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RACCONTI

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Adamo Bencivenga
L'Amante Ufficiale
PRIMA PARTE





 

 

La Maison Rouge


Conosco gli uomini, li conosco a fondo, nelle parti basse e in quelle del cuore, dove ogni respiro è un comando ed urlo scomposto, una richiesta d’aiuto. So quando devo tacere, quando le labbra servono ad altro.

A Saigon c’è una casa senza finestre. Se passi di notte per Dai Lo Nguyen non puoi non notarla. Qui non si parla la nostra lingua, ma un brusio bastardo di inglese e francese, di tai e cinese che s’accalca ogni sera per prendersi il meglio.
Lungo la strada un interminabile flusso di biciclette che trasportano montagne di merce, di miseria e di guerra, di intere famiglie a passeggio, ma dentro la casa solo sciami di sete e suoni europei dove si mangia, si scherza, si balla e se sei ricco puoi farci l’amore.

Sai, qui si crede nel destino, quello benevolo che nonostante ci abbia fatto nascere povere, ci fa crescere belle, appetibili agli occhi di qualunque straniero. Se tu non hai nulla in contrario puoi fare di noi un’amante, una devota ragazza che ti segue nel bene e nel male per il tempo che rimani da queste parti.
Seguirà l’ombra dei tuoi passi nell’unica meta dove non esiste la guerra, lungo le strade dove non c’è fango e dolore. Ma se vuoi, se è troppo gravoso l’impegno, puoi tranquillamente affittarla ogni sera, senza promessa o dovere e nemmeno un acconto.
Lei t’aspetterà frusciando la seta sulla pelle pulita, e tu potrai fidarti ad occhi chiusi, perché lei conosce a memoria i vicoli stretti e le stradine più fitte, conosce a memoria le stanze qui dentro, dove non si sente il rumore, il rimbombo soffocato di mortai e cannoni. Non si sente l’odore rappreso del sangue, polvere e terra che tura il naso e secca le mani, ma quello d’oppio e tabacco che si fuma per deridere la vita ed insultare la morte.

Se arrivi a Saigon dall’aeroporto non puoi non fermarti nella Maison delle 150 fanciulle, perché il tassista prende la mancia e non ha di meglio da offrirti lungo l’unica strada dove non ci sono macerie ed il neon intermittente ti fa credere altrove.

Lui con orgoglio te ne parla fitto in francese, di ragazze che lui non ha mai visto, di ballerine a tariffa che non osano guardarti negli occhi, a meno che tu non lo voglia o loro s’accorgano che potresti invitarle di nuovo.
Il tassista ti parla di stoffe orientali cucite a Parigi, di seni abbondanti dove farci un nido la sera, ma tu non ci credere! Noi qui siamo tutte piatte per fame e natura, ed i vestiti che indossiamo sono cuciti a mano dalle nostre madri, dalle nostre sorelle più brutte, che si danno da fare perché almeno una di noi sia d’aiuto a tutte le altre.

Ti chiederanno se sei sposato, se hai dei figli, ma poi non ha importanza se lo sei veramente, perché quello che conta è un letto a baldacchino, è ripararsi dalle mosche quando si dorme, lavarsi la faccia con l’acqua corrente.

Se vieni a Saigon non giudicare da occidentale, non pensare che siamo carne da bordello, perché non è un ballo continuato al piano di sopra che ci fa puttane, non è un rifiuto che ci fa sante.






Le centocinquanta ragazze


Stavo ballando ma ti ho notato comunque, perché nessuno straniero passa inosservato quando entra la prima volta. Ti sei guardato attorno, chissà se già mi stavi cercando, se il tassista era mio fratello. Lui s’è messo in testa di farmi reclame, ha stampato dei biglietti su carta di riso. Dice a tutti che sono bella, la più brava se hai certe intenzioni.
“Signore, quella è carne di seno che avanza se vuole riempirsi la bocca…” Fa l’inchino più volte e ripete che non vuole nessuna percentuale. Il gioco è solo farti incuriosire, e spesso ci riesce.

Tu volevi un tavolo vuoto per sederti e goderti la scena, magari contarci per verificare se fossimo davvero 150! Le più belle che Saigon può offrire, le più graziose partorite nel fango d’una guerra infinita. Nessuna esclusa, perché sarebbe davvero uno spreco essere belle e fare un altro lavoro, ammesso che ci sia, che ogni giorno si possa sbarcare il lunario distante da questa casa senza finestre.
Non ci siamo mai contate, ma siamo tante, belle davvero, che se per caso avessi il cuore vuoto ti potresti innamorare di tutte.

Il tassista, sempre lui, già ti aveva messo in guardia.
“Signore, è inutile che cerchi altrove! Non esiste donna bella che non faccia il mestiere. Non esiste altra casa che possa offrirle di meglio!”

Una decina di noi già ti faceva capannello.
“Compri un biglietto signore! Io, ballerina a tariffa.” Ti dicevano in francese, in inglese e in un misto bastardo per essere le prime, per essere capite e non aver concorrenti.
“Io, ballerina a tariffa.” Ripetevano in coro, ma tu già mi avevi notata da lontano.
Non sarei mai venuta se tu non m’avessi chiamata, non mi sarei mai seduta accanto a te se non m’avessi sorriso. Hai chiesto il mio nome e m’hai guardato le scarpe. Per un attimo ho avuto timore che non ti piacessero. Ma stavi solo pensando.
Mi hai chiesto se fossi libera e m’hai fissato negli occhi una luce smorta che ancora ricordo. Eri un giornalista, ma non ne avevi la faccia, eri irlandese ma non ne avevi la pelle.

Sai qui ne sono passati tanti, tutti con la fretta nel sesso ed il cuore già pieno. Sarebbe bastato un biglietto per invitarmi a ballare, ma tu ne hai comprato un blocchetto da dieci e mi hai voluta seduta. Guardavi muto la parte in ombra del mio viso, tu eri diverso! Solo un attimo ed ho creduto d’amarti, come si ama un bambino smarrito che ti chiede la strada. Ero stupida vero?
Entrando qui dentro avevi portato con te il tuo cuore, ma poi mi hai spiazzata e non ho capito più nulla. Mi hai chiesto se potevo procurarti una casa! Per questo sarebbe bastato il tassista o qualunque agenzia nel quartiere cinese.

Subito dopo ti sei alzato e sei andato via nonostante quei dieci biglietti. Ho pensato che ne ignorassi il valore, nessun uomo avrebbe rinunciato a dieci balli con il diritto acquisito di tenermi per tutta la notte.
Perché il decimo ha un altro valore, è di colore diverso e non serve per ballare, ma per sentire il suono dei tacchi che salgono le scale, il fruscio della seta che s’adagia su una poltrona.
Il decimo biglietto è un letto a baldacchino, è un’essenza cinese, una luce soffusa, una donna che s’offre senza indugio e ti dona l’anima se il corpo non basta, ed alla fine, comunque sia andata la notte, ti ringrazia devota.






L’alba di Saigon


L’alba di Saigon è di un rosso amaranto, se per caso non avessi dormito una notte, potresti scambiarla per un tramonto qualunque. Per tutta quella notte non ho smesso un attimo di pensarti, sentivo che saresti tornato, ma non sapevo quando. Qui non si lascia una donna incompiuta, perché il nostro obbedire è più forte di qualsiasi comando.
Ai piani di sopra della Maison Rouge ci sono quindici camere, tutte arredate di rosso, tutte accoglienti per chi ha deciso di passarci una notte. Quindici soltanto, una per ogni dieci ragazze, ma non è mai successo di trovarle tutte occupate.

Qui c’è la guerra, c’è la fame e un uomo del posto, per quanto ricco, non arriverà mai a prenotare una stanza, a tenerci una notte mentre la musica riempie la sala di sotto. Può comprare alla meglio un biglietto, per un ballo soltanto, per sfregare la seta senza toccare la pelle, per sentire l’odore d’una donna che non porterà mai a letto.
Se ripenso che tu avevi 10 biglietti! Mi viene quasi da piangere. Alle volte non capisco la mentalità occidentale. Mi fate rabbia! Non avete il senso della misura e dello spreco. Ma non scadono, non preoccuparti, puoi tornare quando vuoi!

Qui non occorre aver diciotto anni per fare l’amore perché solo i ricchi sanno l’anno ed addirittura il giorno preciso in cui son nati. Noi qui siamo tutte ballerine senza tempo. Basta una ruga per essere vecchie, una velatura negli occhi per fare un altro mestiere. Ma quelle che sono qui dentro sono di prima scelta e lasciano a chi parte per sempre almeno la voglia di tornarci una volta. Qualcuno è tornato da vecchio, cercando chi gli aveva dato un sorriso, ma poi non l’ha trovata ed è rimasto felice lo stesso perché per voi abbiamo tutte gli stessi occhi, la stessa fede di donare l’amore.
Ti prego se torni a cercarmi non comprare il biglietto, ne hai ancora dieci da consumare ed io li tengo con cura, riposti dentro il mio seno. Sono dieci balli che mi faranno sognare, per dirti che ti ho prenotato una casa in un quartiere tranquillo, dove vivono soltanto stranieri.

La casa è in mattoni ed i muri sono bianchi, nel bagno e in cucina arriva l’acqua corrente. Quando ci passo, già sogno che potrei farti compagnia in veranda nelle notti di luna, nei giorni di pioggia coperti dal fango. Se vuoi non metto vestiti, ma rimango nuda perché tu possa guardarmi il cuore attraverso la pelle, nell’anima tutta che è un peccato coprire, perché t’amo anche se ti ho visto per pochi minuti.
So che tu non sei uguale agli altri, che chiamano amore quello che sentono dalle parti del sesso, che confondono ogni notte nelle mutande e ad ogni alba svanisce come un buio dentro la luce.

Povera m’illudo e continuo a pensarti e stringo questi dieci biglietti. Ogni tanto li conto sperando che siano meno, perché allora sì che avremmo ballato e tu avresti sentito il calore che fa la pelle sotto la seta.
Forse sei andato via perché t’eri pentito e non sapendo che dirmi hai inventato la scusa della casa. Forse invece avevi solo da fare, ed il tempo con me sarebbe stato uno spreco.

Non t’ho chiesto se fossi arrivato da poco, se qui fossi solo o una moglie ti stesse aspettando in albergo. Se fosse questo il motivo, sappi che mai una ballerina a tariffa ha fatto domande o s’è illusa d’avere in esclusiva l’amore. Comunque t’aspetto.






Io, Numi


Sei tornato con una donna bellissima accanto, mi hai detto che era tua moglie, ma non mi hai guardato negli occhi. Hai voluto lo stesso ballare. Nell’ombra in un angolo mi hai stretta, baciata sul collo. Hai voluto che ti porgessi il mio seno. L’hai solo odorato come si fa con un fiore appena sbocciato in un giardino d’inverno.
Non c’era avidità in quel gesto, non c’era passione, ma solo il desiderio d’assaporare la fragranza di un corpo obbediente. Perché non ero bella quanto tua moglie, perché ero puttana quanto lei non la sarebbe mai stata. Me l’hai ripetuto per tutto il ballo e per quello seguente, fino a convincermi che la dote che offrivo era un tesoro che nessun’altro finora aveva mai apprezzato. Eri ubriaco, ma sentivo di volerti bene, che cercavi un’amante ed io ero pronta a seguirti devota come nel ballo.

“Cara, ti presento Numi.” Tua moglie m’ha sorriso distratta e curiosa. Mi hai fatto sedere proprio davanti a quella cascata interminabile di capelli incorporei e biondi. Lei sì che aveva carne di seno per farci la tana, due gambe per passarci una notte senza mai avvertire d’averle esplorate del tutto.
La guardavo e ripensavo alle tue parole di quanto puttana ero in confronto, capivo che con quel termine non volevi intendere donna a pagamento, che non era la mia condizione di ballerina a tariffa per giudicarci diverse.

Lei era dura, si muoveva decisa, sicura che ad ogni suo gesto, uomini e donne cadessero ai suoi piedi. Ma non era sensualità vedevo solo potere. Ostentava le gambe lunghe e piene di carne, raccogliendo ogni volta i capelli per chiedermi quanto potesse essere bella.
Abbassavo gli occhi ma non per timore. Da queste parti ci hanno insegnato che non è cortese guardare in profondo, scrutare nell’intimo chi si conosce da poco.

Avrei voluto dirle che qui a Saigon, nonostante l’apparenza, pecchiamo d’orgoglio e non temiamo confronti, nella convinzione che il comando ha bisogno d’obbedienza per essere tale. Nessuna donna qui può far trasparire, ad ogni suo gesto, l’eleganza dell’amore, la condiscendenza alla voglia di maschio, se non nasce e si nutre nella certezza di volerlo servire.
Ma non era il contesto e la prima cosa che insegnano ad una ballerina a tariffa è di non mettere in imbarazzo un cliente con discorsi incomprensibili. Chissà se tua moglie avrebbe compreso?

E’ stata comunque gentile, non m’aspettavo quell’accoglienza così cordiale, addirittura mi ha chiesto di ballare mentre tu eri andato a comprare altri dieci biglietti. Ho rifiutato perché nella Maison delle 150 ragazze mai è successo che due donne abbiano ballato insieme.
Qui le poche straniere che entrano si limitano a prendere a piccoli sorsi il ruou ran e guardare noi orientali che balliamo e qualche volta, quando ci scappa, a vederci salire le scale. Ho sorriso e lei ha capito, ho ballato ancora con te due, tre volte.

Siamo finiti ancora nell’alone di quell’oscurità comoda e capiente, ma sinceramente mi domandavo quale fosse il vostro rapporto, e che c’entravo io in tutto questo, tranne il fatto di cercarvi una casa.
Quando ti ho detto che avevo trovato una casa con veranda non hai neanche voluto vederla. “Meraviglioso, quando possiamo andarci?” Tua moglie mi ha solo chiesto se c’erano zanzariere alle finestre, nulla di più, neanche, che so io, la grandezza o quanto era distante da quei colpi che ti fanno sentire la morte vicina.

Qui le case non sono troppo accoglienti come invece, mi dicono, a Parigi e Londra. La vita di ogni giorno si svolge ai bordi delle strade, sopra marciapiedi inventati di terra e di spago o lungo le rive dei tanti canali, dove ci si sposa e da qualche tempo si muore. Lì viene celebrato anche il rito del cibo, per festeggiare il buon Dio e ringraziarlo perchè anche oggi ci ha fatto campare.
Le donne al mattino portano pentole e fornello e cucinano per la propria famiglia e per chi si ferma per caso. Una zuppa “pho” non si nega a nessuno, il frutto del drago verde è ben augurante.

Lei è entrata per prima e senza badare ad altro si è tuffata vestita sul letto. S’è addormentata di colpo. Ti ho chiesto se avevi i piedi stanchi e se volevi un massaggio, mi hai guardata strano ed io ho sorriso. Ero contenta di poterti servire, d’accarezzare i tuoi piedi dentro un catino d’acqua bollente. Ho cominciato a massaggiarli e tu hai cominciato a conoscermi. Sentivo gonfiare il tuo cuore fino a comprendermi tutta, certa che i tuoi piedi non avrebbero fatto più a meno delle mie mani.
M’accarezzavi i capelli, seguivi con le dita il verso del mio naso accennato, sentivo e sapevo che da quella sera non sarei più stata una delle 150 fanciulle.

Mi hai offerto dieci sterline a settimana, noi con cento compriamo una casa, naturalmente non questa, noi con cinque ci compriamo una barca di fiume che ci serve per trasportare verdura, uomini ed animali da una sponda all’altra del fiume.
Ero felice e tua moglie dormiva, per me avrebbe sempre dormito, anche perché ero convinta che di un sogno non si butta via niente, nemmeno il fastidio di mosche e zanzare che di notte sarebbe rimasto.

Tu sei andato a dormire insieme a tua moglie, io ho girato ancora per casa. Veramente non sapevo cosa stavo facendo e perché ero lì, se dovevo sbrigare faccende o sentirmi solo un’amante.
Rannicchiata nel letto ho sentito una pioggia più fitta che ingrossava il canale ed annacquava il mio cuore. Sono rimasta sveglia a pensarti, tutta la notte, a simulare l’amore che non era venuto, ma a cosa sarebbe servito?





Tua moglie


Il giorno dopo sei partito per il nord dove la guerra vera non fa distinzioni. I comunisti avevano ripreso l’offensiva ed i francesi indietreggiavano facendo terra bruciata. Ogni tanto m’interrogavo su cosa fosse la guerra, ma non parteggiavo per nessuno dei due, volevo solo che finisse al più presto e che la Maison Rouge rimanesse in piedi al proprio posto.

Non sapevo che dovessi partire. Ho pianto di nascosto, non per la tua assenza, ma più che altro perché non me lo avevi detto. Che stupida! Cosa potevo pretendere?
La mattina con tua moglie siamo andate a passeggiare lungo il fiume. Un soldato francese ci ha scortato al di là dell’unico ponte. Era bella tua moglie, portava un vestito a fiori trasparente dove seminascosto prendeva luce un seno ben fatto. Aveva legato i capelli che uscivano a coda sotto il cappello, era felice di essere lì con me, e io mi domandavo cosa tu non trovassi dentro quel corpo, sotto quella pelle che odorava di sole.

Ha raccolto una spiga e mi ha legato i capelli seguendo con le dita lo stesso percorso del profilo del naso, come avevi fatto tu la sera precedente, ma lei era andata oltre entrando con l’unghia tra i miei denti fino a sfiorarmi leggera il palato.
Senza rendermene conto ho leccato quel dito rimanendo delusa quando di colpo l’ha tolto. Ho visto un’ombra tra i suoi occhi.
“Sai Numi, noi siamo girovaghi del mondo.” Non sapevo bene cosa mi volesse comunicare. Ha aggiunto che da anni ti seguiva e come reporter di guerra non avevate mai vissuto un mese tranquilli. Sentivo che t’amava, ma non mi sentivo di troppo ed un abbraccio più forte mi ha strozzato il pensiero.
Ero imbarazzata, ho tentato di sottrarmi all’abbraccio.

Il soldato francese che non ci aveva perso di vista ci ha aiutate a salire su un battello. Tua moglie si è seduta sul bordo della barca, il vento le gonfiava la gonna. Osservandola sembrava come se da un momento all’altro avesse dovuto volare, spiccare quel volo che solo il giorno prima nella Maison m’avrebbe fatto fatica soltanto pensarlo.

Lungo i bordi del fiume c’erano palafitte e vita, uomini cotti dal sole che s’affannavano per tanto e per niente, donne senza figli, puttane senza mutande, come me dentro la Maison che aprivo le gambe alla musica leziosa, al primo che mi parlasse in francese. S’insinuava tra la carne più rossa, illudendomi che non ero fatta soltanto di calli, che gli uomini tutti erano rimasti sull’orlo di questo piacere, come indiani correndomi intorno, lasciando che il fuoco si estinguesse all’alba da solo.

Lungo lo scorrere d’acqua c’erano ombre piatte senza una forma, vagavano per ricongiungersi ad un corpo qualunque che le avesse dato ancora il diritto di vivere, e alla luce il potere di non farle morire. Donne e topi distrutte dalla fatica, chissà se avevano mai provato l’amore? Come me che avevo incontrato finora solo amori finiti e promesse tante, che avevano speculato sui ricordi per sentirsi essenziali, menzogne, bugie che non conoscono più la causa per le quali sono nate dentro questo vento che soffiava, dentro questa brezza che mi faceva d’oca la pelle.
Sentivo il bisogno di scendere a mare, d’essere parte integrante di questo vociare, d’essere causa ed effetto dell’amore che incerto acquistava una forma di donna. Chissà perché lei m’aveva sfiorato con un dito il palato? Rimanevo immobile ad aspettare un vortice di vento che le scoperchiasse la gonna, che facesse apparire la sua pelle almeno nuda, almeno bella perché di nient’altro potesse andare più fiera.

Cosa mi stava succedendo? Avrei pensato le stesse cose se avessi avuto un uomo, un uomo soltanto? Se tu m’avessi scopata la sera prima? Attratta com’ero da quella gonna leggera, che vezzosa faceva l’amore col vento e si gonfiava per ore cercando d’essere parte del mondo, senza aspettare le ombre che vagavano rimanendo sugli orli a girare.
Sentivo il bisogno di sgretolarmi, essere il nulla per non sentirmi inutile, per entrare facilmente nei vuoti senza per forza doverli riempire.
Lei era lì davanti a me, con il suo cappello eccentrico che mi sorrideva e poco dopo si perdeva muta nel labirinto dei suoi pensieri irrequieti guadandomi come una ragazzina che chiede ossessiva una piccola moneta. Poi riprendeva a sorridermi ed io ero contenta, ricambiavo d’istinto quel ghigno di intesa come se la mia felicità dipendesse dal suo stato d’animo.





Moulin Blanc


La sera abbiamo mangiato al Moulin Blanc. Da queste parti è strano vedere due donne sole che mangiano allo stesso tavolo. Allora ho capito che non cercavi un’amante, che stavo lì per far compagnia a tua moglie.
Quella sera ero arrabbiata con te, col mondo, perché non si può chiedere ad una ragazza di Saigon di servire una europea. Non si può chiedere ad una ballerina a tariffa di dipendere da una donna.

Quella sera tua moglie era affascinante, una signora di classe, disinvolta e preziosa. Abbassavo gli occhi per paura, stava succedendo qualcosa che non capivo. Mi sentivo felicemente sorpresa di spartirmi, spicchi di cuore che provavano amore per persone diverse, sessi diversi.
Oddio che scandalo dentro le mie membra quando tua moglie mi ha confidato d’aver paura la notte a dormire da sola. Quella notte avremmo dormito insieme nel letto a baldacchino, senza mosche e zanzare, senza un uomo a farci sentire più donne.

Io ti amavo e mai ti avrei deluso. Sapevo che per conquistarti avrei dovuto obbedirle, entrare nelle vostre regole, penetrare nella vostra ragione di stare insieme. Altrimenti perché mi avresti ospitata nella tua casa?
“Numi, voglio che tu stia qui con noi. Per un po’ non dovresti frequentare la Maison.” Mi avevi detto la sera precedente mentre ti massaggiavo i piedi.
Naturalmente ero contenta, felice di servirti, ma non ho risposto perché tu conoscevi già la risposta.

Ma ora stava accadendo l’impossibile! Ti amavo, e sentivo l’impellente piacere di far parte del vostro mondo, dei vostri segreti che su quella tavola cominciavano ad avere una forma. Avevo capito sai! L’avevo capito da quel sorriso di tua moglie lungo il fiume, da quell’abbraccio davanti al soldato francese, ma per me era la prima volta e sentivo evidente il disordine dentro il mio cuore.
Il ritorno a casa nemmeno me lo ricordo, ma ricordo le sue mani che sentivo esperte tra i miei seni, la sua volontà ferma e troppo decisa per un cruccio venuto all’istante.

Si è accesa una sigaretta appoggiata alla spalliera del letto. Vestita e con le scarpe mi reclamava. Delicata mi spingeva, mi spingeva in basso per farmi capire il punto preciso dove sgorgava il piacere.
M’ha chiesto di spogliarla senza mai avere il minimo dubbio che potessi rifiutarmi. Sapeva già che non l’avrei mai fatto. La mia bocca era impastata per l’emozione, curiosa di scivolare lungo quel corpo caldo e umido sotto le lenzuola.
Era la prima volta che sentivo in bocca un sesso di donna, un sapore deciso di pelle e di voglia come un odore di casa chiusa da tempo. Succhiavo e leccavo senza rendermene conto che le stavo dando piacere, allibita che senza un pene di mezzo si potesse comunque saziare la voglia.

Lei gemeva e spalancava le gambe per farsi più aperta e generosa, per sentire oltre le pieghe la mia lingua incessante. Mi supplicava di non smettere, di indurire la lingua e darle la forza per insinuarsi contro corrente, e continuare in un vortice dentro come la danza di un piccione che tuba finché il giorno domani fosse rimasto a dormire dall’altra parte del mondo.

Mi chiamava tesoro come un uomo normale, mi graffiava i capelli come una donna che non l’aveva mai fatto. Leccavo senza rendermi conto che non c’era differenza tra femmina e maschio, leccavo e capivo quanto quell’aria di donna borghese fosse solo apparenza, quanto le vostre indifferenze, l’ostinazione di non concedersi all’altro.
Capivo sai quei suoi momenti d’assenza, quegli occhi irrequieti che ora erano solo un incanto a guardarli e farci l’amore.
Ed a poco a poco in me qualcosa cambiava, sentivo il piacere nel cuore di far godere una donna, speravo che mai smettesse d’urlare, di gonfiare il petto che chiedeva altra saliva. E succhiavo leccavo saltando dal seno al suo sesso come un’ape si sazia di fiori, perché dietro ad ogni respiro c’eri tu e c’era lei, in un infinito gorgo di passione e d’amore, di cui io ero la causa, il rimedio alle vostre debolezze segrete.

Lei continuava a fumare come se quella sigaretta la facesse sentire più maschio, ed io a leccare per il gusto di sentirmi serva d’amore, ma padrona di quel corpo, di quella casa e di te al fronte che mi stavi pensando. Sfiancata ha goduto fino all’ultima goccia, ebbra di voglia m’ha cercata per l’ennesimo orgasmo che a differenza d’un uomo era dolcemente sfalsato.







 CONTINUA






 
 
 



Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
Photo  ChaoPavit

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