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ARTE PASSIONE

Fillide
Melandroni
Il ritratto di cortigiana
Caravaggio era un tipo piuttosto particolare
preferendo bordelli e osterie maleodoranti ai salotti cardinalizi e
quando la vide per strada, intenta ad adescare clienti, si invaghì
di lei

Fillide Melandroni arrivò a
Roma alla fine del 1593, con l’odore acre del Tevere che
già le si appiccicava alle vesti e il cielo grigio di
dicembre che sembrava volerle ricordare quanto lontano
fosse Siena. Fillide era bella, di una bellezza
tagliente come la lama di rasoio e un nome che, a
pronunciarlo in certe osterie di Campo Marzio, faceva
voltare gli uomini prima ancora di vederla. Sua
madre Cinzia, stanca e malata, era morta pochi mesi dopo
l’arrivo, lasciandola sola con il fratello Silvio, un
ragazzo troppo bello per fare il soldato e troppo pigro
per fare altro, e con quella parentela romana che
avrebbe dovuto accoglierli e invece li guardava come
intrusi. La zia Piera, vedova due volte, teneva casa in
vicolo della Pallacorda con il figliastro Nicola, uomo
di quarant’anni che passava le giornate a giocare a
primiera e le notti a bere vino di Frascati finché non
gli si chiudevano gli occhi.
«Senesi!»
Borbottavano i vicini. «Gente che viene a rubare il pane
ai romani.» Così Fillide imparò presto che a Roma non
bastava essere bella, ma bisognava farsi largo. E lei lo
fece, a modo suo. Incontrò Anna Bianchini una sera
d’inverno del 1594, in una bettola dietro piazza Navona
dove il vino era cattivo e gli uomini peggiori.
Annuccia, anche lei senese, anche lei sola, aveva due
anni più di Fillide. Si riconobbero subito, come due
gatte randagie dello stesso branco.
La bettola si
chiamava “Il Gallo zoppo”, un buco fetido, con le pareti
annerite dal fumo e un pavimento di terra battuta che
puzzava di vino versato e di miseria. Fillide entrò
spingendo la porta con la spalla, il mantello di lana
grezza bagnato fino alle ginocchia. Si scrollò la
pioggia dai capelli neri, tagliati corti come quelli di
un ragazzo, e cercò con lo sguardo un posto dove sedersi
senza essere troppo molestata. In fondo alla sala,
vicino al camino spento, una ragazza alzò la testa.
Aveva un viso affilato, zigomi alti, bocca larga.
Indossava un corpetto rosso lacero ma pulito, e teneva
tra le dita un bicchiere di terracotta. I loro sguardi
si incrociarono. Fillide la riconobbe prima ancora di
sentire la voce. «Dio bonino, ma sei tu Anna?» Disse con
quell’accento senese che non si perde mai, nemmeno a
Roma. «Vieni qua, che sembri un cane bastonato.» Fillide
sorrise di sbieco, attraversò la sala e si sedette di
fronte a lei. «Annuccia Bianchini!» Disse piano, come
assaporando il nome. «Ti credevo morta di sifilide o di
coltello.» Anna rise. «Ci sono andata vicino tutte e
due le volte. E tu?» «Beh anche io muoio e resuscito
ogni volta…»
Fillide bevve un sorso. Il vino era
acido, bruciava. «Cosa proponi?» Anna sorrise. «Propongo
che ci mettiamo insieme. Tu sei bella come il peccato,
io so parlare con i signori e con gli sbirri. Insieme
possiamo farci rispettare. E se serve, abbiamo tutte e
due il coltello facile.» Fillide la guardò a lungo.
Sentiva il freddo che le usciva dalle ossa, piano piano.
«Due gatte dello stesso vicolo.» Disse alla fine.
«Esatto.» rispose Anna, e le prese la mano sopra il
tavolo, stringendola forte. Le sue dita erano calde,
callose, vive. «Da stasera non sei più sola, Fillide. E
guai a chi ci tocca.» Fuori, la pioggia continuava a
cadere su Roma, ma dentro il Gallo zoppo, per la prima
volta dopo tanto tempo, due donne senesi avevano trovato
una sorella. E quella notte nacque un’alleanza che
avrebbe fatto tremare mezza Trastevere.
Non si
separarono più. Di giorno giravano per le botteghe del
rione Regola: sarti che promettevano vestiti in cambio
di una carezza sotto il bancone, macellai che regalavano
pezzi di carne purché Fillide si lasciasse andare un po’
sul tavolo tra le interiora, osti che allungavano il
vino annacquato se Annuccia si sedeva sulle loro
ginocchia.
Di sera, quando la città si accendeva
di torce e di peccati, capitava che qualche pittore le
notasse: un giovane, affamato di bellezza o vecchio
maestro in cerca di modelle che non chiedessero troppo.
«Sei una Maddalena perfetta.» Le disse una volta un tale
con la barba rossa e le mani sporche di colore, mentre
le faceva posare discinta in uno studio che puzzava di
sudore. Fillide rise, si tirò su la camicia e gli chiese
se la Maddalena pentita pagava l’affitto con le lacrime
o con altro.
Roma, in quegli anni, era un grande
corpo malato: il papa Clemente VIII stringeva le maglie
della morale, gli sbirri giravano con la corda in mano,
ma sotto la superficie ribolliva tutto ciò che la Chiesa
voleva soffocare. Nelle strade di Campo Marzio, tra
palazzi nobili e tuguri, le cortigiane si muovevano come
regine decadute, i cardinali nascondevano amanti nei
conventi, gli artisti dipingevano sante con i volti
delle prostitute che avevano nel letto la notte prima. E
Fillide, con i suoi capelli neri che sembravano
inchiostro versato, imparò a camminare su quel filo teso
tra luce e ombra. Non era ancora la donna che avrebbe
fatto perdere la testa a Caravaggio, non ancora quella
che avrebbe posato per la Morte della Vergine con il
ventre gonfio e i piedi sporchi di fango. Era solo una
ragazza di Siena che aveva capito, prima di molte altre,
che a Roma sopravvivi solo se impari a vendere ciò che
tutti vogliono comprare.
E insieme ad Anna venne
sorpresa di notte a battere oltre la zona consentita e
insieme ad Anna conobbe la puzza di muffa, piscio e
paura nelle prigioni di Tor di Nona. Fillide e Anna
vennero spinte in una cella con altre dieci donne; due
dormivano per terra, una cantava piano una canzone
oscena, un’altra si grattava le pulci fino a sanguinare.
Il bargello, un omone con la faccia butterata,
lesse ad alta voce il rapporto: «Donna Filidia d’Enea
senese, meretrice, sorpresa di notte con Anna Bianchini
anch’essa senese e due soldati spagnoli, in luogo
interdetto». Fillide alzò il mento. «Non eravamo a
battere, signore. Stavamo solo tornando a casa.»
«Casa vostra è il bordello, puttana.» Rispose lui, e le
diede uno schiaffo che le spaccò il labbro. Passarono
tre giorni. Tre giorni di pane duro e acqua fetida, di
urla dalle celle accanto, di mani che toccavano tutto
ciò che c’era da toccare. Il quarto giorno arrivò un
avvocato pagato da chissà chi, si disse poi da un
capitano spagnolo innamorato di Annuccia, e le due
senesi uscirono con la multa di dieci scudi e l’obbligo
di presentarsi ogni domenica alla parrocchia di San
Lorenzo in Lucina per «ricevere instruzione morale».
Due anni dopo, tra il 1596 e il 1597, Fillide prese
casa in via Serena, una stradina stretta e buia che oggi
è via Belsiana, dietro piazza di Spagna. La locanda si
chiamava “dell’Orso” ma tutti la chiamavano “la Tana”.
Era un covo di soldati napoletani, di mercenari tedeschi
che aspettavano di imbarcarsi per le Fiandre, di
giocatori di carte, di ruffiani. Le stanze si
affittavano a ore o a settimane, e il padrone chiudeva
un occhio su tutto purché arrivasse il denaro.
Fillide prese una camera al secondo piano, con una
finestra che dava sul tetto del vicino convento delle
Convertite. Pagava sette giuli al mese, una cifra che
sembrava sempre troppo alta e sempre troppo bassa per
ciò che offriva: un letto sfondato, un catino incrinato,
topi che la notte le camminavano sui piedi. Lì cercava
di costruirsi una vita che non fosse solo carne venduta
al miglior offerente. Cuciva camicie per i soldati,
lavava panni nel cortile, a volte aiutava nella locanda
a servire vino. Ma la notte, quando i tamburi dei
soldati risuonavano per le strade e il vino scorreva,
finiva sempre che qualcuno bussava alla sua porta.
«Fillide, apri, bella, ho tre scudi e tanta voglia.»
E lei apriva. Perché tre scudi erano il pane per una
settimana, perché Silvio, il fratello, si era messo con
una compagnia di commedianti e mandava notizie solo
quando aveva bisogno di soldi, perché la zia Piera era
morta di febbre e suo figlio Nicola aveva venduto la
casa per pagare i debiti di gioco. Però qualcosa dentro
di lei si muoveva. Cominciò a mettere da parte qualche
soldo in un barattolo nascosto sotto una mattonella.
Sognava una stanza tutta sua, magari a Campo Marzio,
vicino alle sue colleghe più fortunate, con un letto
decente e una porta che si chiudesse davvero. Sognava di
non dover più sorridere a chi le faceva schifo.
Fillide aveva anche capito che a Roma servivae un nome
che facesse paura e un coltello pronto sotto la veste.
Così, un mattino di primavera del 1598, si presentò da
sola alla porta dei fratelli Tomassoni, in una casa
grande e scura dietro piazza San Lorenzo in Lucina, e
chiese udienza. I Tomassoni non erano nobili, ma quasi.
Capitani di ventura, spadaccini, bravacci al soldo di
cardinali e di principi. Chi voleva una ragazza «pulita»
per un monsignore o per un ambasciatore passava da loro.
Avevano la benedizione di qualcuno molto in alto in
Vaticano, si sussurrava del nipote del Papa, e quindi
nessuno osava toccare le loro protette.
Ranuccio, il più giovane dei quattro, era diverso. Non
portava quasi mai la spada, aveva le mani curate e un
sorriso lento che faceva perdere la testa. Fu lui ad
accoglierla. «Allora sei tu la senese che fa impazzire
mezza Roma.»
Fillide lo fissò dritto negli occhi.
«Sono io quella che non vuole più dormire con i topi. Se
mi prendete sotto la vostra ala, vi porto clienti che
pagano in scudi d’oro, non in promesse.» Ranuccio
rise, le prese il mento tra due dita. «Affare fatto,
Fillide. Ma ricordati: qui il padrone sono io.» E così
fu. In poche settimane la sua vita cambiò come per
incanto. Addio locanda dell’Orso, addio soldati
ubriachi, addio tre giuli raggranellati a fatica. I
Tomassoni le trovarono una casa decente in borgo,
proprio vicino alla chiesa di San Lorenzo in Lucina: due
stanze al primo piano, soffitto alto, balconcino sulla
via. Assunse persino una servetta marchigiana di
quattordici anni, Menicuccia, che scopava, cucinava e
teneva la bocca chiusa.
Ranuccio divenne il suo
protettore ufficiale. E qualcosa di più. Di notte
dormiva da lei tre, quattro volte la settimana. Le
portava nastri di seta, profumi di Venezia, una collana
di perle false ma così ben fatte che sembravano vere.
Fillide era innamorata persa: gelosa come una sposa,
possessiva come una lupa. Quando Ranuccio spariva per
giorni, lei si pettinava davanti allo specchio per ore
in attesa del suo ritorno.
Poi però, una sera
d’agosto dello stesso anno, lo sorprese. Era andata a
portare un messaggio a Prudenza Zacchia, una cortigiana
più grande di lei, bionda, grassoccia, famosa per le sue
«feste» private in una casa dietro il Corso. Trovò la
porta socchiusa, sentì ridere, entrò. E lì vide Ranuccio
mezzo svestito sul letto, Prudenza sopra di lui che gli
donava le sue tette generose.
Qualcosa si ruppe
dentro Fillide come vetro calpestato. Prese il coltello
che portava sempre legato alla coscia, un piccolo
pugnale senese con il manico d’avorio, e si avventò
sulla rivale. Prudenza urlò, cercò di ripararsi con il
braccio sinistro: la lama le aprì il polso fino
all’osso. Poi Fillide la buttò per terra, le fu sopra,
la colpì con pugni, ginocchiate, graffi. Ci vollero due
servi per strapparla via.
Più tardi, quando gli
sbirri la cercarono, Fillide era affacciata alla
finestra di casa sua, i capelli sciolti, il viso ancora
rosso di rabbia. Prudenza, giù in strada, si teneva il
braccio fasciato e piangeva. Fillide si sporse e gridò
forte, perché tutta la via sentisse: «Ah, poltrona
bagascia! Io t’ho ferito nella mano, ma ti volevo
cogliere in faccia! State sicura che la prossima volta
non sbaglio mira, brutta troia!» Ranuccio quella notte
non venne. Mandò solo un biglietto: «Calmati, Fillide. È
solo carne. Domani parliamo». Lei bruciò il biglietto
nel fuoco, poi si sedette sul letto, si strinse le
ginocchia al petto e pianse come non aveva mai pianto da
quando era morta sua madre. Ma dentro di lei, sotto le
lacrime, qualcosa di duro e freddo si era ormai formato
per sempre. “A Roma, anche l’amore costa sangue.” Pensò.
E lei aveva appena imparato a farlo pagare caro.
Primavera del 1597. Caravaggio aveva venticinque
anni, la barba ancora corta, gli occhi pieni di febbre e
di fame. Viveva in casa del cardinal Del Monte, ma
passava più tempo per le strade che nei palazzi. Gli
piaceva camminare tra la gente bassa, fiutare l’odore
del vino, del sudore, della vita vera. Una sera di
aprile, verso il tramonto, passava per via della
Pallacorda diretto all’osteria del Moro. Fillide era lì,
appoggiata allo stipite di un portone, con un vestito
rosso scuro slacciato quel tanto che bastava. Non
gridava, non faceva cenni volgari, aveva solo
un’espressione triste da donna tradita. Caravaggio si
fermò di colpo. Lei lo guardò, inclinò appena la testa.
«Messere guardare costa!» Disse. Lui rise.
«Guardo gratis. Pagare viene dopo.» Fillide lo squadrò:
camicia sporca di colore, mani nere di carbone, occhi
che sembravano bruciargli dentro. Non era un soldato,
non era un monsignore, non era nemmeno un mercante
ricco. Era qualcosa di diverso. E a lei piaceva il
diverso. «Allora guarda bene.» Disse, e si scostò i
capelli dal collo con un gesto lento. Lui se ne andò, ma
qualche sera mentre Fiillide era in casa e stirava una
camicia alla luce di una candela, sentì bussare piano.
Non il solito colpo da ubriaco. Aprì e si trovò davanti
un uomo magro, con la barba lunga e gli occhi
febbricitanti, che teneva in mano un carboncino e un
foglio.
«Cerco Fillide, la senese più bella di
Roma», disse. Lei rise, stanca. «Te l’ho già detto,
messere, anche guardare costa.» Lui scosse la testa.
«Voglio dipingerti. Mi chiamo Michelangelo Merisi. E tu
hai la faccia di Santa Caterina quando le tagliano la
testa.» Fillide lo guardò a lungo. Poi chiuse la porta
alle sue spalle, si tolse la camicia e si sedette sul
letto, nuda e fiera come una regina in esilio. Era
l’inizio di tutto. E la fine di molte cose. Lui tirò
fuori il carboncino e iniziò a disegnarla di spalle.
«Stai ferma.» «Che fai?» «Ti rubo l’anima. Ma te
la restituisco dipinta.» Fillide rise, ma rimase
immobile. Quella notte lei gli raccontò di Siena, del
padre morto, della madre portata via dalla tosse. Lui le
parlò della Lombardia, di un paese dove i preti lo
avevano picchiato perché dipingeva troppo bene i santi.
Risero insieme, cosa rara per entrambi.
Nei
giorni successivi Caravaggio tornò. Poi tornò ancora.
Non sempre con i soldi: a volte con una bottiglia di
greco, a volte solo con la voglia di stare seduto sul
letto a guardarla mentre si pettinava. Qualche
giorno dopo le portò un ramoscello di pesco fiorito,
preso chissà dove. «Domani vieni nel mio studio a
palazzo Madama. Ti voglio dipingere come sei davvero.»
«Nuda?» Chiese lei, maliziosa. «No. Vestita. Ma come
se sotto non avessi niente.»
Così, il giorno
dopo nacque il primo ritratto. Lui la dipinse seduta su
una sedia impagliata, con il busto eretto, il corpetto
di velluto cremisi stretto in vita da un nastro d’oro.
Sul seno, due fiori bianchi appena infilati nella
scollatura, come un’offerta e una sfida insieme. I
capelli neri, folti, sciolti sulle spalle. Il viso
leggermente girato, lo sguardo profondo, lontano: non
guarda lo spettatore, guarda dentro qualcosa che solo
lei vede. Le labbra sono socchiuse, come se stesse per
dire una parola che poi ha deciso di tenere per sé.
Caravaggio lavorò in silenzio, con la luce che
entrava obliqua dalla finestra alta. Ogni tanto si
fermava, la fissava, imprecava sottovoce. «Dio, quanto
sei bella quando non fai la puttana.» Fillide sorrise
senza voltarsi. «Sono sempre la stessa, Michelangelo.
Sei tu che oggi mi vuoi santa.» Quando il quadro “Marta
e Maddalena” fu finito, Caravaggio lo tenne per sé
qualche giorno. Poi lo portò al cardinal Del Monte, che
lo guardò a lungo e disse solo: «Questa donna ha il
diavolo negli occhi e la Madonna nel collo». Fillide non
lo vide mai appeso in nessuna chiesa. Ma da quel giorno,
ogni volta che passava davanti a uno specchio, si
riconosceva appena un po’ di più. E Caravaggio tornò a
cercarla, non più solo come cliente, ma come uomo che
aveva trovato la sua luce più vera nella donna più
oscura di Roma.
Primavera del 1604. Fillide
aveva trent’anni, un’età in cui la maggior parte delle
cortigiane di Roma era già sfiorita, sposata a un oste o
morta di sifilide. Lei invece era ancora bellissima, ma
in un modo diverso: più dura, più scavata, con una
pancia che cominciava appena a gonfiarsi di un bambino
che non avrebbe mai saputo di chi fosse. Caravaggio la
trovò una mattina di aprile che camminava lenta lungo il
Tevere, con un mantello nero buttato sulle spalle per
nascondere il ventre. «Mi serve una Vergine morta.» Le
disse senza preamboli. Fillide rise. «Finalmente un
ruolo che mi si addice.»
La dipinse nella
stanzaccia di vicolo dei Santi Cecilia e Biagio. La fece
sdraiare su un tavolo coperto da un drappo rosso scuro,
le braccia abbandonate lungo i fianchi, le mani gonfie,
i piedi nudi e sporchi di fango come se avesse camminato
a lungo prima di morire. Il vestito era semplice, di
tela grezza, bagnato sul ventre e sulle cosce: si vedeva
chiaramente che era una donna incinta. Il volto era il
suo, ma più pallido, più stanco, con le labbra socchiuse
e gli occhi semichiusi che sembravano guardare verso
qualcosa che nessuno di noi vedrà mai. Intorno, gli
apostoli in piedi, curvi, disperati. Uno solo, il
giovane Giovanni, piangeva come un bambino. La Maddalena
era seduta in primo piano, la testa china sulle
ginocchia, i capelli rossi che le coprivano il viso: era
Anna Bianchini, la sua vecchia amica senese, ormai anche
lei invecchiata e malata.
Quando la tela fu
finita, Caravaggio la portò ai Carmelitani Scalzi per la
loro nuova chiesa di Santa Maria della Scala al Corso.
La cappella era già pagata dal giurista Laerzio
Cherubini: mille scudi, una cifra enorme. I frati la
videro e impallidirono. «Questa non è la Beata Vergine!»
gridò il priore. «Questa è una puttana gonfia, con i
piedi sporchi e il ventre di una bagascia! È un
oltraggio, un sacrilegio!» Si riunirono in capitolo.
Discussero per giorni. Alla fine rifiutarono il dipinto
«Con poco decoro ritratto in persona di Nostra Donna una
meretrice sozza degli Ortacci».
La voce corse
per tutta Roma: Caravaggio aveva messo una cortigiana
morta al posto della Madre di Dio. Pochi mesi dopo, il
grande Giubileo di papa Clemente VIII era passato da un
lustro, ma la città si preparava a un nuovo afflusso di
pellegrini, il governatore di Roma ordinò un censimento
di tutte le prostitute «scandalose» che potevano turbare
la devozione dei forestieri. Nel registro del parroco di
San Lorenzo in Lucina, sotto la data del 24 dicembre
1604, comparve la scritta seguente: «Filida, corteggiana
scandalosa, anni XXX, senese, abita in questa
parrocchia, nota per posare nuda a pittori et per essere
stata ritratta morta nella tavola della Madonna
rifiutata dai Carmelitani della Scala.»
Fillide
lesse quelle parole un giorno che era andata a messa con
Ranuccio. Rise forte, in mezzo alla chiesa, finché il
sagrestano non la prese per un braccio e la mise fuori.
Tornata a casa, si guardò nello specchio. Il ventre era
ormai evidente. Accarezzò la tela tesa della veste.
«Scandalosa!» Ripeté piano. «Hanno ragione. Sono la
Vergine più scandalosa che Roma abbia mai avuto.» La
tela della Morte della Vergine fu venduta in fretta e in
segreto al duca di Mantova. Partì per il Nord avvolta in
un panno, come una reliquia proibita. Fillide non la
rivide mai più, ma a Roma, per anni, quando qualcuno
voleva offendere una donna, diceva: «Hai la faccia della
Madonna di Caravaggio». E tutti sapevano chi era.
Roma 1606. Caravaggio continuava a dipingerla, e
Ranuccio Tommasoni, il suo protettore, la considerava
una miniera d’oro e si faceva pagare caro per ogni
seduta come fosse una prestazione amorosa. Ma in quelle
sedute Caravaggio la trattava da amante e Fillide già da
tempo lo guardava con occhi diversi, non per i soldi, ma
per qualcosa di più profondo. Quando Tommasoni lo venne
a sapere, impazzì.
Quel 28 maggio 1606 a Campo
Marzio, scoppiò una zuffa, vicino alla Chiesa di San
Luigi dei Francesi. Non fu un duello formale. Fu una
rissa da strada: insulti, spinte, coltelli. Tommasoni
aveva tre amici. Caravaggio era con Onorio Longhi.
Fillide guardava da lontano. Tommasoni colpì per primo:
un pugno in faccia a Caravaggio. Lui rispose con un
calcio poi sguainò la spada. Non mirò al cuore, ma alla
sua virilità. Un colpo secco, basso, tra le gambe.
L’arteria femorale fu recisa. Il sangue schizzò sul
selciato come vino rosso. Tommasoni urlò, si portò le
mani all’inguine, crollò. Morì in meno di un minuto,
dissanguato, con gli occhi spalancati sul cielo di Roma.
Caravaggio fuggì. Fillide per un po’ di tempo sparì
dalla faccia della terra.
Roma 1607 Fillide,
dopo quel letargo, durato quasi un anno, cambiò vita,
non come nelle favole, non con un anello al dito, ma con
la stessa ostinazione con cui aveva imparato a
sopravvivere. Dopo lo scandalo della Morte della
Vergine, dopo il fattaccio, dopo la morte di Ranuccio e
dopo l’ennesima gravidanza, il bambino nacque e morì
pochi mesi dopo, qualcosa dentro di lei si ruppe
davvero. Non era più la rabbia di prima: era
stanchezza. Una stanchezza antica, che le veniva dal
fondo dell’anima. Un giorno mentre pioveva forte entrò
nella chiesa di Santa Maria del Popolo per ripararsi.
Rimase lì, seduta su una panca, a guardare le donne
della Confraternita della Carità che distribuivano pane
e coperte ai poveri. Una di loro, una vedova con il viso
gentile, le mise in mano una ciotola di minestra calda.
Fillide la prese senza dire grazie.
Poi tornò il
giorno dopo. E quello dopo ancora. Cominciò a dare una
mano. Prima portava solo la sua forza: sollevava sacchi,
puliva pavimenti. Poi ci mise il cuore. Imparò i nomi
dei malati, dei bambini abbandonati, delle ragazze che
erano state quello che lei era stata. Nessuno le chiese
chi fosse stata prima. A Roma, quando fai la carità, il
passato diventa un po’ più leggero. In pochi mesi la
«cortigiana scandalosa» era diventata «Madonna Filidia
della Carità». Le dame la salutavano per strada, i preti
le chiedevano consiglio, i poveri la benedicevano.
E i soldi, quelli veri, cominciarono ad arrivare:
offerte, lasciti, protezione di nobili che volevano
pulirsi la coscienza. Nel 1605 si trasferì in una bella
casa in via Paulina, oggi via del Babuino, verso via
Margutta, tre stanze, balcone, cucina con camino. Adottò
un bambino trovato sulla ruota di Santo Spirito, gli
mise nome Enea come suo padre. Aveva un servitore,
Ottavio, un ragazzo umbro taciturno e fedele, e prese in
casa una giovane cortigiana, Geronima Ortensia, più per
salvarla che per sfruttarla.
Fu in quel periodo
che rivide Giulio Strozzi. Si erano conosciuti nel 1603,
in casa di Caravaggio. Giulio, ventitré anni, magro, con
gli occhi azzurri da veneziano e la voce bassa dei
poeti, era rimasto folgorato. Non da una cortigiana, ma
da Fillide: quella che rideva forte, che bestemmiava in
toscano, che sapeva citare Petrarca e poi sputare per
terra. Tempo prima aveva commissionato un ritratto a
Caravaggio e lui la dipinse come Santa Caterina
d’Alessandria, con la ruota spezzata ai piedi e lo
sguardo fiero, quasi di sfida. Era il modo di Giulio per
dire al mondo: «Questa è la mia donna, e non mi
vergogno». Per nove anni vissero insieme, senza sposarsi
(non potevano), ma come marito e moglie.
Lui
scriveva poesie, lei gestiva la casa, lui portava a casa
gli amici dell’Accademia degli Umoristi. Andavano a
messa insieme a San Lorenzo in Lucina, seduti nello
stesso banco. Lei aveva quarant’anni, lui trentotto, e
si tenevano per mano sotto il mantello come due
ragazzini. Poi arrivarono i parenti di lui, ricchi,
potenti, scandalizzati. «Un bastardo può fare quello che
vuole, ma non può sposare una puttana.» Andarono da
Paolo V. Il papa, che pure aveva altre gatte da pelare,
firmò l’ordine: Fillide doveva lasciare Roma entro tre
giorni, «pena il carcere perpetuo». Partì in una
carrozza chiusa, sola, verso Siena. Giulio la seguì fino
a Viterbo, pianse come un bambino, le promise che
avrebbe sistemato tutto. Non ci riuscì.
Due anni
dopo, nel 1617, Fillide tornò a Roma di nascosto.
Malata, consumata da un male che non perdona, ma non
trovò più Giulio. Lui era partito per Venezia.
Fillide morì la mattina del 3 luglio 1618, nella sua
vecchia casa di via Frattina. Aveva cinquantadue anni
portati male e vissuti tutti.
Nel testamento
lasciò scritto: «Voglio essere sepolta nella chiesa di
San Lorenzo in Lucina, dalla parte della navata destra,
sotto la pietra dove batte il sole al tramonto. Senza
lapide. Solo il mio nome: Fillide.» I frati eseguirono.
Seppellirono proprio in quel posto la senese che arrivò
a Roma con niente, che vendette il corpo per comprare il
pane, che posò per la Vergine morta, e che alla fine,
con le sue sole mani, si è costruita un posto dove
essere ricordata. Non come cortigiana. Non come
peccatrice. Solo come Fillide.
|

ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
Laura Corchia
http://restaurars.altervista.org/
http://www.lastampa.it/
http://www.cultorweb.com/ Fiora
Bellini
http://www.treccani.it/
https://it.wikipedia.org/wiki/
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