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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Non c'è più tempo


 


 
 


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.Non c’è più tempo! Sopra questo viale di Villa Borghese, che ci separa dai pioppi umidi e spogli, e curvo s’arrampica lungo l’alloro, che si ritorce e s’allunga tra queste fontane, che sgorgano brividi di solitudine e gelo. Non c’è più tempo, tra le pieghe del tuo foulard rosa antico, tra le nostre dita clandestine che a ragno, si stringono rosse dentro la tasca, del mio impermeabile infagottato di freddo.
Piove su Roma, una pioggia secca di foglie, che non bagna questi cuori ormai arsi, da tante menzogne dette e ridette ed ora ci appaiono ridicole e chiare. Camminiamo fuori posto senza più un appiglio, e un pizzico di follia che ci venga in soccorso, a darci ragione, a darci coraggio, per colmare quel vuoto di assenza e silenzio, per alleviare questo peso che senti, che sento, e mi dà nausea fitta e forze di stomaco. Fossi almeno capace di vomitare! Ma non ci sono riuscito per tutta la vita! Neanche con un dito piantato in gola, o un limone spremuto dentro un caffè. Perché davvero ora non c’è più tempo, e basterebbe molto meno, qualche secondo, per dire parole legate da un senso e che arrivino dritte e colpiscano in fondo, quella parte di cuore che ancora non vuole, rassegnarsi a capire che non c’è più tempo.

Non c’è più tempo e tu non parli ed io non ti rispondo, anche se so benissimo che dovrei essere io a spiegarmi, raccontarti di come ho passato questi ultimi giorni, di come ho trovato la superbia di dirti, lo strenuo coraggio d’allontanarti per sempre, e inventarmi una faccia davanti allo specchio, per farmi vedere deciso e farti sentire distante, di colpo un’estranea, un’inutile aliena. Non parlo e tu non mi rispondi, sotto questo cielo che minaccia e non piove, come il tuo viso che serra le labbra, e sa che tutto oramai suonerebbe come un distacco, velato dal rumore di questo vento che soffia, di queste foglie morte che galleggiano invano, per non toccare mai terra ed essere vive. Mi stringi la mano fino ad intorpidirmi le dita, fino a premermi con forza la gamba per ribadire che conti, nonostante da un’ora muta m’offendi, e senza parole infierisci più d’ogni altra invettiva.

Sapessi quanta pena che sento! Quanto i tuoi occhi bagnati di cane, m’infittiscano il sangue e il respiro che ingoio, insieme a boccate di risentimento che dentro, vorrei ora non avere mai detto! Sapessi come vorrei sognare, vederti nel nostro albergo, dentro il letto illuminato di fianco, da un fascio di pulviscoli tra l’aria sospesi, sulla tua faccia rosa struccata, sul tuo seno ribelle che leggero mi strappa, le coccole appese ad un fiato sottile. Ora invano tento di farti sentire protetta, e m’azzardo a sfiorarti i capelli che neri, chiederebbero conforto a chiunque passasse, lungo questo steccato di legno di faggio, dove ti sei seduta d'improvviso. Mai prima d’ora sarebbe successo, mai prima d’ora m’avresti lasciato di scatto, la mano, la tasca che ci nascondeva da tutto, facendomi stringere solo un gelido vuoto.

Ti sposti nervosa la frangia dagli occhi, mi guardi, spalanchi gli occhi come per renderti conto, e mi scruti diffidente e impunita, come se tu portassi un trucco diverso ed io un maglione che tu non m’hai mai regalato. Ti vedo piccola, più minuscola di una bambina in cerca di madre, di un viso in cerca di carezze e di baci, che solo ora mi rendo conto non potrò più offrirti. Mi siedo vicino e cerco parole, le sto cercando da quando ti ho rivista, da quando la tua mano ha stretto la mia, convinta ed illusa che ancora nulla avevo deciso, incerta e delusa che nulla avrei più detto. E invece no, non c’è più tempo, non c’è mai stato tempo, perché il futuro è un tempo che non abbiamo mai coniugato. Già non c’è più tempo e m’illudo ora di accompagnare il tuo dolore a piccoli passi. Lo vedo sai! I tuoi occhi non hanno più luce, ora sono solo in cerca di un'altra fonte, di un’anima bella per affidarle un sorriso e che t’asciughi quel pianto che ora mi strugge.
Mai niente poteva essere diverso, nient’altro sarebbe potuto accadere, se non quest’amarezza che ingrigisce gli ultimi istanti, senza farci più sentire indispensabili all’altro. Non c’è più tempo sopra i tuoi occhi sbarrati, non c’è più tempo sopra le tue labbra rosso ciliegia, mi guardi come se fossi trasparente, vuoto e brullo come un paesaggio senza alberi e case, nel quale all’orizzonte si perde uno sguardo, una storia, un bacio che ora m’imbroglio di darti. Poi ci ripensi, da imbronciata albeggi radiosa, e torni vicina e sfiori il mio viso, leggera e timorosa come un gatto di strada, come se avessi timore che io possa scostarmi, e ora per sempre non ti sia più permesso aprirmi la bocca e insinuarci la lingua, aprirmi anche il cuore e dirmi ti amo.

Ti sento sai, sento i tuoi baci, sono domande senza risposta, messaggi in bottiglia dispersi nel mare, perché non c’è più tempo per la nostra storia, per le altre nostre storie fuori da questa villa, loro chiedono verità e chiedono tempo, ti parlo e non ti convinci, trattieni il respiro e ti gonfi la faccia, stai lì lì per ribattere, lo vedo, lo sento, come vorrei che tu mi dicessi qualcosa, qualsiasi cosa che non sappia d’amaro! Ma non mi merito poi tanto! Dimmi, ti prego, dimmi che sono un ingrato, che almeno potevo dirti cosa frullasse nella mia testa, dentro questi giorni distanti in cui non mi sono fatto sentire.

Mi vieni più vicino per farmi toccare il tuo dolore, perché i nostri mali si confortino insieme, rivendicando a vicenda il proprio tormento, che ci incurva e ci schiaccia sopra questo steccato. Ma poi lo so cosa stai pensando, ti sfiora l’idea che io non ti abbia mai amato, e per questo ora ti lascio e per questo ora non soffro. Già non c’è più tempo e mi vieni vicina e mi accarezzi la stoffa, finché dentro un bottone trovi il calore, l’alcova che cerchi per il tuo viso e la bocca. Che ne sarà di noi domani, se ora mi trovassi senza difese? Che ne sarà dei miei propositi di ieri, se le tue labbra continueranno a cercarmi, e si stringono a morsa ora sulla mia bocca, oramai fredda e immersa nel paesaggio autunnale? Mi vieni vicino e mi baci il collo, ti ritrai e mi guardi, poi torni e mi asciughi, mi stringi e mi bagni, lo scopri quel tanto per vedere l’effetto, dell’umido intorno che sfarfalla alla luce.

Un’ombra grigia che passa rallenta, si ferma e ci guarda, scuote la testa e va dritto, ma sa che non c’è passione, non c’è sesso e malizia, che è solo amore se disperata mi cerchi, e mi contieni la voglia dentro una mano. Succhi avida ora le mie labbra, ma sai che non potrò più nutrirti, non potrò più riempirti le lente giornate, su un letto disfatto che guarda su Roma, sulle antenne i gatti e le chiome dei pini, sui tramonti che rossi ti facevano bella. Non c’è più tempo! Perché da quando staccherai la tua bocca, sarà come non ci fossimo mai visti, ti prego continua per alleviare la tua pena, ti prego continua per farmi sentire in difetto. Come due amanti senza rendersi conto, come se fosse la prima volta o l’ennesima, quando l’amore prende il sopravvento, e non ci accorgiamo di quanto ridicoli, agli occhi degli altri siano i nostri istinti. Baciami fino ad essiccarti la bocca, fino a che la lingua stanca non si ritragga nei denti. Baciami pensando che sia l’ultimo bacio, che nessuna lingua più riempirà la tua voglia, e non dovrai più giurare amore per dimostrarmi ogni volta se t’amo, se m’ami. Baciami e dammi quel piacere che ora non sento e non voglio sentire! Perché le tue labbra ne rimangano impresse, perché questa saliva che abbondante mi bagna, non s’asciughi al primo soffio di vento. Fa che le mie labbra rimangano sempre umide, come lenzuola stese d’inverno, come nebbia che fitta di notte s’infiltra tra le mie ossa infiammate dagli anni.

Ti prego rimani! Non lasciarmi solo sopra questo steccato, con le mie parole nude che chiedono ancora un istante… Ma tutto ciò ora suona maledettamente sfilacciato, non colpisce e non fa effetto, come lo strascico di una sposa sola sull’altare, come questo ti amo che rimane compresso, e deforma le mie labbra, come questo tuo “nonostante ti voglio”, che s’infiacchisce prima di diventare una flebile voce.
Improvvisamente t’alzi e mi lasci in balia dei miei sguardi, del rossore di questo viso allungato, incupito dalla ragione che balla e traballa, e s’aggrinzisce convinta che nessun’altra bocca, possa un giorno farle provare quello che volutamente ha reciso. Ecco, lungo questo viale, che curvo s’arrampica lungo l’alloro e ci separa dai pioppi umidi e spogli, non c’è più tempo. Lo sento dal rumore dei tuoi passi incerti, ora dietro perché vittima, ora davanti perché risoluta, e finalmente fianco a fianco, mano per mano, lungo le ultime panchine, lungo le ultime fontane che sgorgano brividi di solitudine e gelo.

Usciamo fuori dalla villa e Roma ritorna normale, uno spicchio tiepido di sole riflette sulle vetrine di sconti, sugli impiegati che pranzano in piedi, sui poliziotti che fanno la scorta. Ci fermiamo al rosso del primo semaforo, ecco lo sento non c’è più tempo, e la tua mano mi sfugge, questa volta per sempre. Dall’altro lato della strada un uomo vestito elegante ignaro t’aspetta. Ora corri, ora ridi, ora lo baci in punta di piedi… come se tutto il male fosse rimasto dentro quel parco, fosse racchiuso dentro l’alone caldo dei nostri corpi, freddo del nostro addio.
Ti seguo con gli occhi, non ti volti e sembri quasi felice, l’uomo ti stringe la mano ancora tiepida di me e ti trascina via. Lontano.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo   Louis LoizidesMitsu

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