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Io
pulisco bicchieri, nel retro di un caffè, che poi
non è un caffè, ma un albergo a ore, con le stanze
al primo piano, per chi vuole far l’amore, o chi
stanco dopo un viaggio vuole solo riposare, al
riparo sotto un tetto, come adesso che sta piovendo,
nel centro di questa città, di fronte alla stazione.
Io pulisco bicchieri nel retro di un caffè, che poi
non è un caffè, ma un albergo a ore, ed accolgo
quelle coppie senza poesia, e quando suonano il
campanello fisso sul bancone, asciugo le mie mani e
tolgo il grembiule, e senza nessun trasporto cammino
lentamente, perché ho i miei anni, perché nulla è
mai diverso, e senza guardarli in viso segno i loro
nomi, e trattengo i documenti e scrivo data e ora, e
consegno una chiave, a caso senza preferenza.
E qui ci lavoro da venti anni o poco meno, porto
su il caffè, latte e croissant, e ne ho visti
d’innamorati, d’ogni razza e colore, di uomini
spavaldi e donne di mestiere, ma anche coppie
giovani, timide e discrete, che si avvicinano al
bancone, che si tengono per mano, e portano nei
vestiti, l’odore dei tigli in fiore, il rumore della
pioggia, ma con il sole dentro gli occhi. Chiedono
una stanza, mormorando sottovoce, una qualsiasi,
senza gradimento, perché non fa differenza, avere la
vista sul cortile, oppure sulla strada, oppure la
televisione. Vogliono solo un letto, che sia almeno
caldo, vogliono solo un tetto, al riparo d’altri
occhi, per poi eclissarsi come mai fossero entrati,
per poi scomparire nel buio delle scale.
Ma
quella mattina è stato tutto diverso, li ho visti
arrivare con l’aria spaurita, puliti, educati,
sembravano finti, sembravano fossero due angeli
biondi, e con un filo di voce m’han chiesto una
stanza, e si sono guardati facendosi forza, lui ha
sorriso e lei ha risposto, come fossero cuccioli,
come fossero bimbi, capitati per caso in un posto
per grandi. Gli ho fatto vedere la stanza più
grande, la meno schifosa senza carta strappata, ed
ho messo nel letto i lenzuoli più nuovi, le federe a
fiori e sul comodino una brocca, ed un mazzo di rose
con l’acqua più fresca, e la chiave dorata, la
numero tre! E quando ho chiuso la porta di quel
paradiso, loro m’hanno sorriso accennando ad un
inchino, ed ho visto la luce in quegli angeli
onesti, come se tutto il sole avesse deciso, di
condensare il calore dentro la stanza, sopra quei
corpi ancora distanti, ma le anime candide già tanto
vicine.
Io lavoro al bar di un albergo a ore,
e annoto sempre l’ora perché il prezzo poi cambia,
ma erano passate più di sei ore, da quando i ragazzi
m’avevan chiesto quella chiave, allora sono salito
con il fiato dentro il cuore ed aprendo la porta non
credevo ai miei occhi. Sono rimasto là come un
cretino, quando li ho visti nudi nel letto, che si
tenevano stretti, uniti e tranquilli, e se n'erano
andati in silenzio perfetto, lasciando soltanto i
due corpi nel letto, e lo sguardo fisso verso altre
mattine.
Poi me Ii hanno incartati nei
lenzuoli più bianchi, e l'ultimo viaggio l'han fatto
da soli, né fiori né gente, soltanto un furgone, ma
là dove stanno, staranno benone! Ma sono scoppiato
in un pianto a dirotto come la pioggia che cadeva di
fuori, come se avessi il peccato e la colpa per
averli accolti in quello squallido albergo. Lo so
che non c'entro, però non è giusto, morire a
vent'anni e poi, proprio qui! Perché io lavoro al
bar d'un albergo ad ore, e portò su il caffè a chi
fa l'amore, e di certo sarò anche un cretino, ma da
quel giorno non ho più dato la chiave del tre!
FINE
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