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						Adamo Bencivenga 
						
                    			
								
								
								
								
								
								Senti che pioggia che scende 
                                
								 
								
								
								
  
                                
                                
			  
			
			   
			
 
  
			
				
					
      				    
      
                            
                            
			
			
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						.Senti di fuori che pioggia che scende, senti sui vetri il vento che 
      sbatte, la sensazione che al cuore sale e ci prende e s’avviluppa e lo 
      imbraca come un ventre materno, lo brucia, lo scalda e lo buca lì in 
      mezzo, come se avessi altro calore da offrire, come se avessi altre gambe 
      da dare, oltre a quelle che ora spartisco e t’accolgo, nell’infinita 
      ricerca di non sentirmi mai vuota. 
       
      Senti l’odore d’asfalto che sale, senti il rumore che s’accosta alla 
      pioggia, di grondaie insicure che si lasciano andare, di persiane che 
      chiudono il freddo di fuori, di gatte inzuppate tra le tegole storte che 
      s’accovacciano al caldo dei tubi dell’acqua. Senti che suono c’è dentro il 
      mio cuore, senti che seno l’abbellisce di fuori, lascia che le mani 
      galleggino al tatto ed invisibili dita compongano scie, su queste pieghe 
      di seta che porgo al riflesso e le altre giù in basso scoperchiate al 
      bisogno, che aspettano schiuse rigagnoli e gore, come un pozzo all’aperto 
      dove non cola che acqua. 
       
      Senti che pioggia scende di fuori, senti che suono di gocce accordate, di 
      mute sartie pizzicate dell’arpa, di cavi e gomene mosse dal vento e 
      rilasciano un canto che insieme d’intesa mi cattura la voglia e mi gonfia 
      le labbra, mi lascia l’arsura d’arida attesa come terra crepata alla fine 
      di agosto. Senti il silenzio che cola sui vetri, senti il mio mare dentro 
      questa conchiglia ed annegami dentro il desiderio mai vinto, perché io sia 
      il bisogno e tu l’abbondanza, perché io sia pane e tu il mio frumento, il 
      dovere sopito di nutrire il mio corpo, mentre da sola mi stancavo le gambe 
      nel vuoto d’assenza che riempiva il mio giorno. 
       
      Senti che tuono rimbomba di fuori, senti il silenzio del seno che t’offro, 
      catturami i fremiti con le labbra e la bocca e scendi ti prego dove 
      l’odore s’addensa, perché io sia il buio che mi fa bella ai tuoi occhi e 
      sovrana dell’alba che riluce dai vetri. Ti prego spartisci quest’anima in 
      fiamme, cercami l’essenza dove non esiste ricordo, dove gli occhi 
      s’annebbiano e non rimane che amore, a giustificarmi le gambe che spalanco 
      scomposte, a misurare la voglia che negli anni ho disperso. 
       
      Senti che lampi ci colorano lilla, senti la pioggia che scola dai tetti… 
      Ti prego rimani e lasciati andare, ti prego rimani e non uscire in tempo, 
      perché ora ti sento e manca un nonnulla, e non conosco altra notte per 
      sentirmi più pronta, non conosco altra pioggia per fecondarci la terra... 
                            
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						Il racconto è frutto di 
		fantasia.  Ogni riferimento a persone e fatti  realmente accaduti 
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