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GIALLO PASSIONE
 

Anna Bianchini
La Maddalena penitente di Caravaggio
Anna Bianchini, detta “Annuccia”, era una prostituta romana dai capelli rossi e gli occhi tristi. Incontrò Caravaggio all’Osteria del Moro nel 1596 e ben presto divenne la sua musa preferita, posando come Madonna e Maddalena.




 
Era il tardo XVI secolo quando Roma, centro della Cristianità, si risvegliava dal torpore medievale sotto il soffio della Controriforma. La Città Eterna, con i suoi sette colli e le rovine antiche che emergevano come fantasmi dal suolo, pullulava di pellegrini, artisti, nobili e avventurieri attirati dalla grandiosità del papato. Sotto Clemente VIII Aldobrandini, pontefice dal 1592, la Chiesa imponeva una rigida moralità pubblica: crociate contro l'eresia, editti contro il lusso eccessivo e un'ossessione per la purezza dottrinale. Eppure, dietro le facciate barocche in costruzione – come la maestosa Basilica di San Pietro, ancora in fase di completamento sotto Domenico Fontana – Roma era un crogiolo di eccessi e contraddizioni. La popolazione sfiorava i 100.000 abitanti, gonfiata da immigrati da ogni angolo d'Italia: mercanti fiorentini, artigiani milanesi, contadini in fuga dalla miseria delle campagne.

In questo contesto, la prostituzione non era un'ombra nascosta, ma un fenomeno endemico e quasi istituzionalizzato. Le "cortigiane" – termine che oscillava tra l'elegante dama di compagnia e la meretrice di strada – affollavano i vicoli intorno al Tevere, da Trastevere al Campo Marzio. Si stimava che una donna su dieci nella città fosse coinvolta nel mestiere più antico del mondo. Non scandalizzava la Chiesa, purché si rispettassero regole precise: le prostitute dovevano confessarsi solo nelle parrocchie di San Rocco e Sant'Ambrogio, astenersi dal lavoro nei giorni sacri – venerdì per la Passione di Cristo, sabato per la Vergine, e tutte le feste comandate – e pagare una tassa al vicario papale. Era un compromesso ipocrita, tollerato per mantenere l'ordine sociale in una città dove i cardinali intrattenevano amanti e gli artisti cercavano modelle tra le strade. Roma era un bordello a cielo aperto, ma con l'approvazione implicita del potere: le cortigiane onorarie, come la famosa Tullia d'Aragona, erano celebrate in sonetti e ritratti, mentre le umili "puttane da trivio" sopravvivevano nei bassifondi.

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Fu in questo vortice che Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, arrivò a Roma nel 1592 o 1593, in fuga da Milano dopo un omicidio o una rissa. Pittore ribelle, genio tormentato, portava con sé una tecnica rivoluzionaria: il chiaroscuro drammatico, luci taglienti che squarciavano le tenebre, figure reali strappate dalla vita quotidiana. Cercava mecenati tra i cardinali – come Del Monte, suo protettore – e modelle tra le donne del popolo. Tra queste, emerse presto Anna Bianchini, detta "Annuccia", il cui volto etereo e malinconico avrebbe ossessionato le sue tele.

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Anna Bianchini nacque intorno al 1580, probabilmente a Siena o in qualche borgo toscano, figlia di una cortigiana di umili origini. Sua madre, una donna senese di nome Ortensia era migrata a Roma nei primi anni '90 del Cinquecento, attirata dalle opportunità della capitale. La Toscana, terra di artisti e mercanti, sputava fuori le sue figlie povere verso la grande città: fame, debiti, famiglie disfatte. Ortensia arrivò con la piccola Anna al seguito, una bambina di appena dodici anni dagli occhi grandi e i capelli castani, già segnata dal destino della madre.

La vita di Annuccia iniziò presto nel giro della prostituzione, un percorso comune per le orfane o le figlie di "donne perdute". A Roma, le bambine come lei venivano introdotte al mestiere dalle madri o dalle "ruffiane" nei postriboli di Via del Pellegrino o nei vicoli dietro Piazza Navona. Non era raro: la povertà dilagava, e la Chiesa, pur predicando castità, chiudeva un occhio sulle "figlie della colpa". Annuccia crebbe tra lenzuola logore e clienti di passaggio – soldati spagnoli, artigiani, prelati in incognito – imparando a sopravvivere con astuzia e bellezza. Viveva in una stanza angusta a Campo Marzio, il quartiere delle prostitute vicino al Tevere, dove l'aria puzzava di umidità e vino acido. Sua madre, esperta nel sedurre nobili di secondo rango, le insegnò i trucchi del mestiere e come adescare e negoziare.

A quattordici anni, Anna era già una "puttana da candela", quelle che lavoravano di notte alla luce fioca e che stabilivano la durata della prestazione con il consumo della candela. Frequentava le taverne come l'Osteria del Cerriglio. Non era tra le cortigiane illustri, ma una ragazza di strada, con la pelle olivastra e un'espressione di quieta rassegnazione che la rendeva diversa dalle colleghe chiassose. Pagava le tasse alla Curia, andava a messa a San Rocco la domenica, e nei giorni di astinenza forzata – venerdì e sabato – si arrangiava con lavoretti umili, come cucire o pulire case. Non conosceva l'arte, né i pennelli: era solo una delle migliaia di ombre femminili che animavano la Roma notturna, in attesa di un incontro che avrebbe cambiato tutto.

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Fu intorno al 1595-1596, quando Caravaggio, già affermato nei circoli cardinalizi, iniziò a cercare modelle reali per i suoi dipinti religiosi, che i loro percorsi si incrociarono. Caravaggio la notò perché Annuccia era bella, ma di una bellezza che non si piegava alle convenzioni, non la dolcezza angelica delle Madonne di Raffaello, né la sensualità opulenta delle cortigiane celebrate nei sonetti. Era una bellezza cruda, viva, ferita, che colpiva come una lama di luce nel buio. Aveva capelli lunghi e rossi, di quel rosso rame che il sole di Roma accendeva come fuoco liquido quando camminava per i vicoli di Campo Marzio. Non li portava raccolti, ma li lasciava sciolti, selvaggi, spesso arruffati dal vento del Tevere o dalle mani di clienti frettolosi. Gli occhi erano tristi, sì, ma non spenti. Grandi, castano scuro con riflessi verdi, portavano dentro il peso dell’inverno passato al freddo, di troppe notti a guardare il soffitto mentre un uomo faceva i suoi comodi.

Eppure in quello sguardo c’era fuoco: un lampo di sfida, una promessa di ribellione. Quando Caravaggio la vide per la prima volta, fu quello che lo colpì: non la bocca, non il corpo minuto, ma gli occhi che sembravano aver già vissuto tutto. Bassa di statura, poco più di un metro e cinquanta, con ossa sottili e mani callose dal lavoro. Ma guai a sottovalutarla! Ribelle fino al midollo, Annuccia non accettò mai del tutto le regole del suo mondo. Nel 1594, a soli quattordici anni, fu arrestata dagli sbirri papali perché trovata fuori dal quartiere delle prostitute dopo il tramonto. Non era permesso: le "donne di mala vita" dovevano restare confinate a Campo Marzio tra l’Ave Maria e l’alba, pena la frusta o la gogna.

Lei era sgattaiolata fuori per andare a bere in una taverna di Trastevere con un soldato spagnolo. La trovarono ubriaca, con i capelli rossi scompigliati e il vestito strappato, che rideva in faccia al bargello. La chiusero per tre giorni nella prigione di Tor di Nona. Ne uscì con un livido sotto l’occhio e un ghigno più duro. A diciassette anni, nel 1597, i registri di polizia la citano di nuovo: "Anna Bianchini, detta Annuccia, rossa, puttana, frequentatrice di pittori e musici, spesso coinvolta in risse". Era già nota nei circoli degli artisti. Beveva con Onorio Longhi, litigava con Prospero Orsi, e una volta aveva spaccato una brocca in testa a un cliente che non voleva pagare. Vittima di angherie, certo: schiaffi, insulti, minacce di ruffiani e delle altre donne a cui rubava l’osso. Ma non era solo vittima. Sapeva difendersi. Portava un coltellino nascosto nella calza, e una volta lo usò per tagliare la guancia a un uomo che aveva cercato di strozzarla.

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Annuccia frequentava le osterie per la sua attività. Lei cacciava. Entrava nei locali come una gatta randagia: silenziosa, occhi bassi, poi all’improvviso un sorriso, una mano sul braccio di un cliente, una battuta sussurrata all’orecchio. L’Osteria del Moro, a Campo Marzio, era il suo terreno di caccia preferito. Un buco fetido con tavolacci unti, vino acido e un oste che non faceva domande. Lì si radunavano pittori squattrinati, soldati spagnoli, notai ubriachi e ruffiani in cerca di ragazze da scopare o da piazzare.

Era una sera di fine primavera del 1596. L’aria era pesante, piena di fumo di legna e odore di sudore. Annuccia aveva diciassette anni, i capelli rossi legati con un nastro, un vestito verde scuro che le lasciava scoperto il collo e parte del seno. Entrò spingendo la porta con la spalla, il coltellino nella calza, lo sguardo che già valutava la sala. Caravaggio era lì, seduto in un angolo. Venticinque anni, capelli neri arruffati, camicia slacciata, una cicatrice fresca sulla guancia da una rissa di due giorni prima. Beveva come un ossesso, rideva forte, e aveva già rotto un boccale contro il muro perché l’oste gli aveva servito vino annacquato.

I loro sguardi si incrociarono. Lei lo riconobbe subito: "Quel pittore milanese che dipinge puttane come sante", dicevano in giro. Lui la vide e sorrise, un sorriso storto, da lupo. «Rossa.» Gridò. «Vieni qua che ti disegno come la Madonna, ma senza velo!» La sala scoppiò a ridere. Annuccia non batté ciglio. Si avvicinò, lenta, i fianchi che ondeggiavano appena.
«Madonna un cazzo!» Rispose. «Queste tette sono vere, ma tu non le toccherai mai, stronzo.» Silenzio. Poi Caravaggio rise, forte, sbattendo il pugno sul tavolo. «Questa mi piace!» Urlò. «Siediti, offro io.»

Ma non fu così semplice. Lei si sedette, ma solo per rubargli il posto vicino al fuoco. Lui le versò del vino, lei lo bevve e glielo sputò in faccia. «Sa di piscio.» Disse. «Meglio del tuo, puttana.» Ribatté lui. Volò un ceffone. Lei gli graffiò la guancia. Lui la afferrò per i polsi. I compagni li separarono, ridendo. L’oste minacciò di chiamare gli sbirri. Ma in mezzo a quella zuffa, tra insulti, vino versato e capelli tirati, qualcosa scattò. Caravaggio la guardò davvero, per la prima volta. Vide i capelli rossi come fiamme, gli occhi tristi ma vivi, la bocca che insultava, ma tremava appena.
Lei vide un uomo che non aveva paura di lei. Non la trattava come merce. La sfidava. Da quella sera, tornò all’Osteria del Moro ogni giovedì. Non per lavorare, ma per lui. Caravaggio!

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Caravaggio frequentava prostitute. Non era un segreto. Non era nemmeno una vergogna, a Roma. Era la sua vita. Le sue modelle non venivano dalle accademie. Le prendeva dalla strada: Fillide Melandroni, diciassettenne, bionda, arrogante, protetta da Ranuccio Tommasoni. La dipinse come Santa Caterina, con il collo spezzato e lo sguardo fiero. La amò. La picchiò. La perse. Menicuccia, una ragazzina di Trastevere, faccia da angelo e mani da ladra. La usò per i putti. Lena, Maddalena Antonietti, la cortigiana più famosa di Roma. Bella, colta, pericolosa. La dipinse come Maria Maddalena penitente, con lacrime finte e seni veri.

E poi Annuccia. Non la più bella. Non la più famosa. Ma la più sua. Non era uno stinco di santo: il diavolo in camicia. Caravaggio era violento, geniale, autodistruttivo. Denunciato per aver lanciato un piatto in faccia a un cameriere. Arrestato per porto d’arma abusivo, querelato da un pittore rivale per diffamazione. Ma prima di quel sangue, prima della fuga, prima di Ranuccio Tommasoni ci fu Annuccia. Lei lo vide ubriaco, lo vide piangere, lo vide dipingere fino all’alba con le mani sporche di nero. Lui la vide nuda, vestita, arrabbiata, addormentata. La dipinse tre volte.
E ogni volta, lei era lì: nei suoi occhi, nel suo pennello, nel suo letto. L’Osteria del Moro non fu solo un incontro. Fu l’inizio di un amore sporco, vero, impossibile. E Roma, con le sue prostitute, i suoi pittori, i suoi coltelli e le sue messe all’alba, fu il loro palcoscenico.

Caravaggio tornava all’Osteria del Moro con la borsa piena di scudi guadagnati dai cardinali, e Annuccia era lì, pronta a spillarglieli. Una notte di vino, una stanza presa in affitto sopra la taverna, lenzuola umide e odore di candela. Lei lo trattava come gli altri: "Paga prima, pittore". Lui rideva, pagava, e poi la guardava dormire con la luce dell’alba che le accendeva i capelli rossi sul cuscino. Ma poi qualcosa cambiò.
Non fu un momento romantico. Fu una sera di pioggia, quando lei arrivò bagnata fradicia, con un occhio nero regalato da un ruffiano. Caravaggio la vide tremare, non di freddo, ma di rabbia. Le diede il suo mantello. Non disse nulla. Lei lo prese, lo indossò, e per la prima volta non chiese soldi. Da allora, smise di pagarla. Lei smise di chiederli. Diventarono amanti.

Si vedevano nel suo studio in Vicolo dei Santi, tra tele incompiute e odore di trementina. Lui la dipingeva nuda, vestita, addormentata. Lei gli portava pane e formaggio, gli puliva le ferite dopo le risse. Litigavano come cani: lei gli tirava i pennelli, lui le strappava i vestiti. Ma poi si abbracciavano sul pavimento, tra i colori sparsi, facevano l’amore e Roma fuori sembrava lontana.

Ci furono altri incontri. Non più solo di carne, vino e risse. Furono incontri di silenzio, di luce fioca nello studio, di pennelli che sfioravano la pelle senza toccarla. Lei posava per ore, nuda o vestita, su una sedia rotta o su un letto sfatto. Non parlavano molto. Lui mescolava colori. Lei fissava il soffitto. A volte piangeva senza motivo. Lui le asciugava una lacrima con il pollice sporco di nero. Quelle erano le loro carezze.

Caravaggio non cercava una musa eterea, ma una donna vera, con la carne segnata, gli occhi che avevano pianto e riso, i capelli che sapevano di fumo, di strada e di avanzi rappresi di seme maschile. Quando la dipinse nel “Riposo durante la fuga in Egitto”, non la rese dolce: la Vergine ha il suo viso stanco, i capelli rossi che sfuggono dal velo, lo sguardo perso in un pensiero che nessuno può indovinare.
Nella “Marta e Maria Maddalena”, è Marta: le mani grosse, il grembiule sporco, l’espressione di chi ha già perso troppe battaglie ma non si arrende.
E nella “Morte della Vergine”, è lei, distesa sul letto, il volto pallido ma non sereno: gli occhi semichiusi, come se anche nella morte stesse ancora ribellandosi al sonno. Insomma Annuccia non era bella come le statue, era bella come Roma stessa: sporca, viva, indomabile.

Anna in quelle tele era viva, reale, non una santa, ma una donna con le rughe, i lividi e i desideri. Non era una peccatrice da redimere, non rappresentava la perfezione eterea era semplicemente un realismo crudo dove Caravaggio trovava la bellezza. E lui l’amò perché l’amore è anche sporco di vino e sangue.

Anna Bianchini morì nel 1604. Aveva venticinque anni. Non si sa come. Forse una febbre. Forse un aborto andato male. Forse un cliente troppo violento. La trovarono nella sua stanza distesa sul letto, gli occhi chiusi come nella Morte della Vergine. Annuccia non fu mai santa. Ma Caravaggio la rese eterna.





ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
IMMAGINE GENERATA DA IA
 









 
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