiasi gioco pur di alleviarmi il male
che sentivo dentro. Passavamo le serate a giocare a Scarabeo, sicuramente
lei si divertiva più di me e devo dire che era imbattibile. Una sera
durante la nostra partita le chiesi: “Zia, ma tu che lavoro fai?” Lei
rise: “Tesoro mio, si può anche vivere senza lavorare oppure trasformando
un passatempo in un vero e proprio lavoro.” Feci la faccia di chi non
aveva capito e lei si sentì in dovere di aggiungere, senza però spiegarmi
quella frase, che aveva ereditato da suo nonno circa trecento piante di
olivi e si manteneva con il raccolto stagionale. Lei era la sorella più
piccola di mia madre, ma non avevano lo stesso sangue, perché sua madre,
rimasta vedova, aveva sposato il padre di mia madre, anch’egli vedovo.
Nelle serate davanti al camino acceso mi raccontava di quando lei e mia
madre avevano vissuto insieme nella stessa casa e di quanto si volessero
bene malgrado le infanzie diverse vissute a centinaia di chilometri di
distanza. Nonostante la differenza di età tra loro aveva regnato sempre la
massima armonia, ma poi, quando rimasero sole, lei preferì tornare in
paese nella vecchia casa dei suoi genitori.
I primi giorni furono
abbastanza duri per me, zia faceva del suo meglio per rendermi felice, ma
io pensavo a mia madre rimasta sola e che forse sarebbe stato meglio
starle vicino il giorno del funerale ed anche tutti quelli successivi. Lei
aveva solo me, ma, pur di evitarmi lo strazio, aveva preferito
allontanarmi e rimanere in quella casa vuota. Zia Emma, per farmi
stare tranquillo, mi aveva concesso la sua camera in mansarda. La stanza
era piuttosto minuscola, ma aveva una meravigliosa vista sui lunghi filari
di viti che si perdevano oltre la collina. Stavo bene lì, anche se
ovviamente mi mancavano gli amici e le mie cose, ma, per farmi coraggio,
consideravo quel periodo una bellissima vacanza e soprattutto un modo per
dimenticare. Mi ero portato i libri di scuola e qualche libro di letture.
Le giornate scorrevano tranquillamente finché un pomeriggio,
mentre leggevo “Il barone rampante” di Calvino, sentii chiaramente dei
gemiti soffocati provenienti dalla stanza di mia zia. Dapprima non ci feci
caso, poi quando divennero sempre più intensi smisi di leggere e mi
concentrai su quei lamenti d’amore. Allora, senza fare rumore e con il
fiato grosso mi alzai dal letto e avvicinandomi alla scala di legno
sbirciai attraverso la porta socchiusa della camera da letto. Ebbene sì,
dallo specchio dell’armadio vidi chiaramente Mario il barista e mia zia
distesi sul letto. Indubbiamente stavano facendo l’amore. Mario era nudo
mentre mia zia, sotto di lui, portava un paio di calze nere e il reggiseno
allacciato. Più volte distolsi lo sguardo, ma la curiosità ebbe la meglio
e alla fine guardai tutta la scena fino a quando Mario si rilassò su di
lei e mia zia si accese una sigaretta. Rimasero qualche minuto in silenzio
poi lui si alzò, si vestì di fretta e uscì di casa senza salutare.
Ovviamente la sera a cena non dissi nulla, ma in cuor mio, pur essendo
abbastanza inesperto in maniera, ero convinto che quello a cui avevo
assistito non fosse un amore vero e proprio, ma un qualcosa più
somigliante ad un libero sfogo, visto che i due durante quei minuti non si
erano scambiati né una parola e né tanto meno una parvenza di bacio.
Comunque decisi di fare più attenzione e dopo qualche giorno avevo tutti
gli elementi per inquadrare meglio la situazione. Mario, che aveva il bar
proprio sotto casa di mia zia ed era sposato, quasi ogni giorno, tranne il
sabato e la domenica, verso le tre del pomeriggio, metteva il cartello
“Torno subito” sulla vetrina del negozio e dopo qualche giro a vuoto,
forse per confondere i curiosi, scompariva nel portone di casa di mia zia.
Ben presto imparai a capire i segnali di quegli incontri clandestini, lei
aspettava che io salissi le scale della mansarda, poi mandava un messaggio
col telefono e dopo aver atteso la risposta andava in bagno a prepararsi.
Mario aveva circa sessant’anni ed un fisico piuttosto appesantito, mi
faceva strano pensare che avessero una storia segreta, insomma che fossero
amanti, ma quando più di una sera vidi nella stanza da letto di mia zia
altri uomini che non erano Mario iniziai a capire.
Nella mia
ingenuità capii che le donne single, al contrario di quelle sposate,
possono avere più relazioni contemporaneamente e che tutti quei sotterfugi
di mia zia fossero dovuti alla gelosia di Mario. Del resto Mario non era
un bell’uomo e soprattutto non mi era simpatico per cui fu facile per me
accettare quei tradimenti serali di mia zia. Comunque da quel giorno in me
cambiò qualcosa e nelle mie ore intime, disteso sul letto della mansarda,
fantasticavo di fare l’amore con lei o per lo meno, nelle poche notti che
rimaneva sola, di addormentarmi sul suo seno grande, morbido e materno.
Ero certo che in quel via vai ci sarebbe stato un posticino anche per me,
naturalmente avrei tenuto la bocca chiusa e non avrei detto nulla a Mario
il barista.
Naturalmente, timido com’ero, non presi mai
l’iniziativa, mi limitavo a spiarla quando ero sicuro che non mi vedesse e
quindi quello che successe accadde solo nella mia testa mentre da solo
ammiravo quella stupenda palla di fuoco rossa e gialla che verso le sette
di sera scompariva dietro la collina. Del resto con me zia Emma si
comportava come una madre inesperta continuandomi a trattare come un
bambino nonostante avessi sedici anni compiuti. Ero sicuro che mai e
poi mai avrebbe pensato che a quell’età potessi avere delle pulsioni
sessuali e figuriamoci delle fantasie erotiche nei suoi riguardi. Solo una
volta a cena mi chiese cosa facessi oltre lo studio e lo sport e se avessi
una qualche fidanzatina, disse proprio così, ma ebbi la netta sensazione
che me lo avesse chiesto così tanto per parlare e che poi non le
interessasse molto, qualunque fosse stata la mia risposta. Comunque le
dissi che non avevo nessuna ragazza e subito dopo, chissà perché, aggiunsi
che non avevo mai fatto l’amore. Lei diventò rossa, si accese una
sigaretta ed io stranamente mi sentii più grande. A quel punto presi
coraggio e le raccontai di Sabrina, la ragazza che avevo conosciuto al
mare, a Santa Severa l’estate prima, qualcosa in effetti c’era stato,
c’eravamo baciati e in spiaggia avevamo fatto anche altro, ma lei non
aveva voluto fare l’amore completo. A quel punto mia zia si alzò e
sparecchiò la tavola.
Quando mia zia mi regalò la bicicletta feci
salti di gioia, era usata d’accordo e piuttosto malandata, ma per me
rappresentava uno spicchio enorme di libertà. Potevo spostarmi senza
problemi, andare al campo di calcio, arrivare fino al paese vicino, fare
dei servizi per zia e rendermi utile, oppure fare delle lunghe corse per
la campagna circostante insieme al mio nuovo amico Saverio, figlio della
signora della panetteria. Saverio aveva una bici nuova con il cambio, ma
io ero sicuro di poterlo battere. Adoravo quelle folli corse a perdifiato
tra i filari e anche mia zia era contenta visto che per lunghe ore le
lasciavo la casa libera e poteva invitare senza problemi i suoi amanti.
Purtroppo il mese di vacanza passò in fretta e quando ormai mi ero
ambientato venne il giorno di rientrare a Roma. Ero molto triste e mia zia
cercò di consolarmi. Oh sì avrei rivisto mia madre e i miei amici, ma
avevo la strana sensazione di lasciare dietro di me qualcosa di incompiuto
e con la lontananza irrealizzabile. Quel mese era servito a vedere mia zia
in altro modo e il timore del distacco mi rendeva decisamente scontento.
Ero triste perché le mie fantasie erano rimaste tali, triste perché non le
avevo chiesto di Mario e cosa ci fosse veramente tra loro e perché lo
tradisse. Mi ripetevo che non mi stavo innamorando di lei, ma quella sua
disponibilità con altri mi aveva illuso che tutto fosse possibile e a
portata di mano.
Lei ovviamente pensava che quella amarezza,
evidente sulla mia faccia, fosse dovuta ad altro e non a lei, mi aiutò a
preparare la valigia, poi mi diede le ultime raccomandazioni dicendomi di
fare il bravo e di stare vicino alla mamma, ma quando mi avvicinai per
salutarla e darle un bacio sulla guancia, non so cosa mi successe. Sta di
fatto che bastò un solo attimo e quando vidi la sua camicetta slacciata
allungai la mano e, in meno di un secondo, le strinsi forte il seno destro
sperando nel contempo di incontrare le sue labbra invece della guancia.
Lei sorpresa non disse niente, ma si allontanò e non sorrise. Rimase per
un attimo interdetta, assumendo l’espressione di chi mai se lo sarebbe
aspettato. Mi pentii subito pensando di averle fatto male, comunque mi
scusai più volte e lei, con la sua solita aria candida, si riprese
immediatamente, mi accarezzò i capelli e mi disse: “Devi crescere ancora
un po’, poi lo potrai accarezzare.”
Seppur imbarazzato ero
contento, lei non mi aveva affatto rimproverato per quel gesto così goffo,
ed io avevo toccato finalmente il seno di una donna grande! Sicuramente me
ne sarei vantato con gli amici di Roma! Comunque quella frase mi martellò
il cervello, non solo durante il tragitto con la Panda rossa, non solo
fino alla stazione dei pullman, non solo durante il viaggio, ma anche
tutte le sante sere nella mia stanza a Roma quando disteso sul mio letto
pensavo a mia zia Emma. Dovevo crescere certo, crescere in fretta e così
ogni giorno davanti allo specchio misuravo la mia altezza, così come ogni
sera in bagno il mio pene. Pensavo a lei, mia zia, nelle notti d’amore la
chiamavo Emma e cercavo di ricordarmi ogni dettaglio del suo corpo durante
tutte le volte che l’avevo vista con Mario il barista. Avrei voluto essere
lui, avere i peli lunghi e neri sulla schiena come lui, avere le sue mani
tozze e callose, e pensavo a quanto fosse fortunato lui e tutti gli altri
con cui lo tradiva. Quella sua frase ribalzava dentro le mie fantasie
libera ed anarchica come se avesse avuto il potere di oltrepassare ogni
limite e trasgredire ogni regola. La sussurravo ripetutamente senza
pensare che era stata pronunciata per ottenere semplicemente l’effetto
desiderato, ossia tenermi a distanza e nel contempo darmi una vana
speranza.
Poi si sa le cose vanno sempre come devono andare, e
giorno dopo giorno, mese dopo mese, assorbito dalla mia quotidianità,
pensavo a vivere la mia vita, ma non mi dimenticai mai di zia Emma. Quando
presi la maturità con ottimi voti, di nascosto da mamma, presi la corriera
e l’andai a trovare. Le dissi che era un nostro segreto e lei con aria
complice giurò di non dire niente. Ero felice! Pranzammo in un casolare
poco fuori dal paese, lei portava una camicia bianca forse la stessa di
quella volta quando le avevo toccato il seno. Comunque nessuno dei due
durante la giornata accennò a quell’episodio e a quella frase che
rimbombava ancora nella mia testa, ma quando mi riaccompagnò alla stazione
dei pullman mi resi conto che ancora non ero cresciuto abbastanza. Ed in
effetti non ero ancora adulto perché ignoravo che alle volte i grandi
dicono le cose tanto per dire, oppure per rimandare, oppure per togliersi
dall’imbarazzo. Nella mia ingenuità credevo che lei non l’avesse
dimenticata e stava aspettando solo il tempo che io crescessi per
mantenere la promessa.
L’anno dopo mi iscrissi ad Economia e
Commercio alla Sapienza. Dopo quattro anni ero già laureato e ricevetti
varie offerte di lavoro. Alla fine scelsi di entrare in una società di
investimenti finanziari. Lì incontrai Noemi, la mia futura moglie. La
sposai perché era bionda come Emma, alta come Emma, perché aveva gli occhi
chiari come Emma, il viso tondo come Emma, la erre moscia come Emma. La
sposai perché pensavo ad Emma come ad un sogno che mai si sarebbe
realizzato. A lei non parlai mai di quella mia zia, che poi non era zia,
come se avessi il timore di contaminare quella promessa o che dicendola
l’avrei resa vana. Rimase solo un mio meraviglioso segreto. Purtroppo, lo
stesso giorno che nacque Andrea, mio figlio, persi per sempre mia madre.
Erano passati sedici anni da quando era morto mio padre, sedici
anni da quando ero andato a trovare la prima volta Emma. Sedici anni sì,
ma risentii lo stesso identico dolore e allora in preda allo sconforto
decisi di ascoltare lo stesso consiglio di mia madre e prendermi un nuovo
mese di vacanza e di trasferirmi al paese. Ero sicuro che anche in
questa occasione la terapia avrebbe funzionato. La zia mi aveva estirpato
quel dolore rendendomi leggero e facendo in modo, inconsapevolmente, di
farmi ritrovare in una situazione molto più grande di me anche se era
rimasta soltanto un bellissimo sogno. Ora però lei rappresentava
qualcosa di più, era l’unica persona che mi rimaneva di tutta la famiglia.
Per me il suo ricordo era come le foto in bianco e nero, come le radici
degli olivi, il mio cordone ombelicale attraverso il quale si coltiva
l’attaccamento morboso alle proprie origini. Noemi pur giurando di capirmi
e di comprendere le mie scelte non mi seguì, io invece mi accorsi di non
averla mai amata o meglio di averla amata come copia, visto
l’impossibilità e la pazzia di amare l’originale. Non ci volle molto a
capire che il mio cuore era rimasto lì, dentro la Panda rossa, tra quei
filari di viti, alla stazione dei pullman, dentro quella casa, nel bar di
Mario.
Quando bussai alla porta di mia zia Emma il respiro grosso
mi si strozzò in gola e solo in quel momento mi accorsi di non averla più
sentita e di non aver avuto più notizie di lei. In quel momento, dicevo,
immaginai che un ipotetico marito, oppure lo stesso Mario, avrebbe potuto
aprire la porta, ma non fu così, lei era sola, molto più bella di sedici
anni prima o di quando avevamo pranzato insieme in quel casolare. Quando
mi vide si commosse e scoppiò in lacrime baciandomi. “Ma sei tu?
Davvero tu?” Rimanemmo abbracciati per un tempo interminabile. Mi
ringraziò per aver scelto nuovamente il suo conforto, la sua casa calda
come culla del mio dolore. La sera a cena le parlai di Andrea e delle
grandi difficoltà che stavo incontrando con mia moglie Noemi. Le confessai
di averla sposata perché le somigliava molto, lei non commentò, anzi mi
disse che iniziava a stancarsi di quella vita, anche se sinceramente non
avevo ancora capito bene in cosa consistesse e in quel momento, dopo
sedici anni, mi chiesi cosa facesse realmente oltre a raccogliere olive.
Ed in effetti era tempo di raccolto e il giorno dopo ci alzammo
molto presto, era tempo di bacchettare le olive ed insieme appoggiati ad
una rete metallica, ai margini del campo di Emma, assistemmo a questo
antico metodo. Ad un segnale convenuto tre contadini armati di grossi
bastoni di legno si sparpagliarono per il campo, iniziarono a colpire
ripetutamente i rami degli alberi e magicamente le olive caddero a pioggia
su grandi teli disposti sulla superficie del terreno sotto gli alberi. Al
bordo di quel terreno, posto sopra una collinetta poco fuori dal paese,
Emma seguiva con attenzione tutte le fasi della lavorazione mentre per me
fu come assistere ad un antico rituale, ma toccai l’apice dell’emozione
quando Emma, senza dirmi nulla e senza guardarmi degli occhi, cercò
segretamente la mano. Rimanemmo mano nella mano per tutto il tempo del
raccolto. Ero felice! Questa volta, ne ero certo, il suo non era
assolutamente un gesto di compassione, Emma aveva finalmente intercettato
il mio sentimento. Due sere dopo facemmo l’amore, avvenne in maniera
naturale senza che nessuno dei due prendesse l’iniziativa. Lei ovviamente
non si ricordava di quella promessa ed io invece le dissi che non l’avevo
mai dimenticata e che già a sedici anni avrei voluto ardentemente stare
disteso con lei in quel letto. Lei rise a crepapelle giurandomi che per
nulla al mondo avrebbe fatto l’amore con un ragazzino.
In quei
sedici anni passati avevo avuto altre donne, ma con lei fu un rapporto
intenso, unico e speciale. Concentrai in me tutti i desideri dei miei
sedici anni compresi quelli di quando spiavo Emma da sopra la scala o
quando la sognavo nelle mie notti a Roma. Alla fine le chiesi di Mario,
lei rise: “Ma davvero hai creduto che potessi vivere e mantenermi con il
solo raccolto delle olive?” Allora davanti a quell’evidenza così spontanea
e naturale mi si illuminò ogni dettaglio di quel mese vissuto insieme a
sedici anni, ebbi la sensazione che nessun’altra donna al mondo avrebbe
potuto essere più interessante ai miei occhi.
Per non essere troppo
indiscreto e sconvolgere la sua vita decisi di prendere in affitto una
piccola casa nello stesso edificio. Del resto non ero più un bambino e la
mia presenza sarebbe stata troppo invadente. Lei ovviamente non fu
d’accordo, mi disse che non ci sarebbero stati problemi ospitandomi
volentieri, ma risposi che ero stufo di farmi lunghe passeggiate in
bicicletta. Ridemmo convenendo che al momento fosse la soluzione migliore
per entrambi.
Passarono alcuni giorni, ognuno dei due faceva la
propria vita e la sera ci vedevamo a cena. Stavo bene e mi piaceva starle
vicino, alle volte rimanevo in finestra a gustarmi il panorama e
inevitabilmente a guardare i tanti Mario che con fare circospetto
guadagnavano la porta e poi la scala della casa di Emma. In quei frangenti
mi chiedevo che amore fosse il nostro e come facessi a non impazzire di
gelosia, ma fu proprio Emma a smentirmi e darmi indirettamente la
risposta. Infatti dopo alcuni giorni con enorme sorpresa mi accorsi che
più nessun uomo e a nessuna ora del giorno e della notte varcava quella
soglia.
Non ci potevo credere! Aspettai ancora qualche giorno per
la conferma, poi un pomeriggio di inverno inoltrato, quando i comignoli
iniziavano a sbuffare per riscaldare quelle meravigliose case, di corsa
salii le sue scale a quattro a quattro, bussai e col fiato grosso le dissi
di getto: “Mi vuoi sposare?” Lo dissi con la consapevolezza che l’avrei
amata anche se non avesse rinunciato al suo lavoro. “Dici sul serio?”
Sgranò gli occhi. “Credimi, non sto scherzando, Emma.” Risposi
portandomi le mani sul cuore. “Tu sei matto!” Disse scuotendo la testa.
In quell’istante notai in lei un leggero mancamento. “Che c’è di
male o di tanto strano sposare una zia?” Lo dissi per sdrammatizzare la
situazione e lei questa volta rise. “Se mi fossero importate le
chiacchiere della gente non avrei mai fatto quello che faccio anche se
penso che per le malelingue sposare un nipote è di gran lunga un male
peggiore…” “Appunto, al di là di ogni pregiudizio, tu hai dimostrato
di essere una donna libera e per questo motivo mi sono innamorato di te.”
“Ma tu sei sposato?” Disse per prendere fiato e tempo. “Quello è il
problema minore…” Dissi abbracciandola e stringendola forte a me.
Quella sera non cenammo, avevamo altro da mangiare e ci saziammo per tutta
la notte. Lei aveva appena compiuto quarantotto anni ed io ne avrei fatti
trentatre a breve, ma guardandola in controluce col profilo della luna mi
accorsi che quella differenza di età era solo un fattore anagrafico.
Poi si sa, le cose vanno come devono andare, Noemi aveva accettato un
lavoro all’estero, sarebbe partita l’estate seguente e mi concesse
volentieri il divorzio. Io tornai a Roma solo per sbrigare le mie
faccende, decisi di vendere tutto e licenziarmi definitivamente dal
lavoro. Con i soldi ricavati dalle vendite aggiunsi alle trecento di Emma
altre mille piante di olivo e quel casolare che ci aveva visto pranzare
insieme poco fuori dal paese. Mettemmo su una vera e propria azienda
agricola, a quel punto davvero avremmo potuto mantenerci con il raccolto e
la produzione di vino e verdure. Nel frattempo, quando la madre partì,
Andrea venne a vivere con noi. Ero immensamente felice quando lo vedevo
giocare nell’aia e correre dietro a Carmine il nostro bastardino e alle
tre galline di razza padovana: Nina, Pinta e Santa Maria. Esattamente
dopo due anni e tre mesi sposai Emma in comune, Andrea fu il solo invitato
oltre ai due operai dell’azienda che ci fecero da testimoni. Dopo nove
mesi nacque Adele e vivemmo liberi e sereni.
|

Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
© All rights
reserved
TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso
dell'autore

Photo
Kristina Kazarina


Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori.
Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.
If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti

|
|