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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Era già passato il mare


 


 
 


Avevo pochi anni e tra le mie gambe era già passato il mare, era passato quel vento sottile che alza le gonne di stoffa leggera ed asciuga le pieghe ancora sgualcite da quell’ignoto piacere che da rossore infantile s’era fatto nel tempo vero bisogno. Non ricordo quale sia stata la ragione, quale il mio istinto quando, all’uscita di scuola, mi fece salire su una macchina scura e senza sapere la strada andò senza fermarsi diritta in pineta, ai bordi di quella ferrovia che m’aveva visto per anni giocare, per anni tappare occhi ed orecchie ad ogni passaggio di treno.

Non ci fu bisogno di dire, senza attende oltre mi prese, mentre il mio cuore batteva curioso per come il mio sesso potesse accettare il proprio opposto, il proprio contrario, nebuloso ed informe nei sogni notturni, nonostante i miei sforzi di dare un contorno, ai dubbi che ogni sera nel letto si facevano reali. Senza parlare mi prese, mi prese tra gli aghi di pino rischiarati di giorno, tra i treni veloci che correvano altrove, e mi prese senza parole, tra le mie voglie che rimasero intatte, come se il suo affanno non mi riguardasse e come se il piacere più volte sognato fosse dietro al prossimo angolo. Tornai a casa delusa con la sola paura che dai miei occhi potesse trasparire il piacere, che non avevo provato, e dalla gonna stropicciata tutto quello che in un attimo mi era successo.

Passò qualche giorno e fu solo questione di ore quando i miei compagni di scuola s’accorsero che ero cambiata, che le mie domande erano diventate d’improvviso risposte e d’improvviso mi sentivo più grande dei cuori trafitti impressi sui diari. Passò qualche minuto soltanto, per convincermi di essere innamorata nella testa e nel sesso, entrambi storditi e ripieni di un immenso segreto, ma senza che il cuore avvertisse un sussulto o le mie mani un leggero tremore. Immancabilmente ogni giorno, finita la lezione lui mi aspettava con il motore acceso lungo la stradina laterale della scuola. Allora lui partiva a razzo e solo allora potevo baciarlo, solo allora accarezzargli il viso, perché l’uomo dalla macchina scura era il mio professore di filosofia, collega di mio padre della stessa scuola.

Senza accorgermi in poco tempo diventai grande, ad immagine e somiglianza dei suoi desideri, convinta che nessun coetaneo avrebbe potuto farmi sentire più donna, e nessuna lezione di filosofia m’avrebbe fatta crescere così in fretta. Ben presto la pineta divenne una stanza d’albergo e la mezz’ora, all’uscita di scuola, un’intera mattina clandestina e proibita che mi riempiva d’orgoglio per il solo sapore d’averla vissuta in segreto. Divenimmo complici, per quanto un’allieva possa esserlo di un adulto professore e comunque non gli chiesi mai l’età, per il timore che ne avesse più di mio padre, e che il tiepido amore che ogni giorno cresceva potesse arrestarsi di fronte al futuro impossibile. Forse cinquanta, forse di più, ed è per questo che non l’ho mai chiamato per nome, perché mai mi sono sentita alla pari, come mai gli ho chiesto quale passato gli avesse riempito tutto quel tempo. Chissà cosa avrei dato al momento, per sapere quante donne avessero saziato i suoi bisogni e quante, altrettante, l’avessero ridotto ad essere unico ai miei occhi.


Forse cinquanta, forse di più… ma ugualmente non sono mai stata capace di oppormi alle sue voglie, mai l’avrei contraddetto, ogni giorno succube delle sue mani e ribelle a tutto il resto, asservita alle sue parole che s’infiltravano decise tra i miei pensieri insicuri e in quella stanza d’albergo di fronte alla scuola indossai le mie prime calze nere con l’aiuto delle sue mani più esperte, ma quella volta, per quanto a suo dire fossi bella, non mi volle sfiorare nemmeno, rifiutando più volte il mio desiderio di corrergli in aiuto. Ci rimasi quasi male, quasi delusa, senza rendermi conto invece di quanta autostima cresceva parallela ai miei anni, e solo in seguito capii il suo amore per la bellezza, il culto della sensualità quando affacciata alla finestra lo sentivo ansimare, lo sentivo sudare per questo mio corpo acerbo.

Mi chiamava Eva in ogni momento che l’occasione consentiva, come per imprimere nome e passione nella sua mente e non scordarmi durante le ore che eravamo distanti. Mi chiamava Eva, Eva, Eva nel momento più bello, quando non aspettavo altro che essere sua, mi ripeteva Eva, come un ossesso, quando ormai plagiata nell’anima assorbivo il suo amore come carta assorbente o, quando trafitta nel cuore e nella mente, speravo che le sue urla di gioia si prolungassero nel tempo, fino ad un attimo prima di scendere le scale o fino a quando mi riaccompagnava in macchina e, poco distante da casa, lo baciavo come fosse un ultimo addio. Ovviamente non capivo perché mi cambiasse nome, mi sembrava buffo e lo accettavo, ma lo compresi più tardi quando capii che quell’amore così singolare andava oltre me, oltre la mia persona.

Amavo quell’uomo come si ama qualcuno quando t’accorgi d’averlo sempre conosciuto, ed io lo conoscevo da sempre, da quando nella culla feci il primo sorriso, da quando bambina lo aspettavo alla porta, da quando più grande di nascosto dai miei gli diedi il primo bacio. Lo conoscevo perché era amico e collega di mio padre, poi a liceo ero capitata casualmente nella stessa sua classe. E già dal terzo liceo si era offerto di darmi lezioni private, e fu un pomeriggio, quando mi spiegò pazientemente il concetto d’origine del mondo per Anassimene, che mi sfiorò il collant, per poi risalire con la mano fino a quella parte del mio corpo che istintivamente già lo invitava, ma lui non andava oltre ed io mi dimenavo contro la sua mano immobile e consapevole che non era ancora quello il momento. Seppe aspettare ancora, seppe aspettare con il motore acceso tutti i miei giorni di scuola finché decise che era finita l’attesa ed io lo pregai di condurmi, senza fermarsi, ai bordi di quella ferrovia dove avrei cominciato un altro gioco senza chiudere occhi ed orecchie al prossimo passaggio di treno.

Mio padre non s’accorse mai di nulla, mentre mia madre cercava di non lasciarci mai soli. Non capivo il suo atteggiamento, in fin dei conti era il mio professore di filosofia che mi stava dando ripetizioni. Ci guardava come si guarda un francobollo dentro una lente d’ingrandimento, ci scrutava ogni volta, quando finita l’ora, cercava nella mia gonna le pieghe sgualcite che lei aveva certamente stirato. Ma non mi importava nulla dei suoi sospetti perché già pensavo che a breve ci saremmo sposati, già i miei sogni s’erano fatti velo bianco e cerimonia dove solo in quel momento avrei svelato il mio grande segreto e confessato a tutti il mio amore per il professore di filosofia, amico di papà. Ma aveva ragione mia madre! Meglio di quanto potessi al tempo immaginare, meglio di mio padre che alle volte, ignaro di tutto, si fermava fino a sera tardi a disquisire con lui d’arte e filosofia.

Guardando gli occhi silenziosi di mia madre capii in quale triste situazione eravamo capitate. Le sue lacrime gelose scorrevano nel bagno e bagnavano i miei trucchi che mi facevano più bella e rivale. Lo scoprii in una mattina di sciopero quando mi bastò infilare le chiavi nella porta di casa e fare quattro passi nel corridoio per vedere nella mia stanza mia madre e il mio professore. Erano in piedi abbracciati, si stavano baciando, lei indossava un paio di calze nere con degli strass che non avevo mai visto. La facevano bella e sensuale, donna come non l’avevo mai vista. Appena li vidi mi prese una specie di collasso, feci fatica a rimanere in piedi, e sorreggendomi feci rumore. A quel punto come ad un preciso segnale l’atteggiamento di mia madre cambiò, iniziò a piangere chiedendo a lui delle risposte alle sue domande, e cioè di essere l’unica donna ad aprirgli il cuore, di essere ancora la sola donna della sua vita. Lui non parlava, poi avvicinando la sua bocca a quella di mia madre, la chiamò Eva! Poi lo disse a voce più alta come se qualcun altro dovesse sentire. Ero incredula, non capivo, mi sembrava un vero incubo, respiravo a malapena per non farmi sentire. Ero distrutta, mi tremavano le gambe, ma rimasi ad ascoltare i lamenti gelosi di mia madre che rivendicava di essere più donna della figlia: “E’ una bambina, cosa ci trovi?” E poi: “Non potrà mai darti quello che ti ho dato io in tutti questi anni.” Ecco quello che non avrei mai voluto sentire! Per un attimo mi ero illusa che la loro storia fosse iniziata in quel momento, che l’affascinante professore fosse soltanto mio e trovandosi in casa con mia madre avesse ceduto alle proprie debolezze. Ma non era così.

Sentii ancora mia madre dire che ero uno ragazzina e che lei non aveva nulla da invidiare. Così dicendo lo baciò avidamente, poi da vera femme fatale si affacciò alla finestra mettendo in mostra il suo corpo morbido e ancora sinuoso e le sue belle gambe ammantate di nero. Lui seduto sul bordo del letto la guardava, non troppo convinto di resistere alla tentazione fatta persona. A quel punto scappai sentendo gli inviti caldi di mia madre, evidentemente decisa a non mollare la preda, scappai per non rientrare mai più in quella casa. Andai da un’amica e solo a sera tardi telefonai per avvertire che avrei dormito fuori. Rispose mia madre e con mia profonda amarezza sentii la sua voce calma e soddisfatta, mi chiamò perfino: “Tesoro”. “Avevano fatto l’amore…” Pensai. Durante la notte piansi per la mia poca esperienza, per come ancora bambina non avevo capito che la realtà non fosse fatta solo di illusioni. Mi rimbombavano in testa le parole di mia madre, intenta ad avere tutto per sé quell’uomo fino al punto di vedermi sotto l’unica luce di donna rivale. Cercai più nella ragione che nel sentimento la mia rabbia, ma dalla mia bocca non uscì alcuna saliva quando il giorno dopo salii sulla macchina scura con il solo scopo di sputargli in faccia odio e disprezzo, ma non uscì nessuna parola che potesse ferirlo quando la sua mano risalì le mie gambe che docili non attesero altro che essere guidate. E non opposi alcuna resistenza quando sottobraccio salimmo le scale di quel paradiso al primo piano.

Bastò varcare la soglia per afferrare il suo piacere e condurlo maestoso nell’oscurità delle mie voglie scomposte, fino a sbaragliare, nel breve tratto in salita, le tante ragioni che solo la mente aveva generato. Uscirono urla dalla mia bocca, ma solo di piacere, solo attimi d’incontenibile follia quando avvertii la netta sensazione che era e sarebbe stato ancora mio. Avrei voluto domandargli a brutto muso quali fossero le differenze tra il mio sesso e quello di mia madre. Non so, più spugnoso, più bagnato, più morbido o comodo, ma non dissi nulla. Ero stupita, sorpresa, cercai invano le ragioni che mi avevano condotto lì, era un essere immondo, per mesi mi aveva tenuto nascosta la sua relazione con mia madre. Non potevo crederci, il mio professore era l’amante di mia madre! Ma era proprio questo il punto. Il mio orgoglio prese il sopravvento. Perché avrei dovuto desistere, rinunciare, recedere? Per quale motivo arrendermi? Lui era mio e non di mia madre! In caso lo era stato! Ora era mio! Del resto non gli avevo mai chiesto nulla del suo passato e chissà quante altre madri e figlie c’erano state nei suoi anni. A quel punto lui mi prese senza respiro, intuiva i miei pensieri, mi disse esattamente cosa stessi pensando e mi prese più forte fino a ricacciare nel mio sesso tutte le convinzioni notturne, le stesse che ora ritenevo insensate, infantili e si disintegravano ad ogni passaggio.

Mi resi conto che non avevo nulla da chiedergli e mentre era dentro di me accennò al giorno prima, ma senza scusarsi di nulla, mi disse solo che si era accorto della mia presenza e mi rimproverò per non aver avuto il coraggio di assistere fino in fondo. “Devi imparare ancora molto da lei!” Poi mi disse che era stato lui a dire a mia madre della nostra relazione e che quell’incontro era stato organizzato, sapendo dello sciopero, per mettermi al corrente. “Le parole a volte non dicono tutto, sai! Ed io volevo che tu ti rendessi conto.” Poi dopo un attimo di pausa, mi disse solennemente guardandomi negli occhi: “Io e lei stiamo insieme da una vita. Tuo padre non si è accorto mai di nulla e noi abbiamo vissuto segretamente una storia di altri tempi, una storia di amanti clandestini e passionali che mai hanno potuto coronare il loro sogno.” Poi mi disse che il giorno prima avevano fatto l’amore e che lui, se non fossi andata via, avrebbe pronunciato davanti a me la parola fine. “Provo ancora un affetto immenso per tua madre, ma lei sta sfiorendo, ci stiamo inaridendo e quando un amore non cresce inevitabilmente muore. La mia paura è che finisca tutto nell’indifferenza ed io non voglio che un grande amore svanisca nell’oblio.” Fece una pausa e poi riprese: “Poi sei arrivata tu, sei cresciuta, e solo il destino poteva farmi questo meraviglioso regalo. Tu le assomigli tanto, sei il proseguimento di un amore, come se il destino avesse deciso che quell’amore non dovesse morire mai. Ovviamente lei non sente ragioni, sarà una lunga agonia, ma già pronta a rinascere in altre forme. Per questo motivo tu dovrai pazientare, per questo amore, unico e vitale che va oltre le persone.”

Non capivo, anzi sì capivo benissimo, capivo che tra loro non era finita, che avrei dovuto lottare ancora tanto, ma capii ancora meglio quando il mio professore tirò fuori dalla tasca quel paio di calze nere con gli strass che avevo visto il giorno prima indosso a mia madre. Non chiesi nulla, come nulla lui a quel punto avrebbe dovuto spiegarmi. Le presi in mano con tanta delicatezza come fossero un oggetto sacro, le annusai sentendo l’odore della pelle di mia madre, poi, seduta sul bordo del letto, le indossai lentamente senza parlare. Mi sentivo diversa, come fossi io, come fossi lei, come fossi unica, come fossi l’erede di un grande impero, ed obbedendo a ciò che non mi aveva chiesto lo baciai avidamente, poi lo invitai con voce calda, come avevo visto e sentito fare a mia madre il giorno prima. Ero pronta a tutto, e tutto successe nel breve attimo di un desiderio. Lentamente mi scostai da lui, spalancai la finestra e affacciata con i gomiti sul davanzale, avvertii chiaramente i suoi occhi guardarmi intensamente, fu quella la prima volta che mi sentii davvero desiderata. Poi lo sentii ad un passo, sentii il suo fiato caldo. Mi prese di nuovo, e mentre il dolore saliva, la nebbia di marzo invase il mio cervello ed avvolse le sue parole che divennero via via straniere ed incomprensibili. Ero caduta in una sorta di incantesimo, contenta di emulare mia madre accettavo quell’uomo, quel sesso, quel dolore e quelle calze fino a credere che niente avrei potuto desiderare di meglio. Mi chiamò Eva, due volte e poi ancora, e in quel preciso istante compresi quel nome, perché ero lei, ero mia madre, ero il tempo che passa e la natura che si rinnova, l’erede di un grande regno, ero la continuazione di una meravigliosa storia, ero la storia infinita, ero l’amore, eterno.



 




Max Eremine


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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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