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RACCONTI
 
Adamo Bencivenga
SCALO A BANGKOK
Una donna lascia Roma all’alba, sotto la pioggia, con una valigia leggera e un piano segreto. Attraversa aeroporti, voli lunghi e fusi orari, inseguendo la promessa di un’isola lontana. Ogni passo la porta più vicino a chi l’aspetta, mentre a casa il silenzio inizia a fare rumore...




Mattina presto, fuori piove a dirotto, nuvole basse a grappoli e un velo grigio avvolge la città. Mio marito è ancora in bagno, il rumore dell'acqua che scorre mi arriva attutito attraverso la porta chiusa. Mi fermo davanti allo specchio del corridoio, le mani che tremano appena mentre mi sistemo il cappotto. Sono pronta. O almeno, è quello che mi ripeto.
Controllo le ultime cose in valigia: il profumo che mi ha regalato lui l'anno scorso, quel flacone di vetro con l'etichetta dorata; un libro preso a caso dalla libreria, per ingannare le ore in volo; e oddio, la vestaglia nera! La infilo in fretta tra i vestiti, il tessuto setoso che scivola come un segreto.

I documenti ci sono tutti: passaporto, biglietti, la carta d'imbarco stampata due volte, per sicurezza. Apro il passaporto, guardo la foto, io, due anni fa, con i capelli più corti e un sorriso che ora mi sembra estraneo. Mi guardo allo specchio: gli occhi arrossati dalla notte insonne, le labbra pallide. Rido, una risata nervosa che riecheggia nel silenzio della casa. Il biglietto aereo è nella tasca interna della giacca, lo tocco con le dita per rassicurarmi. Mio marito è ancora in bagno. Esco.

Chiudo la porta piano, senza voltarmi. La chiave gira nella serratura, come un punto fermo a una frase che non voglio più rileggere. Fuori piove ancora, una pioggia fine e insistente che bagna l'asfalto e fa luccicare i marciapiedi vuoti. È domenica mattina, l'ora in cui la città dorme sonni pesanti. Nessuno in strada: solo io, i miei tacchi che risuonano sul selciato bagnato come colpi di pistola lontani. Clac-clac-clac. Ogni passo un'eco che mi segue, mi incalza. La valigia non è troppo pesante , ma le ruote sussultano sulle pozzanghere, schizzando gocce fredde sulle calze. Forse avrei dovuto mettere un paio di scarpe più comode, penso, mentre un rivolo d'acqua mi scivola lungo la caviglia. Ma no, questi tacchi sono parte del piano: eleganti, decisi, come se stessi andando a un appuntamento galante invece che... beh, invece che a sparire.

Cerco di ricordare, riavvio il filo dei pensieri in questa nebbia di pioggia e adrenalina. Non credo di essermi dimenticata nulla. Il telefono è spento, buttato in fondo alla borsa – niente chiamate, niente tracce. Ho lasciato un biglietto sul tavolo della cucina: "Devo stare sola per un po'. Non preoccuparti."

Solo due chilometri a piedi fino alla stazione dei taxi, poi l'aeroporto. Due chilometri per cancellare anni di routine, di colazioni condivise e serate sul divano. Il cuore mi batte forte, un tamburo sotto la pioggia, e per un momento mi fermo sotto l'ombrello nero, ascolto il mondo che si sveglia piano. Un cane abbaia in lontananza, un'auto passa sfiorando una pozzanghera. Riprendo a camminare, più veloce ora. La valigia rotola obbediente, i tacchi scandiscono il ritmo di una nuova vita. Non torno indietro. Non posso. L'aereo decolla tra tre ore, e con lui, io.

La pioggia non smette, ma ora sono al riparo sotto il portone di Gloria, quel vecchio portone di legno scrostato con l’odore di muffa e caffè. Gloria non c’è. Tiro fuori il cellulare, le dita bagnate che scivolano sullo schermo. Chiamo il 3570. “Via Gela, civico 81.” La voce metallica risponde: “Tre minuti. Livorno 23.” Aspetto, appoggiata al muro, il cappotto che si impregna di umidità. Mi accendo una sigaretta, non dovrei, lo so. Avevo smesso da mesi, con la promessa solenne davanti allo specchio del bagno, ma le buone intenzioni sono durate poco meno di una settimana. Il fumo mi brucia la gola, mi scalda le mani, e per un istante mi sento di nuovo padrona di me stessa.

Ecco Livorno 23: una Fiat bianca con il logo del taxi che lampeggia come un faro nella pioggia. Il taxista è gentile, un uomo di mezza età con la barba grigia e un accento romano morbido. Scende, mi prende la valigia senza chiedere, la sistema nel bagagliaio con un gesto esperto. Spengo la sigaretta sul travertino del marciapiede,. Salgo sul sedile posteriore, l’odore di pelle bagnata e deodorante per auto mi avvolge. “Aeroporto di Fiumicino.” Parte subito, le ruote che schizzano via dall’asfalto lucido.

“Che tempo!” dice, rompendo il silenzio. “Già, che pioggia!” rispondo, la voce più ferma di quanto mi aspettassi. Mi guarda dallo specchietto retrovisore, gli occhi curiosi ma non invadenti. “Spero che sia diretta in qualche paese caldo.” Sorrido, un sorriso tirato che non arriva agli occhi, e non dico nulla. Non ancora. “È lontano l’aeroporto?” Chiedo, per cambiare discorso. “Venti minuti, con questo traffico zero.”

Guardo fuori dal finestrino, le gocce che scivolano veloci sul vetro come lacrime che non sono mie. Sono contenta. È quasi fatta. La Roma-Fiumicino scorre via, un nastro grigio di asfalto e cartelli luminosi: Eur, Magliana, Ponte Galeria. Piove ancora, ma non c’è traffico! Domenica mattina, la città svuotata, come se il mondo intero avesse deciso di lasciarmi passare. Le luci dei lampioni ancora accese riflettono sull’asfalto. Il taxista accende la radio piano, una canzone di Battisti che riempie l’abitacolo con la sua malinconia dolce. Non parlo più. Chiudo gli occhi per un secondo, sento il motore che ronza costante, il tergicristallo che batte il tempo. Tra poco sarò al check-in, poi al gate, poi in cielo. Lontano da lui, dalla casa, dalla vita che ho lasciato chiusa a chiave. Il cuore rallenta, finalmente. È quasi fatta.

L’aereo per Bangkok - Phuket è alle 9:12, un volo Thai Airways che mi porterà prima nella capitale e poi giù, verso il mare. Gloria me l’ha descritto mille volte, Phuket: spiagge di sabbia bianca, acqua così trasparente che si vedono i pesci nuotare sotto la superficie, tramonti che fanno piangere. “Vedrai, ti cambierà la vita.” Mi ha detto l’ultima volta, con quel suo sorriso complice. Non ci sono mai stata in Thailandia, mai oltre l’Europa, in verità.

Scendo dal taxi, l’aria fredda e umida dell’aeroporto che mi colpisce il viso. “Grazie.” Dico al taxista, pagando con una banconota da cinquanta. Partenze, Terminal C. Il cartello luminoso mi guida, la valigia che rotola dietro di me come un cagnolino fedele. Faccio il check-in al banco, la hostess sorride, timbra, etichetta la valigia. “Gate B14, imbarco alle 8:30.” La valigia sparisce sul nastro, e con lei un altro pezzo di peso. Ora mi sento più leggera, come se ogni chilo lasciato andare fosse un pensiero in meno.

Compro delle riviste all’edicola, per passare il tempo, per non pensare. Carla Bruni in prima pagina, con quel suo sguardo languido e i capelli perfetti. Devo ammettere che è proprio bella! Quasi mi somiglia, penso, confrontando il mio riflesso nel vetro dell’edicola. Stessi zigomi, stessa piega malinconica agli angoli della bocca. Rido, una risata breve che si perde nel brusio dell’aeroporto.

Faccio mente locale sulle norme di sicurezza, detesto i contrattempi, odio quando qualcosa va storto all’ultimo momento. Rileggo l’avviso prima del posto di polizia: liquidi in contenitori da massimo 100 ml, tutto in un sacchetto trasparente. La bottiglietta del deodorante, che porto in mano dentro un sacchetto di plastica, è meno di un decimo di litro – 50 ml, controllato e ricontrollato. I documenti sono a portata di mano, passaporto e carta d’imbarco infilati nella tasca interna della borsa. Mi tolgo il soprabito, lo piego con cura sul braccio.

La fila scorre veloce. La poliziotta è gentile, una donna con i capelli raccolti e un sorriso stanco, ma tenero. “Buongiorno, documenti prego.” Controlla, annuisce. “Va tutto bene, signora. Buon viaggio.” Nessun problema. Passo oltre, i tacchi che risuonano sul pavimento lucido, il cuore che batte un po’ più leggero. Gate B14. Ancora un passo, e poi via.

Gate 23 per Bangkok. Mi siedo su una poltroncina di plastica dura, le gambe accavallate, le riviste aperte sulle ginocchia. Le pagine frusciano, ma non leggo davvero: sfoglio, guardo le foto, lascio che le immagini mi portino lontano. Il tabellone lampeggia: IMBARCO. Finalmente. Le assistenti di volo della Thai sono gentilissime, sorrisi bianchi, foulard di Armani e uniformi viola che sembrano uscite da un sogno. Mi fanno strada, mi indicano il posto 32A, finestrino.

Appena seduta, alzo la mano. “Una coperta, per favore.” Vorrei dormire per tutto il tempo, ibernarmi, svegliarmi solo dopo l’atterraggio, con il sole di Phuket già alto. Ho un grande desiderio di rivedere Gloria: sono tre giorni che non ci vediamo, tre giorni che mi sembrano un’eternità. Davvero non credevo che avrebbe fatto questo per me: il biglietto, il piano, la bugia perfetta. Penso a lei, chiudo gli occhi.

Quando usciamo insieme ci scambiano per sorelle. Tutte e due bionde, occhi verdi, abbastanza alte. Ci siamo incontrate due anni fa al Gilda Beach, io con un cocktail in mano, lei che rideva forte vicino al bancone. Da quel giorno siamo inseparabili: stesse battute, stessi segreti, stessi sogni.

Il viaggio è tranquillo, a parte qualche turbolenza che fa tremare il sedile e stringere lo stomaco. Le luci si abbassano, il ronzio dei motori diventa ninna nanna. Dormo a tratti, la coperta tirata fino al mento. All’aeroporto di Bangkok rimaniamo non più di una mezz’ora: corridoi lunghi, odore di spezie e disinfettante, voci in tailandese che rimbalzano sulle pareti.

Inizio a essere impaziente, cammino avanti e indietro, controllo il gate. Il mio vicino di posto sul primo volo credo fosse tailandese: ho provato a rivolgergli mezza parola in inglese (“Nice weather, right?”), ma niente, solo un cenno cortese e un sorriso chiuso. Ecco, si riparte. Phuket è vicina. L’aereo decolla di nuovo. Servono il pranzo: riso, pollo al curry, insalata di papaya. Ma io ho sete, la bocca asciutta come carta. Chiedo una Coca-Cola light e un caffè. Il caffè è forte, amaro, mi sveglia del tutto. Guardo l’orologio: sono passate 12 ore e non me ne sono accorta. Secondo il mio orologio dovrebbe essere buio, notte fonda a Roma. Ma qui è giorno, luce calda che filtra dal finestrino. Credo sia pomeriggio. Il comandante annuncia: “Atterraggio a Phuket tra quaranta minuti.” Sorrido. Gloria sarà lì. Lo so.

L’aeroporto di Phuket è un’onda di voci, colori, odori: curry, sudore, fiori di frangipane. Mi accodo a un fiume di turisti, sandali, cappelli di paglia, zaini enormi. Passo la dogana con un battito di ciglia: timbro, sorriso, “Welcome to Thailand”. Un altoparlante in inglese gracchia per tre volte: “La signora Gloria Davis è attesa al banco delle informazioni.” Il mio nome, pronunciato male, mi fa sobbalzare. Mi affretto, i tacchi che scivolano sul linoleum lucido.

Il tizio che mi aspetta è piccolo, magro, camicia a fiori. Non parla inglese, ma ride, ride sempre, mostrando i denti bianchi. Mi fa cenno di seguirlo. Ci incamminiamo verso il parcheggio dei taxi, l’aria calda che mi avvolge come una coperta umida. Salgo su una Toyota bianca, aria condizionata al massimo. Dieci minuti e siamo in albergo: un piccolo resort sul mare, palme, lanterne di bambù. Il tizio mi porta la valigia, la sistema sul carrello. Gli do la mancia. Lui fa quattro inchini, ride ancora, si allontana.

Mi fa strada lungo un corridoio di tek, mi indica di seguirlo. Salgo le scale, il profumo di ylang-ylang che mi accompagna. La porta è aperta. Entro. La stanza è in penombra, tende di lino che ondeggiano piano. Un letto grande, morbido, lenzuola bianche. Mi lascio cadere di peso, le scarpe che volano via. Guardo il soffitto, il ventilatore che gira lento. Finalmente… finalmente. La porta del bagno si apre. Gloria esce, è bellissima. Accappatoio bianco, capelli raccolti in una crocchia morbida, pelle abbronzantissima che brilla come miele. Mi sorride, gli occhi verdi che scintillano. “Eccoti,” dice, la voce bassa, calda. Si china, mi bacia la fronte. “Benvenuta a casa.”

Si siede sul bordo del letto, il materasso che si abbassa piano sotto il suo peso. “Sei stanca?”
La guardo, gli occhi che finalmente possono fermarsi su di lei. “Finalmente sole.”
“Non mi sembra vero!” Dice, la voce che trema appena.
“Hai chiamato?” Mi guarda apprensiva, le dita che stringono il bordo dell’accappatoio.
“Non ancora.” Dico. Le prendo la mano, la pelle calda, liscia, familiare.
“Chiama!” Mi porge il mio cellulare, quello che le avevo dato prima di partire, spento, pulito, e io le restituisco il suo, quello che ha usato lei in questi giorni. Prendo il mio telefono, le dita che scivolano sul vetro.
Chiamo ancora casa, come ha fatto in questi tre giorni Gloria. Non risponde nessuno, lo so, non risponderà mai nessuno. Mio marito è sotto la doccia, ancora, per sempre.

Allora faccio un altro numero. “Pronto?”
Una voce annoiata, lontana. “Ambasciata italiana.”
“Mi scusi, sto chiamando da Phuket. Sono molto preoccupata. Da tre giorni provo a chiamare mio marito in Italia, ma non risponde. Né al cellulare, né a casa. Ho paura che sia successo qualcosa… Sono molto preoccupata, mi aiuti. Come posso fare?”
“Signora, ha provato a contattare qualche parente, qualche conoscente, qualcuno che abita nelle vicinanze?”
“Non abbiamo parenti a Roma e non conosciamo nessuno nella zona.”
“Ok signora, la mettiamo in contatto con la polizia italiana. Mi lasci un recapito.”
Gli lascio il nome dell’albergo – The Beach Pearl – e il mio numero di cellulare. Riattacco. Tiro un sospiro di sollievo, profondo, come se avessi trattenuto il fiato per anni. Sorrido. Gloria si china, mi bacia. Le sue labbra sono morbide, salate di mare. “Ti amo.” Io le passo una mano tra i capelli, li sciolgo piano. “Anch’io.”
Fuori, il mare comincia a cantare.

 




Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.
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