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RACCONTI
 

Adamo Bencivenga
Mia zia Emma
 


 
 


Quando mio padre se ne andò per sempre io avevo appena compiuto sedici anni. Per me fu un duro colpo e mia madre quella sera, prendendomi da una parte, con mio padre ancora disteso senza vita sul letto di casa, mi disse che un mese di assenza da scuola non mi avrebbe tolto nulla. In effetti avevo bisogno di allontanarmi da quella casa, da tutto ciò che mi legava a lui e lei senza pensarci due volte mi spedì al paese da mia zia Emma.

Il giorno dopo preparai in fretta la valigia e, accompagnato da mia madre, presi la prima corriera del mattino. Feci tutto il viaggio in apnea, non sapevo cosa avrei trovato, ma sicuramente sapevo cosa avevo perso per sempre. Perché quando mio padre morì fu per me il mio primo grande dolore, se ne era andato il compagno dei miei giochi, il mio spettatore preferito alle partite di calcio, il mio allenatore e il mio avversario imbattibile alla Play Station. Se ne era andato in fretta, appena dopo sei mesi dall’insorgere della malattia, senza darmi il tempo di abituarmi alla sua assenza. Lo avevo visto spegnersi giorno dopo giorno, proprio lui, così energico ed invincibile, così grande come un eroe dei fumetti, era diventato pelle ossa e quell’immagine di lui dentro quel letto, che non faceva il minimo volume, mi rimase impressa per mesi e mesi.

Alla stazione dei pullman c’era mia zia ad aspettarmi. Mia madre l’aveva avvisata e lei mi accolse con la sua aria allegra e spensierata e sin da subito cercò di consolarmi dicendomi che avremmo fatto tante cose divertenti insieme.
“Sai il paese non offre molto, ma sono sicura che ti troverai bene qui.” Con la sua Panda rossa mi fece fare un giro di perlustrazione per i dintorni del paese, poi andammo in un agriturismo, assistemmo ad una gara di aquiloni e pranzammo all’aperto. Nel pomeriggio visitammo un vecchio maniero diroccato, lei era appassionata di fotografia e con la sua Nikon mi fece una serie infinita di foto, poi finalmente all’imbrunire andammo a casa.

Comunque nonostante i suoi sforzi per giorni e giorni piansi lacrime amare e lei fu molto carina con me, mi accolse in casa come un figlio, affettuosa e premurosa non mi fece mai mancare nulla. Ogni istante mi domandava come mi sentissi e se avessi bisogno di qualcosa, lei era single, non aveva figli, aveva all’incirca il doppio dei miei anni, bionda con un bel viso tondo e un fisico da sportiva. Mi chiedevo come mai non si fosse ancora sposata.

Al contrario di mia madre si sforzava di comportarsi da giovane ed era sempre gioiosa e pronta a qualsiasi gioco pur di alleviarmi il male che sentivo dentro. Passavamo le serate a giocare a Scarabeo, sicuramente lei si divertiva più di me e devo dire che era imbattibile. Una sera durante la nostra partita le chiesi: “Zia, ma tu che lavoro fai?”
Lei rise: “Tesoro mio, si può anche vivere senza lavorare oppure trasformando un passatempo in un vero e proprio lavoro.” Feci la faccia di chi non aveva capito e lei si sentì in dovere di aggiungere, senza però spiegarmi quella frase, che aveva ereditato da suo nonno circa trecento piante di olivi e si manteneva con il raccolto stagionale. Lei era la sorella più piccola di mia madre, ma non avevano lo stesso sangue, perché sua madre, rimasta vedova, aveva sposato il padre di mia madre, anch’egli vedovo.
Nelle serate davanti al camino acceso mi raccontava di quando lei e mia madre avevano vissuto insieme nella stessa casa e di quanto si volessero bene malgrado le infanzie diverse vissute a centinaia di chilometri di distanza. Nonostante la differenza di età tra loro aveva regnato sempre la massima armonia, ma poi, quando rimasero sole, lei preferì tornare in paese nella vecchia casa dei suoi genitori.

I primi giorni furono abbastanza duri per me, zia faceva del suo meglio per rendermi felice, ma io pensavo a mia madre rimasta sola e che forse sarebbe stato meglio starle vicino il giorno del funerale ed anche tutti quelli successivi. Lei aveva solo me, ma, pur di evitarmi lo strazio, aveva preferito allontanarmi e rimanere in quella casa vuota.
Zia Emma, per farmi stare tranquillo, mi aveva concesso la sua camera in mansarda. La stanza era piuttosto minuscola, ma aveva una meravigliosa vista sui lunghi filari di viti che si perdevano oltre la collina. Stavo bene lì, anche se ovviamente mi mancavano gli amici e le mie cose, ma, per farmi coraggio, consideravo quel periodo una bellissima vacanza e soprattutto un modo per dimenticare. Mi ero portato i libri di scuola e qualche libro di letture.

Le giornate scorrevano tranquillamente finché un pomeriggio, mentre leggevo “Il barone rampante” di Calvino, sentii chiaramente dei gemiti soffocati provenienti dalla stanza di mia zia. Dapprima non ci feci caso, poi quando divennero sempre più intensi smisi di leggere e mi concentrai su quei lamenti d’amore. Allora, senza fare rumore e con il fiato grosso mi alzai dal letto e avvicinandomi alla scala di legno sbirciai attraverso la porta socchiusa della camera da letto. Ebbene sì, dallo specchio dell’armadio vidi chiaramente Mario il barista e mia zia distesi sul letto. Indubbiamente stavano facendo l’amore. Mario era nudo mentre mia zia, sotto di lui, portava un paio di calze nere e il reggiseno allacciato. Più volte distolsi lo sguardo, ma la curiosità ebbe la meglio e alla fine guardai tutta la scena fino a quando Mario si rilassò su di lei e mia zia si accese una sigaretta. Rimasero qualche minuto in silenzio poi lui si alzò, si vestì di fretta e uscì di casa senza salutare.

Ovviamente la sera a cena non dissi nulla, ma in cuor mio, pur essendo abbastanza inesperto in maniera, ero convinto che quello a cui avevo assistito non fosse un amore vero e proprio, ma un qualcosa più somigliante ad un libero sfogo, visto che i due durante quei minuti non si erano scambiati né una parola e né tanto meno una parvenza di bacio. “Sarà quello l’amore tra adulti?” Mi ero chiesto più volte durante la giornata.
Comunque decisi di fare più attenzione e dopo qualche giorno avevo tutti gli elementi per inquadrare meglio la situazione. Mario, che aveva il bar proprio sotto casa di mia zia ed era sposato, quasi ogni giorno, tranne il sabato e la domenica, verso le tre del pomeriggio, metteva il cartello “Torno subito” sulla vetrina del negozio e dopo qualche giro a vuoto, forse per confondere i curiosi, scompariva nel portone di casa di mia zia. Ben presto imparai a capire i segnali di quegli incontri clandestini, lei aspettava che io salissi le scale della mansarda, poi mandava un messaggio col telefono e dopo aver atteso la risposta andava in bagno a prepararsi. Mario aveva circa sessant’anni ed un fisico piuttosto appesantito, mia zia invece era una bellissima donna nel pieno dei suoi anni e mi faceva strano pensare che avessero una storia segreta, insomma che fossero amanti, ma quando più di una sera vidi nella stanza da letto di mia zia altri uomini che non erano Mario iniziai a capire.

Nella mia ingenuità capii che le donne single, al contrario di quelle sposate, possono avere più relazioni contemporaneamente e che tutti quei sotterfugi di mia zia fossero dovuti alla gelosia di Mario. Del resto Mario non era un bell’uomo e soprattutto non mi era simpatico per cui vedendo altri uomini nel letto di mia zia mi sentii come risollevato. Comunque da quel giorno in me cambiò qualcosa e nelle mie ore intime, disteso sul letto della mansarda, fantasticavo di fare l’amore con lei o per lo meno, nelle poche notti che rimaneva sola, di addormentarmi sul suo seno grande, morbido e materno. Ero certo che in quel via vai ci sarebbe stato un posticino anche per me, naturalmente avrei tenuto la bocca chiusa e non avrei detto nulla a Mario il barista.

Timido com’ero, tenevo per me quelle fantasie e non presi mai l’iniziativa, mi limitavo a spiarla quando ero sicuro che non mi vedesse per poi lasciarmi andare di sera nella solitudine del mio letto. Del resto con me zia Emma si comportava come una madre inesperta continuandomi a trattare come un bambino nonostante avessi sedici anni compiuti.
Ero sicuro che mai e poi mai avrebbe pensato che a quell’età potessi avere delle pulsioni sessuali e figuriamoci delle fantasie erotiche nei suoi riguardi. Solo una volta a cena mi chiese cosa facessi oltre lo studio e lo sport e se avessi una qualche fidanzatina, disse proprio così, ma ebbi la netta sensazione che me lo stesse chiedendo così tanto per parlare e che poi non le interessasse molto, qualunque fosse stata la mia risposta. Comunque le dissi che non avevo nessuna ragazza e subito dopo, chissà perché, aggiunsi che non avevo mai fatto l’amore. Lei diventò rossa, si accese una sigaretta ed io stranamente mi sentii più grande. Poi si riprese e mi disse banalmente che alla mia età era più che normale. A quel punto presi coraggio e le raccontai di Sabrina, la ragazza che avevo conosciuto al mare, a Santa Severa l’estate prima, qualcosa in effetti c’era stato, c’eravamo baciati e in spiaggia avevamo fatto anche altro, ma lei non aveva voluto fare l’amore completo. A quel punto mia zia si alzò e sparecchiò la tavola.

Quando mia zia mi regalò una bicicletta rossa feci salti di gioia, era usata d’accordo e piuttosto malandata, ma per me rappresentava uno spicchio enorme di libertà. Potevo spostarmi senza problemi, andare al campo di calcio, arrivare fino al paese vicino, fare dei servizi per zia e rendermi utile, oppure fare delle lunghe corse per la campagna circostante insieme al mio nuovo amico Saverio, figlio della signora della panetteria. Saverio aveva una bici nuova con il cambio, ma io ero sicuro di poterlo battere. Adoravo quelle folli corse a perdifiato tra i filari e anche mia zia era contenta visto che per lunghe ore le lasciavo la casa libera e poteva invitare senza problemi i suoi amanti.

Purtroppo il mese di vacanza passò in fretta e quando ormai mi ero ambientato venne il giorno di rientrare a Roma. Ero molto triste e mia zia cercò di consolarmi. Oh sì avrei rivisto mia madre e i miei amici, ma avevo la strana sensazione di lasciare dietro di me qualcosa di incompiuto e con la lontananza irrealizzabile. Quel mese era servito a vedere mia zia in altro modo e il timore del distacco mi rendeva decisamente scontento. Ero triste perché le mie fantasie erano rimaste tali, triste perché non le avevo chiesto di Mario e cosa ci fosse veramente tra loro e perché lo tradisse. Mi ripetevo che non mi stavo innamorando di lei, ma quella sua disponibilità con altri mi aveva illuso che tutto fosse possibile e a portata di mano.

Lei ovviamente pensava che quell’amarezza, evidente sulla mia faccia, fosse dovuta ad altro e non a lei, mi aiutò a preparare la valigia, poi mi diede le ultime raccomandazioni dicendomi di fare il bravo e di stare vicino alla mamma, ma quando mi avvicinai per salutarla e darle un bacio sulla guancia, non so cosa mi successe. Sta di fatto che bastò un solo attimo e quando vidi la sua camicetta slacciata allungai la mano e, in meno di un secondo, le strinsi forte il seno destro sperando nel contempo di incontrare le sue labbra invece della guancia. Lei rimase per un attimo interdetta, assumendo l’espressione di chi mai se lo sarebbe aspettato, ma non disse niente, si allontanò e non sorrise. Mi pentii subito pensando di averle fatto male, comunque mi scusai più volte e lei, con la sua solita aria candida, si riprese immediatamente, mi accarezzò i capelli e mi disse: “Devi crescere ancora un po’, poi lo potrai accarezzare.”

Seppur imbarazzato ero contento, lei non mi aveva affatto rimproverato per quel gesto così goffo, ed io avevo toccato finalmente il seno di una donna grande! Sicuramente me ne sarei vantato con gli amici di Roma! Comunque quella frase non smise di frullarmi nella testa e mi martellò il cervello, non solo durante il tragitto con la Panda rossa, non solo fino alla stazione dei pullman, non solo durante il viaggio, ma anche tutte le sante sere nella mia stanza a Roma quando disteso sul mio letto pensavo a mia zia Emma annusandomi le dita in cerca del suo profumo. Dovevo crescere certo, crescere in fretta e così ogni giorno davanti allo specchio misuravo la mia altezza, così come ogni sera in bagno il mio pene pensando a quanto potesse essere grosso quello di Mario.

Razionalmente sapevo benissimo che anche se l’avessi rivista, mai e poi mai avrei potuto assaporare le sue grazie, ma era più forte di me, il mio pensiero andava sempre a lei, mia zia, e nelle notti d’amore la chiamavo Emma e cercavo di ricordarmi ogni dettaglio del suo corpo durante tutte le volte che l’avevo vista con Mario il barista. Avrei voluto essere lui, avere i peli lunghi e neri sulla schiena come lui, avere le sue mani tozze e callose, e pensavo a quanto fosse fortunato lui e tutti gli altri con cui lo tradiva.

“Devi crescere ancora un po’, poi lo potrai accarezzare.” Quella sua frase ribalzava dentro le mie fantasie libera ed anarchica come se avesse avuto il potere di oltrepassare ogni limite e trasgredire ogni regola. La sussurravo ripetutamente senza pensare che era stata pronunciata per ottenere semplicemente l’effetto desiderato, ossia tenermi a distanza e nel contempo darmi una vana speranza.

Poi si sa le cose vanno sempre come devono andare, e giorno dopo giorno, mese dopo mese, assorbito dalla mia quotidianità, pensavo a vivere la mia vita, ma non mi dimenticai mai di zia Emma. Quando presi la maturità con ottimi voti, di nascosto da mamma, presi la corriera e l’andai a trovare. Le dissi che era un nostro segreto e lei con aria complice giurò di non dire niente. Ero felice! Pranzammo in un casolare poco fuori dal paese, lei portava una camicia bianca forse la stessa di quella volta quando mi aveva accompagnato alla stazione e le avevo toccato il seno. Comunque nessuno dei due durante la giornata accennò a quell’episodio e a quella frase che rimbombava ancora nella mia testa, ma quando mi riaccompagnò alla stazione dei pullman mi resi conto che ancora non ero cresciuto abbastanza. Ed in effetti non ero ancora adulto perché ignoravo che alle volte i grandi dicono le cose tanto per dire, oppure per rimandare, oppure per togliersi dall’imbarazzo. Nella mia ingenuità credevo che lei non l’avesse dimenticata e stava aspettando solo il tempo che io crescessi per mantenere la promessa.

L’anno dopo mi iscrissi ad Economia e Commercio alla Sapienza. Dopo quattro anni ero già laureato e ricevetti varie offerte di lavoro. Alla fine scelsi di entrare in una società di investimenti finanziari. Lì incontrai Noemi, la mia futura moglie. La sposai perché era bionda come Emma, alta come Emma, perché aveva gli occhi chiari come Emma, il viso tondo come Emma, le tette grandi come Emma, la erre moscia come Emma. La sposai perché pensavo ad Emma come ad un sogno che mai si sarebbe realizzato. A lei non parlai mai di quella mia zia, che poi non era zia, come se avessi il timore di contaminare quella promessa o che dicendola l’avrei resa vana. Rimase solo un mio meraviglioso segreto. Purtroppo, lo stesso giorno che nacque Andrea, mio figlio, persi per sempre mia madre.

Erano passati sedici anni da quando era morto mio padre, sedici anni da quando ero andato a trovare la prima volta Emma. Sedici anni sì, ma risentii lo stesso identico dolore e allora in preda allo sconforto decisi di ascoltare lo stesso consiglio di mia madre e prendermi un nuovo mese di vacanza e di trasferirmi al paese.
Ero sicuro che anche in questa occasione la terapia avrebbe funzionato. La zia mi aveva estirpato quel dolore rendendomi leggero e facendo in modo, inconsapevolmente, di farmi ritrovare in una situazione molto più grande di me anche se era rimasta soltanto un bellissimo sogno.
Ora però lei rappresentava qualcosa di più, era l’unica persona che mi rimaneva di tutta la famiglia. Per me il suo ricordo era come le foto in bianco e nero, come le radici degli olivi, il mio cordone ombelicale attraverso il quale si coltiva l’attaccamento morboso alle proprie origini. Noemi pur giurando di capirmi e di comprendere le mie scelte non mi seguì, io invece, proprio in quel momento, mi accorsi di non averla mai amata o meglio di averla amata come copia, visto l’impossibilità e la pazzia di amare l’originale. Non ci volle molto a capire che il mio cuore era rimasto lì, dentro la Panda rossa, tra quei filari di viti, alla stazione dei pullman, dentro quella casa, nel bar di Mario.

Quando bussai alla porta di mia zia Emma il respiro grosso mi si strozzò in gola e solo in quel momento mi accorsi di non averla più sentita e di non aver avuto più notizie di lei. In quel momento, dicevo, immaginai che un ipotetico marito, oppure lo stesso Mario, avrebbe potuto aprire la porta, ma non fu così, lei era sola, molto più bella di sedici anni prima o di quando avevamo pranzato insieme in quel casolare. Quando mi vide si commosse e scoppiò in lacrime baciandomi.
“Ma sei tu? Davvero tu?” Rimanemmo abbracciati per un tempo interminabile. Mi ringraziò per aver scelto nuovamente il suo conforto, la sua casa calda come culla del mio dolore. La sera a cena le parlai di Andrea e delle grandi difficoltà che stavo incontrando con mia moglie Noemi. Le confessai di averla sposata perché le somigliava molto, lei non commentò, anzi mi disse che iniziava a stancarsi di quella vita, anche se sinceramente non avevo ancora capito bene in cosa consistesse e in quel momento, dopo sedici anni, mi chiesi cosa facesse realmente oltre a raccogliere olive.

Ed in effetti era tempo di raccolto e il giorno dopo ci alzammo molto presto, era tempo di bacchettare le olive ed insieme appoggiati ad una rete metallica, ai margini del campo di Emma, assistemmo a questo antico metodo. Ad un segnale convenuto tre contadini armati di grossi bastoni di legno si sparpagliarono per il campo, iniziarono a colpire ripetutamente i rami degli alberi e magicamente le olive caddero a pioggia su grandi teli disposti sulla superficie del terreno sotto gli alberi. Al bordo di quel terreno, posto sopra una collinetta poco fuori dal paese, Emma seguiva con attenzione tutte le fasi della lavorazione mentre per me fu come assistere ad un antico rituale, ma toccai l’apice dell’emozione quando Emma, senza dirmi nulla e senza guardarmi degli occhi, cercò segretamente la mano. Rimanemmo mano nella mano per tutto il tempo del raccolto. Ero felice! Questa volta, ne ero certo, il suo non era assolutamente un gesto di compassione, Emma aveva finalmente intercettato il mio sentimento.

Due sere dopo facemmo l’amore, avvenne in maniera naturale senza che nessuno dei due prendesse l’iniziativa. Lei ovviamente non si ricordava di quella promessa ed io invece le dissi che non l’avevo mai dimenticata e che già a sedici anni avrei voluto ardentemente stare disteso con lei in quel letto. Lei rise a crepapelle giurandomi che per nulla al mondo avrebbe fatto l’amore con un ragazzino.

In quei sedici anni passati avevo avuto altre donne, ma con lei fu un rapporto intenso, unico e speciale. Concentrai in me tutti i desideri dei miei sedici anni compresi quelli di quando spiavo Emma da sopra la scala o quando la sognavo nelle mie notti a Roma. Alla fine le chiesi di Mario, lei rise: “Ma davvero hai creduto che potessi vivere e mantenermi con il solo raccolto delle olive?” Allora davanti a quell’evidenza così spontanea e naturale mi si illuminò ogni dettaglio di quel mese vissuto insieme a sedici anni, ebbi la sensazione che nessun’altra donna al mondo avrebbe potuto essere più interessante ai miei occhi.

Per non essere troppo indiscreto e sconvolgere la sua vita decisi di prendere in affitto una piccola casa nello stesso edificio. Del resto non ero più un bambino e la mia presenza sarebbe stata troppo invadente. Lei ovviamente non fu d’accordo, mi disse che non ci sarebbero stati problemi ospitandomi volentieri, ma risposi che ero stufo di farmi lunghe passeggiate in bicicletta. Ridemmo convenendo che al momento fosse la soluzione migliore per entrambi.

Passarono alcuni giorni, ognuno dei due faceva la propria vita e la sera ci vedevamo a cena. Stavo bene e mi piaceva starle vicino, alle volte rimanevo in finestra a gustarmi il panorama e inevitabilmente a guardare i tanti Mario che con fare circospetto guadagnavano la porta e poi la scala della casa di Emma. In quei frangenti mi chiedevo che amore fosse il nostro e come facessi a non impazzire di gelosia, ma fu proprio Emma a smentirmi e darmi indirettamente la risposta. Infatti dopo alcuni giorni con enorme sorpresa mi accorsi che più nessun uomo e a nessuna ora del giorno e della notte varcava quella soglia.

Non ci potevo credere! Aspettai ancora qualche giorno per la conferma, poi un pomeriggio di inverno inoltrato, quando i comignoli iniziavano a sbuffare per riscaldare quelle meravigliose case, di corsa salii le sue scale a quattro a quattro, bussai e col fiato grosso le dissi di getto:
“Mi vuoi sposare?” Lo dissi con la consapevolezza che l’avrei amata anche se non avesse rinunciato al suo lavoro.
“Dici sul serio?” Sgranò gli occhi.
“Credimi, non sto scherzando, Emma.” Risposi portandomi le mani sul cuore.
“Tu sei matto!” Disse scuotendo la testa.
In quell’istante notai in lei un leggero mancamento.
“Che c’è di male o di tanto strano sposare una zia?” Lo dissi per sdrammatizzare la situazione e lei questa volta rise.
“Se mi fossero importate le chiacchiere della gente non avrei mai fatto quello che faccio anche se penso che per le malelingue sposare un nipote è di gran lunga un male peggiore…”
“Appunto, al di là di ogni pregiudizio, tu hai dimostrato di essere una donna libera e per questo motivo mi sono innamorato di te.”
“Ma tu sei sposato!” Disse per prendere fiato e tempo.
“Quello è il problema minore…” Dissi abbracciandola e stringendola forte a me.
Quella sera non cenammo, avevamo altro da mangiare e ci saziammo per tutta la notte. Lei aveva appena compiuto quarantotto anni ed io ne avrei fatti trentatré a breve, ma guardandola in controluce col profilo della luna mi accorsi che quella differenza di età era solo un fattore anagrafico.

Poi si sa, le cose vanno come devono andare, Noemi aveva accettato un lavoro all’estero, sarebbe partita l’estate seguente e mi concesse volentieri il divorzio. Io tornai a Roma solo per sbrigare le mie faccende, decisi di vendere tutto e licenziarmi definitivamente dal lavoro. Con i soldi ricavati dalle vendite aggiunsi alle trecento di Emma altre mille piante di olivo e quel casolare che ci aveva visto pranzare insieme poco fuori dal paese. Mettemmo su una vera e propria azienda agricola, a quel punto davvero avremmo potuto mantenerci con il raccolto e la produzione di vino e verdure. Nel frattempo, quando la madre partì, Andrea venne a vivere con noi. Ero immensamente felice quando lo vedevo giocare sull’aia e correre dietro a Carmine il nostro bastardino e alle tre galline di razza padovana: Nina, Pinta e Santa Maria.
Esattamente dopo due anni e tre mesi sposai Emma in comune, Andrea fu il solo invitato oltre ai due operai dell’azienda che ci fecero da testimoni.
Dopo nove mesi nacque Adele e vivemmo liberi e sereni.



 



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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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 Photo    Kristina Kazarina











 
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