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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Il mare scorre dai finestrini




 


 
 


Di sfide ne ha fatte fin da bambina, quando da sola col fiato sospeso, s’accovacciava carponi lungo i binari, per sentire il rumore del treno in arrivo, per essere pronta in quel lampo di corsa; e scopriva le gambe ed alzava la gonna, ed era un fremito ispido, ribelle e impunito, perché sapeva che non le era concesso, perché sapeva che era peccato, un’intima colpa che covava nascosta, tra le sue gambe scomposte e insolenti, che s’aprivano al fumo di legna e carbone, che s’aprivano ad un fischio intenso e distante e veloce avanzava perdendosi oltre. A volte un locale, a volte un diretto, ma bastava che fosse pieno di gente, che sguardi, che occhi la vedessero in posa, che mani, che braccia l’additassero a ressa, come luci su un palco per sentirsi una stella, per sentire reale un istinto bollente che denso saliva e le arrossava la faccia.

Ora quel treno lo prende ogni giorno, guardando il mare che scorre dai finestrini, guardando i terreni scoscesi di sabbia, che nutrono olivi e vigneti di rosso, e rischiarano ad onde carezze vicine, della sua mano che sale e che sfiora, le pieghe di luce intermittenti dell’alba, il seno ribelle che bianco si mostra, e sfrontato poi preme e dà forma al vestito. Dietro i suoi occhiali rinasce ogni volta, punta il suo sguardo fisso di fuori, lungo quegli alberi che si rincorrono storti, mentre accavalla le gambe che dritte, la fanno sentire unica e rara, come una perla incastonata nell’oro, come signora che s’incipria la faccia, dentro uno specchio impolverato di rosa, di luce che gioca e fa solchi con l’ombra, da dove riflette quello che offre, quello che a caso si lascia guardare, proprio come un tempo, tutti i giorni al tramonto, proprio nel punto dove alzava la gonna, dove dai vetri riconosce le case, i pali di luce che corrono contro, una bimba sfacciata che mostrava le gambe.

Ed il sogno prosegue finché un’ombra qualunque, si siede accanto e le sfiora la mano, senza conoscere almeno il suo nome, o dove stia andando, o da dove provenga, a quest’ora dell’alba senza una borsa, senza un ombrello per ripararsi dal sole. Gli viene naturale chiamarla signora, attendere il tempo che passa all’intesa ed allungare una mano e slacciarle il vestito, e scoprire il ricamo dell’ombra del seno, seguire il contorno e disegnare la forma, con il dito e la bocca e morderla ingordo, come da bimbo per sentirne il possesso, come da grande per averne ragione, per vederla obbediente che si lascia aspirare, tutta la voglia che fa sudore e consenso, tutto il piacere che fa brividi densi, come in un sogno quando tutto è concesso, che sia di moglie, di madre, sorella o d’amante, e l’uomo che succhia ha solo una bocca.

Per un momento la guarda e lascia la preda, come un cane che crede d’averle fatto dolore, e si pente e si scusa dentro attimi lunghi, vuoti, distanti, dove si perde l’incanto, d’una donna che chiede senza aprire le labbra, d‘un uomo sorpreso che non crede ai suoi occhi. Lei sente il respiro intorno al piacere, baci umidi e soffi increspati, baci di bocca che arrivano in fretta, di lingua che a tratti si ferma e riparte, e l’asciuga e la bagna in un incredulo giorno, che nasce e poi muore dentro questo vagone, di stazione in stazione, d’odori e di pieghe, sotto il suo vestito di foglie e di fiori, d’alberi nani e frutta primizia, di terra di bosco umida al tatto. Lei vorrebbe spiegargli almeno il motivo, l’emozione che sale, le sensazioni che sente, ma come potrebbe lui capire una donna, che da bimba scopriva il tesoro e la gonna, ed ora si lascia sgualcire le labbra, spostare la cinta che stringe i suoi fianchi, slacciare i bottoni se per caso li porta per liberarla di quello che s’annida e s’aggruma, come uccelli al tramonto che avvolgono i rami e s’accoppiano in due e s’accoppiano in tanti e rubano amore e qualche volta lo danno?

Lei intinge le dita dove si schiude e si sfiora, e sente l’odore di funghi a seccare, di pioggia d’agosto che bagna la terra, l’essenza che densa le fa battere il cuore, d’una bimba che corre insieme al suo cane, lo stesso profumo d’erba e calore, lo stesso fastidio d’ortica e sua madre, che chiamava distante il suo nome nel vuoto. Sussulta e poi offre le dita d’amore, all’incredula bocca che s’apre e si chiude, e verrebbe da dirgli che è ambrosia di dea, nettare e miele e grazia di ninfa, un regalo che viaggia su un treno all’alba, che porta una donna in dono nel mondo.

E’ un mattino troppo presto per sapere se piove, per cogliere il sole tra le chiome dei pini, dentro le case che si svegliano piano, che corrono svelte dai vetri del treno. E’ un mattino troppo presto per fare poesia, per sentire parole che colano miele, sulle dune di sabbia vergini e intatte, che bello, che voglia lasciare l’impronta, che bello, che voglia lasciarsi portare, dentro un Van Gogh in un campo di grano, dentro un Monet per una colazione sull’erba, e due giovani amanti vestiti di bianco, che fanno l’amore senza cercare un po’ d’ombra, e lui che sussurra e le bacia i capelli, e lei che poi fugge per lievitare la brama, con un tulipano sul seno e l’ombrellino da sole, con il vento che tira e fa la ruota alla gonna.

Lui avrà cinquant’anni o qualcosa di meno e chissà se è sposato, se ha dei figli già grandi, se stamane ha lasciato una donna nel letto, se ha fatto l’amore o l’ha baciata soltanto, se sopra quel treno ci passa mattine, e poi pomeriggi al ritorno più stanco, pensando ai risparmi che non bastano ancora, per una casa modesta col giardino sul fiume, per un cane che aspetta il suo ritorno la sera. Chissà se ha una figlia che si lascia baciare, accarezzare dal vento che asciuga le pieghe, le stesse di sera dentro quelle preghiere, le stesse di notte tra pianti e sudori, quando giurava sincera e convinta, che un altro treno non sarebbe passato, che un altro tramonto non l’avrebbe trovata, a spalancare le gambe al mondo che corre.

E’ bastato un secondo che poggiasse lo sguardo, e uno spicchio di gonna che a caso s’alzasse, per cogliere l’attimo, il momento solenne, per spalancargli quegli occhi che sanno di mare, e sanno di more, di lamponi e di spine, che graffiano i seni e le arrossano il ventre, e sanno di campo dove la terra l’avvolge ed il grano la copre e la solletica dentro. Eh sì, lui avrà il doppio dei suoi anni, la metà dei suoi sogni, ma la stessa incoscienza di fare l’amore, in questa carrozza di polvere e sporco, che ora si ferma e salirà altra gente, odori diversi che sanno di case, di fritto e caffè e dopobarba da poco. Ma ora sono soli e nessuno s’è visto, un treno per due come un letto di casa, come un’alcova di amanti segreti che si danno per niente, che si danno per tanto. Ora lui le sfila la gonna e le scarpe, ora lei è nuda e per questo si offre. E se venisse qualcuno? E se chiedesse il biglietto? Non vedrebbe una donna nuda e matura, ma solo una bimba che recita a mazzi, canzoni che al tempo non avevano un senso, ed ora sanno d’amanti, di prostitute e signore, che donano rose in mezzo le gambe, che offrono latte a piccoli sorsi.

Ora lui ha fretta e si fa maschio impaziente, manca una fermata o almeno lei pensa, ed è proprio così che nel sogno lo vuole, così che si prende una donna in attesa, come fosse un diritto, un dono di Dio, un giornale gratuito sotto la metro, e chissà cosa vede mentre lei si dona, forse un difetto, una ruga di troppo, il gonfiore degli occhi stropicciati dal sonno, forse gli slip lisi e da poco, e lei giura che la prossima volta si veste e si trucca, si lava i capelli col sapone di viole. “La prossima volta? Ma che dice?” Lui è l’attimo che consuma un ricordo, un lampo nel cielo che ti acceca la mente, una bimba insolente che scopre le gambe, un treno che corre su un binario già morto. Perché lui non esiste, ma c’è solo l’odore, un’ombra nel sogno, un impalpabile niente, che riempie la pelle e sazia l’istinto.

Ora lo sente, sente il suo respiro farsi più corto, per istinto lo bacia e lui dice che l’ama, per istinto sussurra amore e quant’altro, e tocca, la tocca senza creanza, e tocca quel sesso che sottovoce bisbiglia, col nome volgare che il desiderio gli impone, ancora stordito d’aver trovato due gambe, che docili s’aprono senza chiedere in cambio, nemmeno un nome per far battere il cuore, nemmeno un fiore per darsi un pretesto, e una ragione per essere certa, che stamattina davvero abbia fatto l’amore.

Ecco lo sente! Che spinge, che scava, che si ferma e riparte dove da anni non c’era che sabbia, che terra arida quando non piove, crepe profonde che s’allungano storte. E lui corre veloce e il fiato s’ingrossa, la bagna, la sfiora sotto i capelli, la sua bocca sa di lei, di seno e di more, poi la guarda, si riprende e sorride, come un bambino che smette di piangere, come un vecchio che ha bisogno di cure, lei gli offre le dita perché siano ciuccio, lui le assapora, le morde, le bacia e le succhia, lei lo abbraccia, lo stringe per fondersi contro, s’incurva e s’annoda perché l‘anima in fondo, sia madre di terra che nutre il suo grano, sia mosto di vino che inebria la sorte, sia enclave di mare, rifugio d’inverno, per uccelli migranti che cercano il sole.

E lui corre senza pause e punti, salta ed attera tra gli arbusti e le fratte, e stazioni e paesi, e salite e discese, e ponti e dirupi e gole profonde, e la cerca e la trova ovunque lei vada, negli anni passati, sui binari del treno, dove un tempo s’accovacciava in attesa, dove ora la trova e scardina porte, nel ricordo più intimo delle sensazioni d’allora, che dense arrancavano tra le spine dei rovi, proprio come lumache dopo la pioggia, per poi fermarsi come lucertole al sole, per poi scattare al primo segno distante, perché lei correva al primo fischio lontano, perché lei correva al passaggio del treno, e lasciava ogni cosa che stava facendo, lungo quei campi per ritrovarsi da sola, tra ciuffi di erba che solleticavano il ventre, tra i nodi di rami che la facevano grande e scappava ogni volta incontro al piacere, col rossore sul viso di pudore e vergogna, ma con la certezza che un giorno lontano, avrebbe preso quel treno senza sapere per dove.

Ma lui non capisce, per lui è solo una donna, è sesso ed è tana, un secchio sotto la pioggia, un biglietto per il circo alla festa del santo, una bambola vinta nel tiro a segno di sera, e lei è la ladra di brividi a pelle, lei è il silenzio dopo una strage, perché ora esplode in un fragore di carne, di braccia, di gambe, di sangue che scorre. Eccola ora, non ci sono fermate, eccola ora, tra le ossa si svuota, un fiume in piena che tracima voglia, e straripa melma, detriti degli anni, ed invade le case, e fertilizza la terra, mentre cala la notte, il giorno, il tramonto, come se niente avesse uno stacco, un bordo, un confine, una linea o un segno, una sponda, una diga, un sogno da sveglia, e tutto girasse, girasse in silenzio…

Il mare scorre dai finestrini, d’un treno che scivola lungo i binari, lungo le onde di carezze vicine, d’una voce insistente che la chiama signora. “Mi scusi. Questo treno non fa più fermate! S’era addormentata e ho pensato di svegliarla. Mi scusi tanto se mi sono permesso.” Lei sorride ma nei suoi occhi lo stesso terrore, di quando sua madre la veniva a cercare e interrompeva per sempre quel sogno infinito, di bimba dabbene vestita di bianco, che s’alzava la gonna ed apriva le gambe, agli occhi del mondo, ad ogni passaggio di treno.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo   Evan Pratama Ludirdj

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