HOME   CERCA   CONTATTI   COOKIE POLICY
 
RACCONTI
 

Adamo Bencivenga
L'amore breve
(L’amour court)



 
Aveva appena compiuto 18 anni. Era bello come un bambino, spensierato come un adolescente, sfrontato come un ladro, a diciotto anni del resto non si può che essere così! Era alto, slanciato, con un sorriso obliquo che tradiva la sua spavalderia innocente, come se il mondo fosse un gioco e lui avesse già capito come vincere.
Passava le ore seduto con i suoi amici nei caffè chiassosi lungo la Senna a bere boccali di birra e limonata e a guardare le belle passanti che passeggiavano lungo il viale ombroso sotto i tigli appena sbocciati. Il suo passatempo preferito era scommettere un po’ su tutto: “Ora passerà un uomo col cappello e un giornale in mano, ora una ragazza bionda in bicicletta con un foulard rosso…” E tutti si voltavano verso il viale, gli occhi pieni di attesa. Non importava chi vincesse perché il vero premio era il divertimento scanzonato, il senso di cameratismo che li legava, e quella sensazione invincibile di chi, a diciotto anni, crede che il mondo sia un palcoscenico e loro i protagonisti.

Lo vedevo ogni sera quando passavo lungo quel viale tornando dal lavoro. Tutte le sere, non avendo nulla da fare, allungavo il tragitto verso casa passeggiando sotto i tigli verdi. Non era la strada più breve per raggiungere casa, e lo sapevo bene! Avrei potuto tagliare per le viuzze strette del quartiere, evitando quella folla, ma qualcosa mi spingeva a scegliere quel percorso più lungo, come se il viale alberato fosse un mio piccolo segreto, una piccola trasgressione alla mia solitudine. A casa del resto non mi aspettava nessuno, mia madre se n’era andata da qualche mese, lasciando un vuoto che ancora non sapevo come colmare. Ed io vivevo da sola nella mia casa al primo piano in Rue de Richelieu.

Ogni tanto, alzavo lo sguardo verso le chiome dei tigli, dove la luce del tramonto filtrava in raggi dorati, e mi chiedevo se anche mia madre, in qualche estate lontana, anche lei sola, avesse mai camminato sotto quegli stessi alberi, sentendo il loro profumo dolce e avvolgente. Com'era gradevole il profumo del tiglio nelle sere di giugno! Pensavo. Rendeva l'aria dolce e leggera ed io annusavo quel vento che portava l’allegria dei bar, i profumi della birra e delle limonate, il sapore del cocco dei chioschi lungo la strada e le scommesse di quei ragazzi smaliziati. Il chiacchiericcio si mescolava al tintinnio dei bicchieri e al suono metallico dei cucchiaini che giravano nelle tazze di caffè. Ogni tavolo raccontava una storia: coppie che si tenevano per mano, altre che si stavano dicendo addio, e poi intellettuali che discutevano animatamente sfogliando libri, e quei ragazzi, che occupavano il centro della scena con le loro risate rumorose. Eppure, in mezzo a quella vitalità, mi sentivo come una spettatrice, una figura che passava inosservata, avvolta nel proprio silenzio.

Proprio all’altezza di quel bar rallentavo e lo guardavo cercando di non farmi accorgere. Non so cosa mi avesse colpito di lui rispetto agli altri ragazzi. Vestiva allo stesso modo, stesso taglio dei capelli e lo stesso fischio rivolto alle ragazze. So solo che mi faceva piacere vederlo lì ogni sera. Era diventato un’abitudine, un volto familiare, tanto che, a volte, vedendo quella sedia vuota, mi chiedevo cosa stesse facendo o dove fosse andato.

Poi una sera qualcosa successe. Una sera di quell’incantevole giugno. Mi sentivo stranamente allegra. Prima di uscire dall’ufficio avevo messo in ordine i miei capelli, sistemato il mio cappello, e poi un velo di rossetto e un po' più di nero intorno agli occhi. E fu proprio in quel momento, mentre passavo davanti ai tavolini di quel caffè, che qualcuno gridò: “Isabelle!” Mi voltai di scatto e vidi lui che si stava sbracciando. Naturalmente Isabelle non era il mio nome. D'altra parte non conoscevo quel ragazzo per cui lui non poteva sapere il mio nome, ma sorrisi ugualmente e lui non ci pensò due volte a salutare in fretta i suoi amici e a correre verso di me.

Probabilmente aveva puntato su di me, probabilmente aveva scommesso una birra che avrei sorriso, che portassi un cappello o non so cosa, comunque mi raggiunse e non disse nulla, ma forse non c’era nulla da dire. Non ci presentammo, non ci stringemmo la mano, non ci guardammo, ma insieme cominciammo a passeggiare fianco a fianco lungo il viale sotto i tigli. Il cielo all’imbrunire si fondeva con le foglie, il rumore distante del traffico di Parigi e con i miei piccoli fremiti sotto la pelle. Poi lui con un gesto naturale mi prese sottobraccio, delicatamente come se avesse timore di un rifiuto, ed io sorrisi senza dire nulla.

Sera di giugno! Diciotto anni! Respirai profondamente lasciandomi inebriare da quel profumo avvolgente che si spandeva nell’aria. Quasi danzavo, non mi era mai successo di camminare sottobraccio ad un ragazzo con quella sensazione di intimità che mi faceva quasi tremare. Certo sì, avevo avuto qualche storia in passato, brevi ed inutili quanto un ricordo sbiadito che si fatica a trattenere, ma in quell’istante mi sentii felice, come una bimba su una giostra. Forse lui aveva notato in me qualcosa che io stessa non riuscivo a vedere ed allora osò un po’ di più prendendomi per mano.

Nel sentire il calore di quella mano contai le mie tante notti d’autunno, le mie poche sere all’aperto e la realtà prese il sopravvento, forse ero solo lo sfizio dell’incanto di una sera estiva, oppure un biglietto vincente della lotteria, o più semplicemente una birra gratis al suo ritorno
Lui si fermò. Era pensieroso, forse pensava a come procedere, a come dichiararsi e quanto io fossi disponibile. Ci sporgemmo dal parapetto di pietra lungo il fiume, dove la Senna scorreva lenta, lui si accese una sigaretta e parlò. Apprezzai la sua sincerità così disarmante quando mi disse che non si era mai innamorato e che preferiva la compagnia degli amici alle ragazze. Lo disse senza vergogna, ma con una punta di timidezza, come se stesse rivelando un segreto che non aveva mai condiviso con nessuno. Poi, quasi scusandosi, sussurrò che le parole d’amore non erano il suo forte e che le considerava ridicole, buone solo per i cioccolatini.

Fu a quel punto che si voltò verso di me, e per un istante i suoi occhi cercarono i miei, come se volesse capire se lo stessi giudicando. Ma non c’era giudizio in me, solo una curiosità crescente per quel ragazzo che sembrava così sicuro di sé nei caffè chiassosi, eppure così fragile in quel momento.
Io fissavo il tremolio delle luci sull’acqua, sentivo i suoi occhi sul mio profilo. Chissà cosa avrei dato in quel momento per sedurlo! Lui intuì il mio pensiero, mi cinse delicatamente i fianchi ed avvicinò le sue labbra. Mi venne istintivamente di chiudere gli occhi e sentii un lieve bacio sulla guancia.

Proseguimmo lungo il viale di tigli, ci fermammo ad ascoltare un’orchestrina di clown di trombe e violini di un circo lì vicino. Lui mi disse: “Tu as mis un peu de noir sur les yeux?” Annuii e questo lo fece ridere. Avvertii un leggero imbarazzo, ma era evidente che mi avesse notata altre volte. Forse davvero non ero solo una scommessa o forse ero già stata una scommessa persa. Comunque mi illusi.

Girammo ancora, tornammo sul viale di tigli e lui si fermò all’altezza del civico 56. Accanto ad una frutteria, ancora aperta a quell’ora, c’era una piccola casa rosa e celeste. Disse che era di un suo amico. Dalla tasca dei pantaloni spuntò un mazzo di chiavi. Non mi chiese il permesso quando infilò la chiave nella toppa e mi pregò di entrare. Mano nella mano salimmo su una scala di legno fino ad una piccola mansarda con il soffitto di vetro. La stanza era misera, assomigliava ad un rifugio o a un’alcova. C’era solo un letto disfatto e un piccolo specchio appeso all’unica parete. Avvertii un forte odore d’amore stantio.

Aveva appena compiuto 18 anni e ciò lo rendeva quasi insolente. Sicuro e sbrigativo si tolse la camicia lasciandola cadere sul pavimento con noncuranza, come se non avesse tempo oppure come se fosse la cosa più naturale al mondo che un uomo e una donna appena conosciuti finissero per condividere un momento intimo.

La luce fioca della stanza accendeva riflessi sul suo corpo giovane, ancora segnato dalla magrezza dell’adolescenza, e i suoi occhi, pieni di desiderio, sembravano non vedere altro che il proprio impulso.
Mi disse soltanto: "J'ai envie de toi!" senza preamboli e senza dolcezza. Tagliente come un coltello non pronunciò parole d’amore, non mi accarezzò, non mi aiutò a togliere il vestito. Troppo giovane per pensare che una donna avesse bisogno di un pretesto, troppo giovane per fingere o rispettare i piccoli gesti di un corteggiamento. Rimanemmo al buio, non credo si accorse della mia seconda di seno, dei miei slip lilla o del mio sesso depilato quando mi tolsi le mutandine. Lui rimase in pantaloni e slacciò appena due bottoni per fare il suo dovere.

Non c’era curiosità nei suoi movimenti, né il desiderio di esplorare o di scoprire chi fossi davvero. Era un ragazzo, dopotutto, intrappolato nella foga della sua età, incapace di vedere oltre il proprio bisogno.
Mi disse di distendermi e di allargare le gambe, poi sopra di me come fosse del tutto naturale mi cercò col suo sesso finché trovò la via della sua scommessa. Eppure, in quel buio, tra la crudezza del suo approccio e il silenzio che ci avvolgeva, sentii un misto di emozioni che non riuscivo a decifrare. C’era una parte di me che si sentiva travolta dalla sua energia, dalla sua mancanza di filtri, come se quella schiettezza fosse un dono raro in un mondo fatto di ipocrisie. Ma c’era anche una punta di delusione, un vuoto che si apriva nel petto, come se mi fossi aspettata qualcosa di più: un gesto, uno sguardo, un momento di connessione che andasse oltre la carne. La stanza, con le sue ombre e i suoi silenzi, sembrava amplificare ogni mio pensiero, mentre il suono del suo respiro si mescolava al battito del mio cuore, rapido e incerto. Non era amore, non era nemmeno l’inizio di qualcosa. Era solo un istante.

L’unico bacio rimase quello davanti alla Senna quando, affacciati al parapetto, mi aveva sfiorato la guancia. Fu un amore breve quanto la piacevole sensazione del profumo di tigli, un amore scarno, ruvido come il gioco di un cardine secco. Non so quanto tempo trascorse, forse un minuto o poco più quando sentii un suo gemito più forte e lui non si accorse del mio orgasmo.

Mentre si rivestiva ritrovai la mia solitudine, le mie passeggiate lungo il viale la sera, la mia casa troppo grande per viverci da sola. Dall'incavo di quel letto, attraverso il vetro sporco, vidi con meraviglia il cielo pieno di stelle. Poi una cadde, e già era giugno, ma io in quel momento non avevo desideri.
Guardavo la sua ombra nella penombra della stanza, era un bel ragazzo ed avrei voluto trattenerlo. Invece lo lasciai andare senza fare un gesto, senza dire nulla. Lui prese le chiavi e disse: "C'était pas si mal." Forse era un modo dolce per scusarsi, per ringraziarmi, forse avrei dovuto considerarlo una tenerezza, ma lo disse con il candore infernale della sua giovinezza. Già aveva diciotto anni!

Mentre scendeva la scala di legno gli chiesi il suo nome, lui disse “Pierre”, ma era evidente che fosse inventato, poi gli chiesi se per caso fossi ripassata da quelle parti… ma lui non rispose, anzi si raccomandò, appena mi fossi rivestita, di richiudere la porta. Sperai almeno in un arrivederci che non venne, poi sentii i suoi passi lungo quel viale di tigli. Lo immaginai con le mani in tasca, un sibilo simile ad un fischio, la camicia fuori i pantaloni e il suo ritorno trionfale dai suoi amici seduti al caffè. E poi ancora birre e limonate. E altre scommesse.

Mi alzai, mi guardai nel piccolo specchio, rimisi in ordine i miei capelli, il cappello, un velo di rossetto e un po’ di nero intorno agli occhi. Guardai quel letto sfatto, identico a come lo avevo visto appena entrata. Era solo passato un altro amore, pensai, così breve che sapeva di scommessa. Pensai a quanto tempo sarebbe rimasto il mio odore prima di svanire, per sempre.
E già, lui aveva solo 18 anni ed a 18 anni non si può essere seri, ma sottovoce lo ringraziai comunque. Forse ero stata davvero l’equivalente di una birra, ma per qualche minuto mi aveva fatto dimenticare di avere più del doppio dei suoi anni.


 

IMMAGINE GENERATA DA IA
Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente
accaduti è puramente casuale. © All rights reserved

TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Il racconto è liberamente tratto
da “Il venait d'avoir 18 ans”
canzone scritta da Pascal Sevran,
Serge Lebrail e Pascal Auriat,
ispirata al romanzo di Colette “Le Blé en herbe”
e dalla poesia “Il Romanzo” di Arthur Rimbaud
http://it.wikipedia.org/wiki/
Il_venait_d%27avoir_18_ans
http://www.rodoni.ch/busoni/
bibliotechina/rimbaud/rimbaud2.html

© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore. L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma,senza il consenso dell'autore



 

 




Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected  and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors. If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.)
Scrivi a
liberaeva@libero.it

COOKIE POLICY


TORNA SU (TOP)br>
LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati Contatti