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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Per le strade di Roma


 


 
 


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..Una signora al balcone s’incipria e si specchia e parla col figlio che gioca giù in strada, gli dice che è tardi e che deve salire, perché tra poco lei esce per andare a lavoro, ma è distratta la vedo che non lo dice convinta, come se cercasse soltanto attenzione, dal vigile urbano che alto, che biondo, le sbircia le gambe e sorride sornione. La guardo, ha una gonna che si spiega e svolazza, due gambe gemelle che annoda e poi scioglie, e due mani che agita come farfalle, all’aria leggera perché in fretta s’asciughi, lo smalto che rosso la fa femmina bella. La vedo, la guardo, ha un rossetto da sogno, ha i capelli striati da colpi di sole, che si spargono al vento come fili di seta, e un sorriso che s’apre e mi saluta cortese, come per dire "Ma ci siamo già visti?”, come per dire “Farebbe lo stesso, conoscerci ora o tra poco se vuole.”
M’incanto e ci penso per quale strada di Roma, ho apprezzato la grazia di una signora di classe, oppure in un posto o in una vita passata, in un giorno di sole o con la pioggia battente, le ho dato un passaggio per ripararsi dall’acqua, e sotto un ombrello ho ammirato quel seno, quel viso, le unghie, la gonna che danza, anche se un dubbio mi lascia pensare, che se fosse successo, non sarebbe distante, dai miei sogni che all’alba svaniscono in fretta. M’incanto e una voce mi dice signore, “Si scansi la prego altrimenti la bagno!” Ha in mano una scopa ed uno straccio da terra, un recipiente con l’acqua di plastica gialla. Tutt’intorno rumori che stridono a tono, tutt’intorno un brusio di gente che parla, che sciama e lavora, s’arrabbia e consola, chi torna e riparte, chi grida o sta zitto, chi parla una lingua che nessuno capisce, ma io ancora ci penso e sì che ci penso, tra un ambulante che grida e vende verdura, un indiano che t’offre tre agli a buon prezzo, tra un motorino che passa tra i birilli di gente, e fa un rumore assordante e lascia la scia, di fumo e miscela e s’allontana veloce, tra i sampietrini sconnessi per le strade di Roma.

La portiera ha finito di lavare le scale, su una sedia di paglia si riposa sudata, ha un fazzoletto di tela che agita in fretta, in attesa di un alito insperato di vento. Ha un presente di seni importante e romano, un viso vissuto di anni e fatica, avrà cinquant’anni e le gambe un po’ aperte, di chi pensa che ormai abbia dato abbastanza. Magari due figli, una femmina e un maschio, un marito la sera che s’addormenta più presto ed un ricordo che vive sul cuscino ogni notte, una tresca sul fiume con un militare in divisa. Chissà s’era bello e parlava l’inglese, lo stesso che lei ora mastica a stento, quando saluta il regista scozzese e sua moglie che è alta quanto un lampione e vivono all’attico con un cane birmano. Sono lucciole e grilli di chi non ha niente da fare, come me che osservo e ricamo parole, m’invaghisco di un nulla e mi lascio rapire, cercando ogni volta un senso e un motivo, perché tutto questo possa fare poesia, oppure soltanto un storia da dire, sui sampietrini sconnessi per le strade di Roma.

Sarà mezzogiorno, saranno i colori, queste tinte pastello che s’accendono al sole, gli odori di pesce del mercato vicino, ed un uomo si incolla un quarto di bue, ed intriso di sangue guarda le gambe, di una straniera seduta sulla scala di fronte e si chiede nel dubbio se davvero le porta, o è solo il riflesso dell’ombra col sole. Un ragazzino mi chiama e mi chiede il favore, di tirargli la palla che invano rincorre, e solo ora m’accorgo di una partita in diretta, con i pali di porte fatti coi libri. La portiera ora s’alza e lancia la scopa, al cane randagio che quatto quatto ha deciso, di fare i bisogni davanti al portone, proprio nel punto dove prima ha pulito. Poi torna a sedersi e mi dice arrabbiata, che tra uomini e cani non c’è differenza, ubriachi di notte e a quattro zampe di giorno, hanno preso quel muro come un pisciatoio all’aperto. Sono suoni e rumori d’un giorno feriale, un robivecchi che urla, un arrotino che passa, una nomade slava che suona il violino, ti legge la mano e ti vende un santino, ed offre servizi di mano e di bocca, per cinque minuti dentro un portone. Sono suoni ed odori intensi di shampoo, di una donna che esce dal parrucchiere e si guarda, nel riflesso in penombra con i capelli rifatti, ed un uomo che passa in bicicletta di corsa, le fischia parole di bettola e porto, e poi non contento fa il giro due volte, sui sampietrini sconnessi per le strade di Roma.

La signora al balcone ha messo il cappello, rosso di paglia con un fiocco di lato, un vestito a pois strettissimo ai fianchi, con uno spacco davanti che si apre scendendo. Sul portone si ferma precaria sui tacchi, sussurra nasale e muove le mani, la portiera la vede e scatta all’in piedi, con il capo annuisce e la chiama signora. “Caterina la prego badi a mio figlio, ho un appuntamento al Plaza e farò molto tardi, salga tra un’ora ed in caso mi chiami, se si sveglia stanotte gli prenda la mano.” Da lontano mi vede e sorride di nuovo, mi convinco davvero che non era un abbaglio, che in qualche parte davvero ci siamo già visti, oppure ho una faccia che scambia con altri. Mi passa vicino e sento il profumo, come di viole, come di frutta, ma è forte e più adatto ad una mezza stagione, o in un locale di notte per turisti stranieri. Mi passa vicino ma passa e va dritta, quindi davvero non m’ha scambiato con altri, era solo cortese oppure un invito, magari a seguirla per le strade di Roma.

Cammina ed ancheggia come fosse su un palco, come fosse vitale rapire lo sguardo, di un pubblico adulto che si lascia ammaliare, dalle scarpe col tacco abbinate al resto, dal laccetto vezzoso che riprende il colore, del fiocco di raso ed i guanti di rete, del cappello di paglia che fa ombra e mistero, come fosse un miraggio, una meta per pochi, un terno secco su Roma, una vacanza per ricchi. La guardo distante, la seguo con gli occhi sentendomi dentro un altro romanzo, e mi rendo conto che sono lucciole e grilli, di chi scrive parole, le imbastisce e le cuce, e ricama una donna con la riga alla calza, e s’immagina a breve che il tacco s’impigli, nei sampietrini sconnessi delle strade di Roma, e forse fa in tempo ad offrirle una mano, oppure si lascia trasportare dal sogno, ed ora la vede alla fermata dei taxi, che posa la borsa e si guarda intorno, per cogliere l’attimo e saziare altri occhi, e segreta e furtiva s’aggiusta la calza, prima una e poi l’altra come fosse importante, per un uomo, un destino o solamente un lavoro.

M’avvicino e le dico “Mi scusi signora.” Lei siede sul taxi e sorpresa si volta, mi guarda, sorride e si toglie gli occhiali, ha gli occhi di cielo quando cade un tramonto, un volo di rondini che fanno cerchi nell’aria, sotto un trucco sfumato di grigio e celeste ed una punta di giallo che fa il paio col sole, e sussurra parole che sanno di miele, come se davvero ci fossimo visti, sotto un ombrello e la pioggia battente, sui sampietrini sconnessi per le strade di Roma. Ma il sogno si ferma ed io non so cosa dire, lei rimane in attesa forse aspetta un invito, intanto alza la gonna per mandarmi un segnale, e semmai nel dubbio non lo avessi capito, il paradiso che cerco non è molto lontano. Ma la vedo che ha fretta e si rimette gli occhiali, poi copre le gambe e il taxi parte, ed io che mi trovo al punto di prima, la portiera di fronte mi guarda e mi dice: “Giovanotto lascia sta’, non c’è trippa per gatti!” Arrossisco e mi chiedo come abbia fatto a capire, ad entrarmi nel sogno senza essermi mosso.

Adoro quel posto e mi lascio rapire, da quell’affresco a colori di una Roma sparita, da quell’acquarello di gente che chiunque saluta, dal falegname albanese al vigile urbano, dal fioraio vicino che offre una rosa, ad ogni bella signora piacente che passa, all’infermiera che stacca dal turno di notte, e prescrive ricette come fosse un dottore. Mi chiedo soltanto come faccio stasera, a mettere in bella tutto quello che ho visto, a ricamare la donna di pizzi e merletti, a colorare il rossetto, il trucco celeste, a scrivere fitto tra virgole e punti, quest’incastro preciso che fluido scorre, questa recita a braccio di un coro di voci, uguali e diverse senza pesi e misure, ed ognuno di loro ha una parte di scena, sui sampietrini sconnessi per le strade di Roma.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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