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Adamo Bencivenga
La madre e l'amante

Guardami ora, guarda i miei occhi, non ci sono parole
dentro questo silenzio, guardami dentro, guarda di
fuori, il giorno che cala e la notte si oscura, il
sambuco che mai ho voluto tagliare, la rosa mai nata e
il mandorlo in fiore, che gelido trema tra le maglie e
la trama, di fili passati recisi di netto, che
conservano intatti il sangue e la linfa, d’ombre e
ricordi mai sopiti nel tempo.
Guardami ora,
guardami ancora, infinita dolcezza come zucchero a velo,
sopra i tetti le case dell’inverno che smuore, dietro i
vetri appannati dal camino che arde, di castagne nei
ricci messe a seccare, quando cade la neve a stracci ed
a fiocchi, sui rami di pini, sulle primule in fiore,
sulla polenta fumante e sulle tagliole, di quando
bambino per mano a mio padre, di quando di notte
rimanevo nel letto, a dire preghiere e sperare che
invano, il calore di un bacio mi stampasse la fronte.
Guardami ora guardami come, nella sala da ballo la
domenica sera, quando ti ho vista ed invitata a ballare,
c’era un lento ricordo e tu portavi un fiore, un
garofano rosso in segno di pace, mentre di fuori c’era
odore di sangue, tuo fratello mi hai detto disperso in
Russia, una lettera in petto, il suo solo ricordo, mio
zio ti ho detto, portava il mio nome, chissà se in quel
posto hanno stretto amicizia, oppure, hai sorriso, è il
medesimo uomo.
Guardami ora, guardami sempre, per
tutte le volte affacciata al balcone, aspettavi
quell’ombra che spuntava lontana, oltre i binari, i pali
di luce, oltre quel muro la parietaria che cresce, la
cena, tuo padre, il fiasco del vino, la tovaglia a
quadri, le sedie di paglia, quei baci segreti sotto il
portone, la mano che sale, la guerra vicina, mai e poi
mai staremo distanti, domani per sempre, ti giuro mi
manchi.
Guardami ora guardami in viso, sono rughe
d’amore, crepe di cuore, di giorni spaiati ad inseguir
le parole, d’incurie di anni lasciati a svernare, m’avrà
detto che m’ama, m’avrà detto che chiama, di sensi di
colpa, di passi leggeri, la porta che sbatte, un
silenzio profondo, una tromba di scale, rumori di
tacchi, un’auto corre sfidando la notte, un uomo, un
cappello, un sigaro dolce, poliziotto m’han detto,
fascista ho pensato!
Dio come affondo sul tappeto
ormai muto, di tigli a betulle sulle foglie cadute, le
certezze ingiallite dall’usura del tempo ed incollo
figure sull’album vuoto, di mia madre allo specchio che
si trucca per ore, un profumo dolciastro e i suoi guanti
di pelle, una riga che corre lungo la calza, lo stesso
rumore, la tromba e le scale, la stessa divisa con le
stelle dorate, un uomo e un cappello, uno sportello che
s’apre, un’auto nera che s’allontana di notte, un bimbo
che gioca e si tappa le orecchie, un trenino di legno,
le farfalle in bottiglia, i gusci di noci che fanno la
gara, con le barche di carta nella vasca riempita.
Sentimi ora, sentimi adesso, senti il rumore della
pioggia che cade, senti il silenzio di una grondaia che
scola, perché ora sei qui infinita dolcezza e quello che
vedi è la somma degli anni, le bombe, gli scali di merce
e macerie, una tessera unta per il pane e le uova.
Perché quello che senti è la somma del tempo, per come
sorrido, per come ti stringo, per come ti amo in questa
notte che luna, t’illumina bella, ti vela e ti spoglia,
in un fremito breve che percorre la schiena.
Cercami ora, cerca la vena, l’unica e sola che irrora il
mio cuore, quella che sempre ha iniettato la dose, del
tuo essere femmina, dei miei disincanti, perché a
vent’anni è tutto dovuto, anche i sogni e quel seno che
sapeva di latte, perché a cinquanta i castelli di mare,
sono solo un mucchietto di sabbia bagnata, sono l’aria
che stringi più forte nel pugno, sono tuoni e rimbombi
che tornano e vanno, è mia madre che all’alba tornava
disfatta, sono risa per strada, un panettiere che canta,
un bimbo nel letto che dormiva per finta, la nebbia che
sale e forma una conca, dammi una zappa per fare una
buca, dammi una vanga che lo vado a piantare, l’albero
del mai e quello del sempre, per cogliere i frutti in
aprile avanzato, che giuro convinto saranno gli stessi.
Guardami ora, guardami sempre, adesso che l’aria è
un respiro pulito, ora che il vento ti sfrangia i
capelli, e riempie i polmoni e non ci sono sirene,
sottoscala e rifugi, il tuo terrore negli occhi,
guardami ora guardami sempre, che sorrido e ti guardo,
che ti cerco e sussurro, che mai potrò smettere,
d’amarti e sperare, nelle attese infinite, nell’evidenze
finite, per come ora mi parli, per come ti trucchi, con
le mani da esperta e i tuoi baci divini, la riga che
dritta scorre sotto la gonna, la stessa mi hai detto, la
marca e la trama, per farmi piacere e far sì che
ravvivi, la memoria e il sorriso, i suoi fianchi
fasciati.
Guardami ora, Dio guardami sempre,
siamo fatti di anni, di dolore e di rughe, di guerre
passate senza nessun armistizio, di madri e di figlie
perse nel tempo, di giorni passati a dirci ti amo.
Guardami ora, guardami sempre, non voglio sapere che
importanza ora abbia, se il rossetto è servito a
colorare una notte, oppure ogni volta a ripassare le
labbra, per condire quei baci che ora io sento, per
vedere due visi somiglianti allo specchio, di una donna
che guarda e l’altra di spalle, la madre e l'amante
spaiate in penombra, due figure distinte che ho amato
appaiate, che ora e per sempre nutriranno il mio cuore.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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