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ARTE PASSIONE
 

Fillide Melandroni
Il ritratto di cortigiana
Caravaggio era un tipo piuttosto particolare preferendo bordelli e osterie maleodoranti ai salotti cardinalizi e quando la vide per strada, intenta ad adescare clienti, si invaghì di lei





 
Fillide Melandroni arrivò a Roma alla fine del 1593, con l’odore acre del Tevere che già le si appiccicava alle vesti e il cielo grigio di dicembre che sembrava volerle ricordare quanto lontano fosse Siena. Fillide era bella, di una bellezza tagliente come la lama di rasoio e un nome che, a pronunciarlo in certe osterie di Campo Marzio, faceva voltare gli uomini prima ancora di vederla.
Sua madre Cinzia, stanca e malata, era morta pochi mesi dopo l’arrivo, lasciandola sola con il fratello Silvio, un ragazzo troppo bello per fare il soldato e troppo pigro per fare altro, e con quella parentela romana che avrebbe dovuto accoglierli e invece li guardava come intrusi. La zia Piera, vedova due volte, teneva casa in vicolo della Pallacorda con il figliastro Nicola, uomo di quarant’anni che passava le giornate a giocare a primiera e le notti a bere vino di Frascati finché non gli si chiudevano gli occhi.

«Senesi!» Borbottavano i vicini. «Gente che viene a rubare il pane ai romani.» Così Fillide imparò presto che a Roma non bastava essere bella, ma bisognava farsi largo. E lei lo fece, a modo suo. Incontrò Anna Bianchini una sera d’inverno del 1594, in una bettola dietro piazza Navona dove il vino era cattivo e gli uomini peggiori. Annuccia, anche lei senese, anche lei sola, aveva due anni più di Fillide. Si riconobbero subito, come due gatte randagie dello stesso branco.

La bettola si chiamava “Il Gallo zoppo”, un buco fetido, con le pareti annerite dal fumo e un pavimento di terra battuta che puzzava di vino versato e di miseria. Fillide entrò spingendo la porta con la spalla, il mantello di lana grezza bagnato fino alle ginocchia. Si scrollò la pioggia dai capelli neri, tagliati corti come quelli di un ragazzo, e cercò con lo sguardo un posto dove sedersi senza essere troppo molestata. In fondo alla sala, vicino al camino spento, una ragazza alzò la testa. Aveva un viso affilato, zigomi alti, bocca larga. Indossava un corpetto rosso lacero ma pulito, e teneva tra le dita un bicchiere di terracotta. I loro sguardi si incrociarono.
Fillide la riconobbe prima ancora di sentire la voce. «Dio bonino, ma sei tu Anna?» Disse con quell’accento senese che non si perde mai, nemmeno a Roma. «Vieni qua, che sembri un cane bastonato.» Fillide sorrise di sbieco, attraversò la sala e si sedette di fronte a lei. «Annuccia Bianchini!» Disse piano, come assaporando il nome. «Ti credevo morta di sifilide o di coltello.»
Anna rise. «Ci sono andata vicino tutte e due le volte. E tu?»
«Beh anche io muoio e resuscito ogni volta…»

Fillide bevve un sorso. Il vino era acido, bruciava. «Cosa proponi?» Anna sorrise. «Propongo che ci mettiamo insieme. Tu sei bella come il peccato, io so parlare con i signori e con gli sbirri. Insieme possiamo farci rispettare. E se serve, abbiamo tutte e due il coltello facile.» Fillide la guardò a lungo. Sentiva il freddo che le usciva dalle ossa, piano piano. «Due gatte dello stesso vicolo.» Disse alla fine. «Esatto.» rispose Anna, e le prese la mano sopra il tavolo, stringendola forte. Le sue dita erano calde, callose, vive. «Da stasera non sei più sola, Fillide. E guai a chi ci tocca.» Fuori, la pioggia continuava a cadere su Roma, ma dentro il Gallo zoppo, per la prima volta dopo tanto tempo, due donne senesi avevano trovato una sorella. E quella notte nacque un’alleanza che avrebbe fatto tremare mezza Trastevere.

Non si separarono più. Di giorno giravano per le botteghe del rione Regola: sarti che promettevano vestiti in cambio di una carezza sotto il bancone, macellai che regalavano pezzi di carne purché Fillide si lasciasse andare un po’ sul tavolo tra le interiora, osti che allungavano il vino annacquato se Annuccia si sedeva sulle loro ginocchia.

Di sera, quando la città si accendeva di torce e di peccati, capitava che qualche pittore le notasse: un giovane, affamato di bellezza o vecchio maestro in cerca di modelle che non chiedessero troppo. «Sei una Maddalena perfetta.» Le disse una volta un tale con la barba rossa e le mani sporche di colore, mentre le faceva posare discinta in uno studio che puzzava di sudore. Fillide rise, si tirò su la camicia e gli chiese se la Maddalena pentita pagava l’affitto con le lacrime o con altro.

Roma, in quegli anni, era un grande corpo malato: il papa Clemente VIII stringeva le maglie della morale, gli sbirri giravano con la corda in mano, ma sotto la superficie ribolliva tutto ciò che la Chiesa voleva soffocare. Nelle strade di Campo Marzio, tra palazzi nobili e tuguri, le cortigiane si muovevano come regine decadute, i cardinali nascondevano amanti nei conventi, gli artisti dipingevano sante con i volti delle prostitute che avevano nel letto la notte prima. E Fillide, con i suoi capelli neri che sembravano inchiostro versato, imparò a camminare su quel filo teso tra luce e ombra. Non era ancora la donna che avrebbe fatto perdere la testa a Caravaggio, non ancora quella che avrebbe posato per la Morte della Vergine con il ventre gonfio e i piedi sporchi di fango. Era solo una ragazza di Siena che aveva capito, prima di molte altre, che a Roma sopravvivi solo se impari a vendere ciò che tutti vogliono comprare.

E insieme ad Anna venne sorpresa di notte a battere oltre la zona consentita e insieme ad Anna conobbe la puzza di muffa, piscio e paura nelle prigioni di Tor di Nona. Fillide e Anna vennero spinte in una cella con altre dieci donne; due dormivano per terra, una cantava piano una canzone oscena, un’altra si grattava le pulci fino a sanguinare.

Il bargello, un omone con la faccia butterata, lesse ad alta voce il rapporto: «Donna Filidia d’Enea senese, meretrice, sorpresa di notte con Anna Bianchini anch’essa senese e due soldati spagnoli, in luogo interdetto». Fillide alzò il mento. «Non eravamo a battere, signore. Stavamo solo tornando a casa.»
«Casa vostra è il bordello, puttana.» Rispose lui, e le diede uno schiaffo che le spaccò il labbro. Passarono tre giorni. Tre giorni di pane duro e acqua fetida, di urla dalle celle accanto, di mani che toccavano tutto ciò che c’era da toccare. Il quarto giorno arrivò un avvocato pagato da chissà chi, si disse poi da un capitano spagnolo innamorato di Annuccia, e le due senesi uscirono con la multa di dieci scudi e l’obbligo di presentarsi ogni domenica alla parrocchia di San Lorenzo in Lucina per «ricevere instruzione morale».

Due anni dopo, tra il 1596 e il 1597, Fillide prese casa in via Serena, una stradina stretta e buia che oggi è via Belsiana, dietro piazza di Spagna. La locanda si chiamava “dell’Orso” ma tutti la chiamavano “la Tana”. Era un covo di soldati napoletani, di mercenari tedeschi che aspettavano di imbarcarsi per le Fiandre, di giocatori di carte, di ruffiani. Le stanze si affittavano a ore o a settimane, e il padrone chiudeva un occhio su tutto purché arrivasse il denaro.

Fillide prese una camera al secondo piano, con una finestra che dava sul tetto del vicino convento delle Convertite. Pagava sette giuli al mese, una cifra che sembrava sempre troppo alta e sempre troppo bassa per ciò che offriva: un letto sfondato, un catino incrinato, topi che la notte le camminavano sui piedi. Lì cercava di costruirsi una vita che non fosse solo carne venduta al miglior offerente. Cuciva camicie per i soldati, lavava panni nel cortile, a volte aiutava nella locanda a servire vino. Ma la notte, quando i tamburi dei soldati risuonavano per le strade e il vino scorreva, finiva sempre che qualcuno bussava alla sua porta. «Fillide, apri, bella, ho tre scudi e tanta voglia.»

E lei apriva. Perché tre scudi erano il pane per una settimana, perché Silvio, il fratello, si era messo con una compagnia di commedianti e mandava notizie solo quando aveva bisogno di soldi, perché la zia Piera era morta di febbre e suo figlio Nicola aveva venduto la casa per pagare i debiti di gioco. Però qualcosa dentro di lei si muoveva. Cominciò a mettere da parte qualche soldo in un barattolo nascosto sotto una mattonella. Sognava una stanza tutta sua, magari a Campo Marzio, vicino alle sue colleghe più fortunate, con un letto decente e una porta che si chiudesse davvero. Sognava di non dover più sorridere a chi le faceva schifo.

Fillide aveva anche capito che a Roma servivae un nome che facesse paura e un coltello pronto sotto la veste. Così, un mattino di primavera del 1598, si presentò da sola alla porta dei fratelli Tomassoni, in una casa grande e scura dietro piazza San Lorenzo in Lucina, e chiese udienza. I Tomassoni non erano nobili, ma quasi. Capitani di ventura, spadaccini, bravacci al soldo di cardinali e di principi. Chi voleva una ragazza «pulita» per un monsignore o per un ambasciatore passava da loro. Avevano la benedizione di qualcuno molto in alto in Vaticano, si sussurrava del nipote del Papa, e quindi nessuno osava toccare le loro protette.

Ranuccio, il più giovane dei quattro, era diverso. Non portava quasi mai la spada, aveva le mani curate e un sorriso lento che faceva perdere la testa. Fu lui ad accoglierla. «Allora sei tu la senese che fa impazzire mezza Roma.»

Fillide lo fissò dritto negli occhi. «Sono io quella che non vuole più dormire con i topi. Se mi prendete sotto la vostra ala, vi porto clienti che pagano in scudi d’oro, non in promesse.»
Ranuccio rise, le prese il mento tra due dita. «Affare fatto, Fillide. Ma ricordati: qui il padrone sono io.» E così fu. In poche settimane la sua vita cambiò come per incanto. Addio locanda dell’Orso, addio soldati ubriachi, addio tre giuli raggranellati a fatica. I Tomassoni le trovarono una casa decente in borgo, proprio vicino alla chiesa di San Lorenzo in Lucina: due stanze al primo piano, soffitto alto, balconcino sulla via. Assunse persino una servetta marchigiana di quattordici anni, Menicuccia, che scopava, cucinava e teneva la bocca chiusa.

Ranuccio divenne il suo protettore ufficiale. E qualcosa di più. Di notte dormiva da lei tre, quattro volte la settimana. Le portava nastri di seta, profumi di Venezia, una collana di perle false ma così ben fatte che sembravano vere. Fillide era innamorata persa: gelosa come una sposa, possessiva come una lupa. Quando Ranuccio spariva per giorni, lei si pettinava davanti allo specchio per ore in attesa del suo ritorno.

Poi però, una sera d’agosto dello stesso anno, lo sorprese. Era andata a portare un messaggio a Prudenza Zacchia, una cortigiana più grande di lei, bionda, grassoccia, famosa per le sue «feste» private in una casa dietro il Corso. Trovò la porta socchiusa, sentì ridere, entrò. E lì vide Ranuccio mezzo svestito sul letto, Prudenza sopra di lui che gli donava le sue tette generose.

Qualcosa si ruppe dentro Fillide come vetro calpestato. Prese il coltello che portava sempre legato alla coscia, un piccolo pugnale senese con il manico d’avorio, e si avventò sulla rivale. Prudenza urlò, cercò di ripararsi con il braccio sinistro: la lama le aprì il polso fino all’osso. Poi Fillide la buttò per terra, le fu sopra, la colpì con pugni, ginocchiate, graffi. Ci vollero due servi per strapparla via.

Più tardi, quando gli sbirri la cercarono, Fillide era affacciata alla finestra di casa sua, i capelli sciolti, il viso ancora rosso di rabbia. Prudenza, giù in strada, si teneva il braccio fasciato e piangeva. Fillide si sporse e gridò forte, perché tutta la via sentisse: «Ah, poltrona bagascia! Io t’ho ferito nella mano, ma ti volevo cogliere in faccia! State sicura che la prossima volta non sbaglio mira, brutta troia!» Ranuccio quella notte non venne. Mandò solo un biglietto: «Calmati, Fillide. È solo carne. Domani parliamo». Lei bruciò il biglietto nel fuoco, poi si sedette sul letto, si strinse le ginocchia al petto e pianse come non aveva mai pianto da quando era morta sua madre. Ma dentro di lei, sotto le lacrime, qualcosa di duro e freddo si era ormai formato per sempre. “A Roma, anche l’amore costa sangue.” Pensò. E lei aveva appena imparato a farlo pagare caro.

Primavera del 1597.
Caravaggio aveva venticinque anni, la barba ancora corta, gli occhi pieni di febbre e di fame. Viveva in casa del cardinal Del Monte, ma passava più tempo per le strade che nei palazzi. Gli piaceva camminare tra la gente bassa, fiutare l’odore del vino, del sudore, della vita vera.
Una sera di aprile, verso il tramonto, passava per via della Pallacorda diretto all’osteria del Moro. Fillide era lì, appoggiata allo stipite di un portone, con un vestito rosso scuro slacciato quel tanto che bastava. Non gridava, non faceva cenni volgari, aveva solo un’espressione triste da donna tradita. Caravaggio si fermò di colpo. Lei lo guardò, inclinò appena la testa.

«Messere guardare costa!» Disse. Lui rise. «Guardo gratis. Pagare viene dopo.» Fillide lo squadrò: camicia sporca di colore, mani nere di carbone, occhi che sembravano bruciargli dentro. Non era un soldato, non era un monsignore, non era nemmeno un mercante ricco. Era qualcosa di diverso. E a lei piaceva il diverso. «Allora guarda bene.» Disse, e si scostò i capelli dal collo con un gesto lento. Lui se ne andò, ma qualche sera mentre Fiillide era in casa e stirava una camicia alla luce di una candela, sentì bussare piano. Non il solito colpo da ubriaco. Aprì e si trovò davanti un uomo magro, con la barba lunga e gli occhi febbricitanti, che teneva in mano un carboncino e un foglio.

«Cerco Fillide, la senese più bella di Roma», disse. Lei rise, stanca. «Te l’ho già detto, messere, anche guardare costa.» Lui scosse la testa. «Voglio dipingerti. Mi chiamo Michelangelo Merisi. E tu hai la faccia di Santa Caterina quando le tagliano la testa.» Fillide lo guardò a lungo. Poi chiuse la porta alle sue spalle, si tolse la camicia e si sedette sul letto, nuda e fiera come una regina in esilio. Era l’inizio di tutto. E la fine di molte cose.
Lui tirò fuori il carboncino e iniziò a disegnarla di spalle.
«Stai ferma.»
«Che fai?»
«Ti rubo l’anima. Ma te la restituisco dipinta.» Fillide rise, ma rimase immobile.
Quella notte lei gli raccontò di Siena, del padre morto, della madre portata via dalla tosse. Lui le parlò della Lombardia, di un paese dove i preti lo avevano picchiato perché dipingeva troppo bene i santi. Risero insieme, cosa rara per entrambi.

Nei giorni successivi Caravaggio tornò. Poi tornò ancora. Non sempre con i soldi: a volte con una bottiglia di greco, a volte solo con la voglia di stare seduto sul letto a guardarla mentre si pettinava.
Qualche giorno dopo le portò un ramoscello di pesco fiorito, preso chissà dove. «Domani vieni nel mio studio a palazzo Madama. Ti voglio dipingere come sei davvero.»
«Nuda?» Chiese lei, maliziosa.
«No. Vestita. Ma come se sotto non avessi niente.»

Così, il giorno dopo nacque il primo ritratto. Lui la dipinse seduta su una sedia impagliata, con il busto eretto, il corpetto di velluto cremisi stretto in vita da un nastro d’oro. Sul seno, due fiori bianchi appena infilati nella scollatura, come un’offerta e una sfida insieme. I capelli neri, folti, sciolti sulle spalle. Il viso leggermente girato, lo sguardo profondo, lontano: non guarda lo spettatore, guarda dentro qualcosa che solo lei vede. Le labbra sono socchiuse, come se stesse per dire una parola che poi ha deciso di tenere per sé.

Caravaggio lavorò in silenzio, con la luce che entrava obliqua dalla finestra alta. Ogni tanto si fermava, la fissava, imprecava sottovoce. «Dio, quanto sei bella quando non fai la puttana.» Fillide sorrise senza voltarsi. «Sono sempre la stessa, Michelangelo. Sei tu che oggi mi vuoi santa.» Quando il quadro “Marta e Maddalena” fu finito, Caravaggio lo tenne per sé qualche giorno. Poi lo portò al cardinal Del Monte, che lo guardò a lungo e disse solo: «Questa donna ha il diavolo negli occhi e la Madonna nel collo». Fillide non lo vide mai appeso in nessuna chiesa. Ma da quel giorno, ogni volta che passava davanti a uno specchio, si riconosceva appena un po’ di più. E Caravaggio tornò a cercarla, non più solo come cliente, ma come uomo che aveva trovato la sua luce più vera nella donna più oscura di Roma.

Primavera del 1604.
Fillide aveva trent’anni, un’età in cui la maggior parte delle cortigiane di Roma era già sfiorita, sposata a un oste o morta di sifilide. Lei invece era ancora bellissima, ma in un modo diverso: più dura, più scavata, con una pancia che cominciava appena a gonfiarsi di un bambino che non avrebbe mai saputo di chi fosse. Caravaggio la trovò una mattina di aprile che camminava lenta lungo il Tevere, con un mantello nero buttato sulle spalle per nascondere il ventre. «Mi serve una Vergine morta.» Le disse senza preamboli. Fillide rise. «Finalmente un ruolo che mi si addice.»

La dipinse nella stanzaccia di vicolo dei Santi Cecilia e Biagio. La fece sdraiare su un tavolo coperto da un drappo rosso scuro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le mani gonfie, i piedi nudi e sporchi di fango come se avesse camminato a lungo prima di morire. Il vestito era semplice, di tela grezza, bagnato sul ventre e sulle cosce: si vedeva chiaramente che era una donna incinta. Il volto era il suo, ma più pallido, più stanco, con le labbra socchiuse e gli occhi semichiusi che sembravano guardare verso qualcosa che nessuno di noi vedrà mai. Intorno, gli apostoli in piedi, curvi, disperati. Uno solo, il giovane Giovanni, piangeva come un bambino. La Maddalena era seduta in primo piano, la testa china sulle ginocchia, i capelli rossi che le coprivano il viso: era Anna Bianchini, la sua vecchia amica senese, ormai anche lei invecchiata e malata.

Quando la tela fu finita, Caravaggio la portò ai Carmelitani Scalzi per la loro nuova chiesa di Santa Maria della Scala al Corso. La cappella era già pagata dal giurista Laerzio Cherubini: mille scudi, una cifra enorme. I frati la videro e impallidirono. «Questa non è la Beata Vergine!» gridò il priore. «Questa è una puttana gonfia, con i piedi sporchi e il ventre di una bagascia! È un oltraggio, un sacrilegio!» Si riunirono in capitolo. Discussero per giorni. Alla fine rifiutarono il dipinto «Con poco decoro ritratto in persona di Nostra Donna una meretrice sozza degli Ortacci».

La voce corse per tutta Roma: Caravaggio aveva messo una cortigiana morta al posto della Madre di Dio. Pochi mesi dopo, il grande Giubileo di papa Clemente VIII era passato da un lustro, ma la città si preparava a un nuovo afflusso di pellegrini, il governatore di Roma ordinò un censimento di tutte le prostitute «scandalose» che potevano turbare la devozione dei forestieri. Nel registro del parroco di San Lorenzo in Lucina, sotto la data del 24 dicembre 1604, comparve la scritta seguente: «Filida, corteggiana scandalosa, anni XXX, senese, abita in questa parrocchia, nota per posare nuda a pittori et per essere stata ritratta morta nella tavola della Madonna rifiutata dai Carmelitani della Scala.»

Fillide lesse quelle parole un giorno che era andata a messa con Ranuccio. Rise forte, in mezzo alla chiesa, finché il sagrestano non la prese per un braccio e la mise fuori. Tornata a casa, si guardò nello specchio. Il ventre era ormai evidente. Accarezzò la tela tesa della veste. «Scandalosa!» Ripeté piano. «Hanno ragione. Sono la Vergine più scandalosa che Roma abbia mai avuto.»
La tela della Morte della Vergine fu venduta in fretta e in segreto al duca di Mantova. Partì per il Nord avvolta in un panno, come una reliquia proibita. Fillide non la rivide mai più, ma a Roma, per anni, quando qualcuno voleva offendere una donna, diceva: «Hai la faccia della Madonna di Caravaggio». E tutti sapevano chi era.

Roma 1606.
Caravaggio continuava a dipingerla, e Ranuccio Tommasoni, il suo protettore, la considerava una miniera d’oro e si faceva pagare caro per ogni seduta come fosse una prestazione amorosa. Ma in quelle sedute Caravaggio la trattava da amante e Fillide già da tempo lo guardava con occhi diversi, non per i soldi, ma per qualcosa di più profondo. Quando Tommasoni lo venne a sapere, impazzì.

Quel 28 maggio 1606 a Campo Marzio, scoppiò una zuffa, vicino alla Chiesa di San Luigi dei Francesi. Non fu un duello formale. Fu una rissa da strada: insulti, spinte, coltelli. Tommasoni aveva tre amici. Caravaggio era con Onorio Longhi. Fillide guardava da lontano. Tommasoni colpì per primo: un pugno in faccia a Caravaggio. Lui rispose con un calcio poi sguainò la spada. Non mirò al cuore, ma alla sua virilità. Un colpo secco, basso, tra le gambe. L’arteria femorale fu recisa. Il sangue schizzò sul selciato come vino rosso.
Tommasoni urlò, si portò le mani all’inguine, crollò. Morì in meno di un minuto, dissanguato, con gli occhi spalancati sul cielo di Roma. Caravaggio fuggì. Fillide per un po’ di tempo sparì dalla faccia della terra.

Roma 1607
Fillide, dopo quel letargo, durato quasi un anno, cambiò vita, non come nelle favole, non con un anello al dito, ma con la stessa ostinazione con cui aveva imparato a sopravvivere. Dopo lo scandalo della Morte della Vergine, dopo il fattaccio, dopo la morte di Ranuccio e dopo l’ennesima gravidanza, il bambino nacque e morì pochi mesi dopo, qualcosa dentro di lei si ruppe davvero.
Non era più la rabbia di prima: era stanchezza. Una stanchezza antica, che le veniva dal fondo dell’anima. Un giorno mentre pioveva forte entrò nella chiesa di Santa Maria del Popolo per ripararsi. Rimase lì, seduta su una panca, a guardare le donne della Confraternita della Carità che distribuivano pane e coperte ai poveri. Una di loro, una vedova con il viso gentile, le mise in mano una ciotola di minestra calda. Fillide la prese senza dire grazie.

Poi tornò il giorno dopo. E quello dopo ancora. Cominciò a dare una mano. Prima portava solo la sua forza: sollevava sacchi, puliva pavimenti. Poi ci mise il cuore. Imparò i nomi dei malati, dei bambini abbandonati, delle ragazze che erano state quello che lei era stata. Nessuno le chiese chi fosse stata prima. A Roma, quando fai la carità, il passato diventa un po’ più leggero. In pochi mesi la «cortigiana scandalosa» era diventata «Madonna Filidia della Carità». Le dame la salutavano per strada, i preti le chiedevano consiglio, i poveri la benedicevano.

E i soldi, quelli veri, cominciarono ad arrivare: offerte, lasciti, protezione di nobili che volevano pulirsi la coscienza. Nel 1605 si trasferì in una bella casa in via Paulina, oggi via del Babuino, verso via Margutta, tre stanze, balcone, cucina con camino. Adottò un bambino trovato sulla ruota di Santo Spirito, gli mise nome Enea come suo padre. Aveva un servitore, Ottavio, un ragazzo umbro taciturno e fedele, e prese in casa una giovane cortigiana, Geronima Ortensia, più per salvarla che per sfruttarla.

Fu in quel periodo che rivide Giulio Strozzi. Si erano conosciuti nel 1603, in casa di Caravaggio. Giulio, ventitré anni, magro, con gli occhi azzurri da veneziano e la voce bassa dei poeti, era rimasto folgorato. Non da una cortigiana, ma da Fillide: quella che rideva forte, che bestemmiava in toscano, che sapeva citare Petrarca e poi sputare per terra. Tempo prima aveva commissionato un ritratto a Caravaggio e lui la dipinse come Santa Caterina d’Alessandria, con la ruota spezzata ai piedi e lo sguardo fiero, quasi di sfida. Era il modo di Giulio per dire al mondo: «Questa è la mia donna, e non mi vergogno». Per nove anni vissero insieme, senza sposarsi (non potevano), ma come marito e moglie.

Lui scriveva poesie, lei gestiva la casa, lui portava a casa gli amici dell’Accademia degli Umoristi. Andavano a messa insieme a San Lorenzo in Lucina, seduti nello stesso banco. Lei aveva quarant’anni, lui trentotto, e si tenevano per mano sotto il mantello come due ragazzini. Poi arrivarono i parenti di lui, ricchi, potenti, scandalizzati. «Un bastardo può fare quello che vuole, ma non può sposare una puttana.» Andarono da Paolo V. Il papa, che pure aveva altre gatte da pelare, firmò l’ordine: Fillide doveva lasciare Roma entro tre giorni, «pena il carcere perpetuo». Partì in una carrozza chiusa, sola, verso Siena. Giulio la seguì fino a Viterbo, pianse come un bambino, le promise che avrebbe sistemato tutto. Non ci riuscì.

Due anni dopo, nel 1617, Fillide tornò a Roma di nascosto. Malata, consumata da un male che non perdona, ma non trovò più Giulio. Lui era partito per Venezia.
Fillide morì la mattina del 3 luglio 1618, nella sua vecchia casa di via Frattina. Aveva cinquantadue anni portati male e vissuti tutti.

Nel testamento lasciò scritto: «Voglio essere sepolta nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, dalla parte della navata destra, sotto la pietra dove batte il sole al tramonto. Senza lapide. Solo il mio nome: Fillide.» I frati eseguirono. Seppellirono proprio in quel posto la senese che arrivò a Roma con niente, che vendette il corpo per comprare il pane, che posò per la Vergine morta, e che alla fine, con le sue sole mani, si è costruita un posto dove essere ricordata. Non come cortigiana. Non come peccatrice. Solo come Fillide.



ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
Laura Corchia http://restaurars.altervista.org/
http://www.lastampa.it/
http://www.cultorweb.com/
Fiora Bellini http://www.treccani.it/
https://it.wikipedia.org/wiki/
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