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Le sue origini madame?
Sono nata
a Roma nel 1508, mia madre era Giulia Campana, molto
bella e molto nota nell’alta società di allora.
Nacque da un’unione illegittima vero?
Chi era suo padre?
Non lo so… forse
Luigi d’Aragona, arcivescovo di Palermo, nobile di
sangue reale, nipote del re Alfonso II di Napoli e
cardinale tra i più in vista durante pontificato di
Leone X, ma ufficialmente all’anagrafe risultavo
figlia di Costanzo Palmieri d’Aragona, cugino di
Luigi d’Aragona e con meno problemi di attribuirsi
la paternità.
Dove trascorse la sua
infanzia?
A Roma, poi mi trasferii a
Firenze e poi Siena, ricevendo sempre un'educazione
d’alto lignaggio, raffinata e colta. Appresi l’arte
della seduzione senza tralasciare gli studi, perché
una cortigiana non poteva essere una donna rozza.
Così imparai a scrivere e ad argomentare in latino,
alla pari di un degno letterato, tanto da poter
competere con chiunque del mio tempo.
Perché tornò a Roma?
Mia madre,
intuendo le mie qualità, sia artistiche che
seduttive, mi riportò a Roma. A suo parere un
ambiente più ricco ed elegante e soprattutto pieno
di prospettive per il mestiere che mia madre aveva
in mente per me.
Ed è proprio la
raffinatezza a distinguerla dalle altre sue
colleghe…
Alcuni letterati paragonarono
il mio fascino a quello di Cleopatra. Trasformai la
mia alcova in un raffinato salotto letterario, e non
per vantarmi ebbi moltissimi frequentatori,
soprattutto uomini di cultura e poeti.
Le stava stretto il titolo di cortigiana dei
poeti?
Assolutamente no! Lo adoravo,
nella mia casa si animavano intense discussioni che
vedevano coinvolte personalità come Filippo Strozzi,
il cardinale Ippolito de’ Medici e scrittori alla
stregua di Bernardo Tasso, Giulio Camillo Delminio,
Francesco Maria Molza e Sperone Speroni. Mi
compiacevo di essere la loro musa, ma allo stesso
tempo amavo scrivere.
Si dilettava
anche nella musica vero? “Intrattenevo
gli ospiti accarezzando gl’istrumenti musicali con
dolcezza, e maneggiavo la voce cantando così
soavemente, che i primi professori degli esercizj ne
restavano maravigliati.” (A. Zilioli)
Girolamo Muzio si innamorò perdutamente di
lei…
Mi dedicò numerosi componimenti
poetici.
Lui nei suoi sonetti la
descrive come una donna di rara bellezza, forse
unica…
Molti poeti furono sedotti dalla
mia bellezza. Ero alta di statura, ma sinceramente
non bella. Anche se i miei occhi erano grandi ed
espressivi e avevo i capelli biondi sono certa che
la mia capacità di intrattenere gli ospiti
influenzava di gran lunga il giudizio sul mio
aspetto fisico.
Rimase a Roma fino
al 1531, poi cosa successe?
La mia
dipartita da Roma fu una vera e propria fuga. Avevo
conosciuto nella città eterna un tedesco, un certo
Gianni, uomo deplorevole e ributtante. Innamorato di
me, dietro pagamento di un compenso da far girare la
testa, mi propose di trascorrere insieme una
settimana intera d’amore.
A quanto
ammontava il compenso... se posso?
Cento
scudi a notte! Era una cifra davvero iperbolica ed
io sono sempre stata molto sensibile al denaro per
cui accettai, ma il tedesco era un tipo a dir poco
nauseabondo per cui non riuscii ad andare oltre una
notte.
Immagino che la notizia fece
il giro della città.
Purtroppo sì e
macchiata di infamia fui costretta a partire. Andai
prima a Ferrara e poi a Siena.
Poi
anche un breve periodo a Venezia.
I
versi di Giraldi Cinzio mi avevano letteralmente
amareggiata. Lui mi descrisse esclusivamente come
una prostituta d’alto bordo: “Tullia de l’altre
vuol esser maggiore / E vuol fantesche e paggi e
nane, e sfoggia / E fa con tutti i giovani l’amore.”
Come andò nella Serenissima?
Mi attirava di Venezia la fama di città splendida,
galante e soprattutto tollerante nei confronti delle
cortigiane attorno alle quali scorrevano fiumi di
denaro. Una volta lì mi accorsi che l’offerta
risultava di parecchio superiore alla domanda e la
concorrenza era così forte che non conosceva
esclusione di colpi. Tenga conto che io avevo ormai
trent’anni e le altre cortigiane molto più giovani e
ben agguerrite non erano per niente disposte a farsi
da parte per lasciare spazio a una venuta da fuori.
Quindi non riuscì a primeggiare…
Purtroppo no, pensi che Lorenzo Venier, un poeta
amico dell’Aretino e autore di poemi osceni, stilò
un elenco in versi delle cortigiane, con tanto di
nome e prezzo, ed a me assegnò l’ottavo posto! Lo
considerai un affronto e allora decisi di andare via
da Venezia.
A Siena nel 1543 si sposò
con un certo Silvestro Guicciardini, come mai?
Dovevo tutelarmi dalle severe leggi in materia di
prostituzione. Ero perseguitata dagli Esecutori
Generali di Gabella che mi accusavano di vestire e
portare ornamenti vietati alle meretrici. Una
cortigiana onesta doveva essere maritata!
Nel 1545 la troviamo a Firenze…
In tema d’ispirazione poetica fu il mio periodo
più fecondo. Dedicai a Cosimo I de' Medici, Duca di
Firenze, la mia opera più famosa, il Dialogo
della infinità d'amore. Poi la raccolta delle
Rime di ispirazione petrarchesca, che
dedicai alla duchessa Eleonora di Toledo, moglie di
Cosimo I e mia protettrice. E poi ancora alcuni
sonetti in ottave, un rifacimento del Guerrin
Meschino che tradussi da una edizione spagnola.
Nella vita privata altre difficoltà
immagino…
Il problema è che mi ritenevo
una poetessa, una donna di cultura e dimenticavo
spesso che per gli altri in realtà ero prima di
tutto una cortigiana, o per meglio dire una
meretrice, alla quale non era concesso vestire ed
atteggiarsi da nobildonna. Per obbedire alle leggi
suntuarie dell’epoca ero costretta a indossare il
velo giallo che serviva a distinguermi dalle
gentildonne oneste.
Quindi ripartì
per Roma…
Tornai a Roma sì credendo di
rivivere i fasti della mia giovinezza, andai a
vivere in una meravigliosa casa a Palazzo Carpi nei
pressi della parrocchia di S. Agostino. Purtroppo
nel febbraio del 1547 morì mia sorella Penelope, non
ancora quattordicenne e, subito dopo, mia madre
Giulia.
Ormai a Roma si respirava il
clima della Controriforma…
Già, per me
fu difficile adattarmi, addirittura fui sanzionata
con una tassa proporzionale all’affitto della casa
in cui abitavo. Fui costretta a indossare la
reticella di colore giallo in testa rischiando
umilianti punizioni come capitò alla famosa
cortigiana romana Isabella di Luna, alla quale il
governatore di Roma fece infliggere sulla pubblica
piazza cinquanta frustate sulle natiche nude: uno
spettacolo a cui metà del popolo romano non rinunciò
ad assistere.
Tempi duri…
Avevo problemi economici, fui costretta a lasciare
la mia casa e fissare la mia dimora nel rione
Trastevere, in una casa di poche pretese dell’oste
Matteo Moretti da Parma. La fama di donna “galante”
mi perseguitò ancora non permettendomi di ottenere
fino in fondo il favore del pubblico, il resto lo
fecero le malelingue che continuarono senza
esitazione a chiamarmi “La cortigiana dei Poeti”.
Di certo sappiamo che il 2 marzo del ’56
dettò le sue ultima volontà nel testamento.
Forse
morì lo stesso mese, forse in solitudine, aveva 48
anni, ma non vi è certezza.
Venne sepolta nella
chiesa di S. Agostino a Roma, accanto alla mamma e
alla sorella.
“Era figlia dell'amore e visse
sacra all'amore” (C. Téoli, 1864).
AMORE UN
TEMPO IN COSI' LENTO FOCO
Amore
un tempo in cosí lento foco arse mia vita, e sí colmo
di doglia struggeasi il cor, che qual altro si voglia
martír fora ver lei dolcezza e gioco.
Poscia
sdegno e pietade a poco a poco spenser la fiamma;
ond'io piú ch'altra soglia libera da sí lunga e fiera
voglia giva lieta cantando in ciascun loco.
Ma
il ciel né sazio ancor, lassa, né stanco de' danni
miei, perché sempre sospiri, mi riconduce a la mia
antica sorte:
e con sí acuto spron mi punge il
fianco, ch'io temo sotto i primi empi martiri
cadere, e per men mal bramar la morte.
BEN MI CREDEA
FUGGENDO IL MIO BEL SOLE
Ben mi
credea fuggendo il mio bel sole scemar (misera me) l'
ardente foco con cercar chiari rivi, e starne a l'
ombra ne i più fronzuti e solitarii boschi; ma
quanto più lontan luce il suo raggio tanto più d' or
in or cresce ' l mio vampo.
Chi crederebbe mai
che questo vampo crescesse quanto è più lontan dal
sole? E pur il provo, che quel divin raggio quant'
è più lunge più raddoppia il foco: note nè mi giova
abitar fontane o boschi, ch' al mio mal nulla val,
fresco, onda od ombra.
Ma non cercherò più
fresco, onda od ombra, che ' l mio così cocente e
fero vampo non ponno ammorzar punto fonti o boschi;
ma ben seguirò sempre il mio bel sole, poscia che
nuova salamandra in foco vivo lieta, mercè del divo
raggio.
FIAMMA GENTIL CHE DA
GL' INTERNI LUMI
Fiamma gentil
che da gl' interni lumi con dolce folgorar in me
discendi, mio intenso affetto lietamente prendi,
com' è usanza a tuoi santi costumi;
poi che con
l' alta tue luce m' allumi e sì soavemente il cor m'
accendi, ch' ardendo lieto vive e lo difendi, che
forza di vil foco nol consumi.
E con la lingua
fai che 'l rozo ingegno, caldo dal caldo tuo, cerchi
inalzarsi per cantar tue virtuti in mille parti;
io spero ancor a l' età tarda farsi noto che
fosti tal, che stil più degno uopo era, e che mi fu
gloria l' amarti.
SPIRTO GENTIL, S' AL
GIUSTO VOLER MIO
Spirto gentil,
s' al giusto voler mio non è cortese il cielo e amico
tanto, ch' io possa con ragion lodarvi quanto me
fate, e io far voi spero e desio;
dolgomi del mio
fato acerbo e rio, che ciò mi niega, rivolgendo in
pianto il mio già lieto e dilettoso canto, per cui
fan gli occhi miei sì largo rio.
Ma se fortuna
mai si mostra amica a le mie voglie, non dubito
ancora poter cantarvi tal qual mio cor brama,
e far sentir per questa piaggia aprìca quant' è 'l
valor, ch' in voi mio core onora, piacciavi s' or lo
riverisce e ama.
FELICE SPEME, CH' A
TANT' ALTA IMPRESA
Felice speme,
ch' a tant' alta impresa ergi la mente mia, che ad or
ad ora dietro al santo pensier che la innamora,
sen vola al Ciel per contemplare intesa.
De bei
disir in gentil foco accesa, miro ivi lui, ch' ogni
bell' alma onora, e quel ch' è dentro, e quanto appar
di fora, versa in me gioia senz' alcuna offesa.
Dolce, che mi feristi, aurato strale, dolce, ch'
inacerbir mai non potranno quante amarezze dar puote
aspra sorte;
pro mi sia grande ogni più grave
danno, che del mio ardir per aver merto uguale più
degno guiderdon non è che morte.
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