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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La donna e il mare




 


Dentro un tramonto di Ostia si perde e si cerca, sulla sabbia ferrosa d’un lungomare sconnesso, che non ha mai fatto poesia a chi passa distratto e non lascia le orme per tornaci di nuovo. Sarà che ha messo le scarpe con i tacchi più alti, per lasciare dei solchi, indelebili e fondi, le calze più scure per sentirsi più sola, e non confondersi ora con le bocche di cani, che colano bave e portano sassi, che abbaiano al vuoto di spettri e padroni, alle tante mammine che rastrellano giochi, sparsi a quest’ora su tutta la spiaggia.

Sarà che porta un cappello e una gonna leggera, che a strascico danza e s’allunga ubbidiente, e il vento la imbroglia e inconsistente la sciupa, increspando la stoffa come coda di sposa. Ma davvero stasera sarà in cerca di altro? Di un pittore famoso che ne apprezzi le forme, e ne disegni il profilo, la sagoma bella, il seno e la bocca con l’acqua di mare?
Ha sciolto i capelli per lasciarli giocare, col vento che ad onde li curva e li arriccia, l’impregna di sale che secca la pelle, e le fa chiudere gli occhi ad un sogno qualunque, che nasce impetuoso nel ventre e si muove, come un bimbo che cresce fino a farla sentire, più donna e più madre prima del tempo.

Sarà che ora siede sopra questo tramonto, e lascia che l’acqua le bagni le calze, le inzuppi i talloni e continui a salire, finché l’umido penetri sotto la gonna, e le fiacchi e le sfiammi l’anima dentro. E’ bella e lo sente dall’acqua che sale, è bella e lo vede dall’impegno che mette, questa risacca che non molla la preda, questo rigurgito che s’ingrossa ogni volta, fino a che un brivido intenso la lascia sospesa, con le gambe in attesa per essere foce, per essere seno a questo mare che spinge, che sazia una donna vestita di nero.

Se sapessero gli uomini che ha avuto negli anni, che ad ogni tramonto si lascia guidare, dal mare che ignaro le dà brividi dentro, e si fonde alla voglia che opaca si sparge, in un vortice d’acqua che riprende il suo letto. Quante fatiche e strappi di cuore, quante rose all’ingresso lasciate seccare! Perché nessuno di loro ne ha scarnito il bisogno, e l’ha fatta vibrare avvampando le ossa, fino a ridurre all’essenza l’anima inquieta, a sostanza la pelle, a carne la voglia, per sentirla più mite genuflessa al bisogno, per sentirla più donna del sesso che porta.

Sarà che il tramonto s’allunga nell’ombra, dell’infinita ricerca di non essere sola, per non sentirsi spaiata quanto due calze, messe al buio di fretta dopo l’amore. Sarà che il vento le imbroglia i pensieri, e le scompone i capelli dopo ore allo specchio, e la fa sentire impaziente come fertile terra, come sposa novella al primo ritardo. Se passasse qualcuno vedrebbe una donna, che schiude le gambe con un cappello da sera, in preda all’oblio di sentirsi capiente, cullata dall’onda che a quest’ora s’ingrossa, e trasporta detriti con l’alta marea. Se passasse qualcuno! Ma chi vuoi che a quest’ora, s’inoltri ed apprezzi una spiaggia deserta, neanche più i cani che sbavano sassi, o pittori che intingono i pennelli di sabbia, e sfumano gli occhi con l’acqua salata! Chi mai a questo’ora può apprezzare una donna, che indossa impeccabile un vestito da sera, e s’appaga le voglie con gli avanzi del mare, e si sfama le cosce guardando il tramonto?

Alza la gonna ed apre le gambe, e s’affida alla brezza che le inumidisce la pelle, come se illusa potesse contenere ogni suono, ogni gabbiano e parola trasportata dal vento, come se tra le gambe scomparissero barche, e navi e battelli a vela e motore, che fitti s’accodano e fanno la fila, ed ormeggiano maschi in quel porto di mare. Sono pieni di gente, di mondi diversi, di lingue e di remi, di baci stranieri, e s’inseguono densi nell’intimo fondo, dove lento si scioglie un desiderio impellente, come fosse l’approdo dei loro bisogni, il frutto di semi lasciati infecondi, l’infinito che entra con la schiuma dell’onda, e gonfia e risciacqua il vuoto che sente, poi esce e rientra e gorgoglia nell’ansa, e fa mulinello corrodendo le sponde, come un fiume che corre e rapisce ogni cosa, poi lento alla foce ingentilisce i suoi modi, e accarezza la pelle e si deposita in mare.

Sarà che ogni giorno viene a sedersi, sulla luce imbrunita di questo tramonto, ed aspetta impaziente che il vento la sfumi, le sfami la sete d’essere parte del mondo, d'essere acqua, barca e orizzonte, d'essere pesce, corallo e conchiglia, e luna che gravida partorisce di notte, il sogno d’accogliere fino al chiarore dell’alba, quel sesso di maschio, quel ramo di pesco, che inerte galleggia e si lascia guidare, come ora lei sazia, ingozzata d’amore, nel punto preciso dove l’acqua ribolle, e si sente più piena, libera e sgombra, guardando un gabbiano che ha perso la rotta e gioca e si sfama coi pesci che punta.

Sarà che tra poco sarà notte soltanto, e lei s’alza estasiata, imbrogliata dal sogno, d’essere stata la donna del mare, la donna di tutti, d’odori e sapori, di vizi e d’amori mescolati dall’onda, da lingue diverse che le storpiano il nome, da sputi e bestemmie che la lasciano illesa, a pensare che domani ritorni convinta, e le orme dei tacchi rimangano intatte, per chi vuole seguirla, per chi vuole cercare, una donna distesa che porta un cappello, e fa l’amore col vento e la donna del mare, scontornata in simbiosi con questo tramonto, e s’inzuppa e si perde nell’infinito sussulto, che chiamano amore, che chiama bisogno.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo    Eden Halamish

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