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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
LA FAVOLA BELLA




 
Sarà quest’inverno che le piace e la sfiora, sotto la nebbia che patina i tetti, d’una Roma ruffiana che la lascia in attesa, e da sola a pensare fino ad essere certa, che niente potrebbe scaldarle le mani, come quelle castagne che stringe gelosa, e bugiarde la illudono che il calore che sente, le arrivi tra poco dalle parti del cuore. Sarà il rumore dei tacchi sopra l’asfalto, il fruscio del nylon mentre cammina, fiera e di fretta come se avesse una meta, una sala di luci, uno sfondo di specchi, dove mettersi in posa e scoprire le gambe, tra mazzi di rose incastonate nei vetri, che la riflettono bella come una pietra preziosa, tra il lusso e lo sfarzo di un albergo di Roma. Perché sarà che da un mese non fuma e non beve, ed i suoi occhi al tramonto sono sempre più verdi, e qualcuno negli anni ci ha visto anche il mare, perfino quei boschi attraversati da fiumi, come queste scale di Piazza di Spagna, dove appena ventenne si sentiva una diva, magra e modella con le tette accennate, giovane ed acerba senza un filo di grasso, ma che ora nasconde come se davvero servisse, stringendosi in vita una cinghia di pelle, e lasciando ai suoi fianchi la parte abbondante.

Saranno questi balconi stipati di fiori, queste case che l’hanno vista perfetta, coperta soltanto di pelle di luna, che al tempo valeva una notte ed un’alba, ed oggi si ritrova una casa decente, prova provata d’essere stata poi bella. Perché gli anni che passano, passano ancora, e queste luci di sera che sanno il suo nome, le ingialliscono il viso come corredi ammuffiti, ma davvero vorrebbe trovarsi ora d’incanto, dentro questo albergo di specchi e di luci, con il tempo rimasto fuori per strada, con il freddo che vede dai vetri appannati, e seduta che aspetta un cenno e un sorriso, con gli sguardi degli uomini infilati nei seni, come se ancora ci fiorisse un bocciolo, e le sue gambe s’aprissero come un diurno, dove entri e non bussi senza aspettare, senza che un letto sia una siepe di rovi, di spine seccate che graffiano il cuore.

Portasse ancora la seta, coperta di pieghe di luce di luna, saprebbe questa sera dove portare le tette, per farne regalo e farne confronto, con le tante che ora danzano al vento, e si mettono in mostra a questo sole che rosso, non ci fa dubitare d’essere a Roma. Portasse almeno un cappello! Saprebbe dove farsi invitare, su quale sedia di paglia di Vienna, sfilare la calza e rubare lo sguardo, ad uno dei tanti che incerto si chiede, quale stoffa ricama ed orna il suo sesso, quale colore lo copre, quale pizzo lo sfiora, e d’incanto potrebbe apprezzarne la trama, e la morbida pelle di velluto di pesca, se solo abbozzasse un sottile sorriso, se solo galante la prendesse per mano, e volassero insieme nonostante i suoi tacchi. Portasse almeno dei trucchi! Fermerebbe la smagliatura con un tocco di smalto, prendendo del tempo per non esser scortese, perché una donna per bene non risponde all’invito, e fa cadere leziosa il primo saluto, e il secondo lo lascia sospeso nell’aria, finché al terzo annuirebbe con gli occhi e le ciglia, lasciando all’uomo l’invito più adatto, le parole più giuste per sentirsi regina, per sentirsi a suo agio nella favola bella. Lui si toglie il capello abbozzando un inchino, la chiama cherì, la chiama signora, aspettando paziente il momento propizio, ed anche se sa non perde la forma, magari acconsente, magari sorride, sussurrando mia cara quando porge la rosa, quando la invita su una carrozza che aspetta, di zucchero e legno a forma di zucca, quando dice al cocchiere con i guanti di pelle, di proseguire fin dove il sogno la spinge, che poi è un castello con i merli e le torri, che poi è un miraggio con quattro cavalli.

Saprebbe veramente ripagare quel garbo, sfogliandosi a strati le sottogonne di seta, in attesa che il cuore avverta un tremore, di freddo e trasporto in un brivido intenso, e l’odore che sale d’un ceppo che arde, si confonde al rumore di zoccoli in strada, sull’asfalto bagnato, nel suo cuore che gonfio, batte e s’illude che c’è altro stasera, e lei saprebbe come arrossire, e lei saprebbe tornare ventenne, ripagarlo per bene al contatto di pelle, fino ad illudersi dopo fatto l’amore, di macchiare di rosso le lenzuola di lino. Perché sarà questo vento che le taglia la gola, sarà questo freddo che fa voglia di culla, e questa luce più gialla ogni notte che passa, questi uomini belli che passano in fretta e le lasciano appena uno sguardo distratto, ma stasera davvero affogherebbe leggera, dentro un letto di piume ed onde di raso, nel mare di voglia che attutisce e dilata, e carica a miccia in attesa che scoppi, la favola bella attesa da anni, del cliente cortese che si innamora nel letto, e tutto questo darebbe un senso all’amore, che altrimenti sarebbe soltanto un regalo, che per anni ha trovato sul comodino di fianco.

Saranno queste castagne che stringe gelosa, ma tiepide ora non arrivano al cuore, e questa luna ruffiana che uguale promette, notti d’incanto e albe diverse, ma stasera davvero si sfilerebbe una calza, se solo servisse a costruirci un’attesa, e riprenderebbe senz’altro a fumare, se una donna che fuma all’aperto, col tacco che preme su questo lampione, non fosse soltanto che l’immagine antica, di una vecchia puttana davanti un albergo, che aspetta il momento per abbordare un cliente, uno qualunque purché abbia un compenso. Con fare distratto si slaccia un bottone, perché ci sia il posto per infilarci una rosa, o un sogno che la porti lì dentro in albergo, e la faccia specchiare sopra quel marmo, sopra i divani che sanno d’attesa, di caldo e di scale, d’amore ai piani, di tacchi che salgono verso la meta. Sarà tutto questo sul filo del sogno, che di colpo diventa banalmente reale, e stasera finirà come tutte le altre, perché al prossimo bottone s’avvicina il portiere, e con fare discreto le chiede d’andare, d’allontanarsi quel tanto per non destare imbarazzo, a questi uomini belli che sanno di buono, che sanno di forza, d’odore di maschio, di ville e piscine e il castello di prima, ed affabili entrano vestiti eleganti, sottobraccio a signore alte quanto un lampione.

Sarà perché non si sente all’altezza, e questi tacchi sono troppo marcati, che a vederli bene sanno di vecchio, e le fanno pensare che il suo seno stasera, non diventerà mai un giardino fiorito, perché nessuno si degna d’infilarci una rosa. Sarà questo vento che le svasa la gonna, il fruscio del nylon che sente ad ogni passo, sarà che si allontana e tutto coincide, come ogni sera precisa a quest’ora, come quel cliente che è arrivato in ritardo, ed ora in albergo la cerca con gli occhi, imprecando la sorte per non averla trovata, pensando ad un altro che si sta godendo il giardino. Come tutte le volte s’accontenta deluso, di quella alta, magra come uno stecco, vestita d’organza, di classe e di grazia, che parla di moda e snocciola d’arte, che beve un drink sul divano di raso, e vezzosa si muove ed accavalla le gambe, che sanno d’attesa, di scale e di caldo.

Sarà che stasera è una sera diversa, sarà questa Roma che ruffiana la spinge, a rimanere in disparte sfidando il portiere, a sentirsi già pronta per la favola bella, anche se ora li vede abbracciati, poi sorridenti che salgono ai piani, lui cortese le cinge i fianchi, lei leggera si lascia guidare, ed ora si spoglia al chiaro di luna, con i vetri aperti e le chiome dei pini, e mostra nell’ombra l’impalpabile sesso, e lo sprona e lo invita nella carne e le ossa, e si nega quel tanto per sentirlo vicino. Perché lui ora di sicuro ci sta facendo l’amore, con quel seno accennato a forma di pere, con quelle gambe gemelle spaiate al piacere, addosso ad un muro con le pareti di stoffa, poi sopra quel letto in penombra su Roma, e le dice amore, e le dice tesoro, le dice che mai ne ha vista più bella, signora e modella, ballerina di fila, amante sposata per solo una notte. Ma si vede distante che lui s’accontenta, si vede da un miglio che ha bisogno di altro, perché sul comodino è rimasto un bocciolo, e ora di sicuro lo sta guardando deluso, ma poi d’improvviso gli viene un’idea, si alza, si veste e lascia la donna, ansimante nel letto che chiede e reclama, e scende le scale e stringe la rosa, e scende di corsa perché non c’è tempo, perché ha capito che è stato il portiere, ad allontanare quel sogno, quel miraggio che torna, quel giardino che aspetta, quella favola bella, un presente abbondante a forma di seno, a forma di culla, di nido, di tana, per farci l’amore, per farlo fiorire.

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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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