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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Capodanno




 


Immagina loro insieme, fusi e contenti, scendono le scale avvolti in un sogno, qualcuno spara un colpo, ma non è ancora mezzanotte, lei piccola s´appoggia, lui grande la tiene, lei petalo e corolla, lui gambo e fusto, ed arrivano in piazza ed iniziano le danze, stretti abbracciati come in luna di miele, ecco immaginali ora dentro una nuvola bella, dentro una favola tra nani e folletti, avvolti in un manto di zucchero a velo, di sconfinata dolcezza, di smisurata incoscienza, di lei che oscilla e impalpabile ondeggia, ecco immagina lei con le scarpette da ballo, un tenue rosa di stoffa di raso, lei messa in piega, lei boccoli d’oro, lui labbra carnose e sguardo profondo.
Ecco immagina lei, profumo d’attesa, immagina lui muscoli e barba, capelli lisci, brillantina e lavanda, lui luce e buio, orologio a cipolla, lei pallida luna ed ombra sfumata, ecco immagina lui che la solleva con un niente, e con un niente la porta sull’asfalto bagnato, che riflette il vestito, le scarpe, il rossetto, sotto il solo lampione in mezzo alla piazza.

Li vedi vero, vedi la piazza? Alza gli occhi, sta nevicando, a piccoli fiocchi, stelline leggere, farina di scena, zucchero a fili, poi sempre più fitti, a grani e a crusca, sulle spalle bianche, nude di lei, sulla giacca di raso, nera di lui, e tutt’intorno nessuno, e tutt’intorno un omino, con i baffi e un violino, con il frac e il cappello, che gira intorno a passetti veloci, che gira e si siede sulla panchina di marmo, ha una giacca a scacchi, rosa e marrone, pantaloni al ginocchio e la faccia dipinta, ed intona le note di un valzer nostrano, il Carnevale di Venezia, in un allegro a tre tempi, con le corde e l’archetto, con le mani e la bocca, in un composto di suoni che si sparge e si fonde con un fruscio di scale di un solfeggio di passi.

Immagina lui, ghiaccio bollente, immagina lei quiete e frumento, lui ferro, morsa, tenaglie e manette, lei vela, carillon, profumo di viole. E sono baci e carezze, movimento di labbra, per andare a tempo e a passi perfetti, e lui che la guida e lei s’abbandona, lei rosa legata ai boccoli d’oro, lui gardenia che spicca sulla giacca di raso, in una danza infinita nella piazza deserta, solo un violino, solo un omino, e tanta neve che scende, una cascata di luci, minuscole e fitte, fosforescenti nell’aria, d’azzurro e turchese, di viola e di verde, ora sparse per terra in uno strato sottile, come zucchero a velo su una torta di miele.

Ecco immagina ora altri violini, e fiati e corde e nani bambini, e voci e tasti e suoni lontani, come se provenissero dalle cime più alte, e giù per la valle tra i vicoli stretti, invadendo le case, le stanze e i cortili, prima una e poi altra, si accendono luci, e s’illuminano finestre e si spalancano scuri, e la piazza a poco a poco si riempie di voci, di suoni e d’accordi, di corde di piani, e diventa un palco, sipario e platea, e l’omino un’orchestra di mille elementi, maestri e giocolieri, clown e sapienti, e donne eleganti in finte pellicce, rossetti sbordati, lustrini e paillettes, e gli uomini tutti con le fronti imperlate che non è neve e nemmeno sudore, ma pensieri bollenti che s’affollano a sera.

Ecco li vedi? Immagina ora che si formino coppie, non ha importanza l’età, il ceto, l’altezza, nemmeno l’odore, la lingua, la pelle, ecco immagina il cielo che di colpo schiarisce, e sono fuochi d’artificio e scie luminose, e stelle filanti e luci accecanti, e vino tinto che a fiumi trabocca, e birra bionda al profumo di malto, come alla festa del santo patrono, con le vergini in fila e le mogli disposte, a chiudere un occhio, ad annusare altri fiori, perché sono baci folli e saliva dolciastra, palpate di seni, palpate di fianchi, a volte furtive, a volte evidenti, che fanno buon sangue grasso e voglioso, di sederi abbondanti che si fanno toccare, di labbra a ciliegia che gonfie si danno, e grida gioiose, di slanci e furori, che nessuno più sente di voler soffocare, nonostante l’ora tarda, i divieti e i permessi, nonostante una schiera di poliziotti e gendarmi .

E allora immagina pure che la voce si propaghi, per i paesi più vicini, per quelli lontani, e scendano pastori, le scrofe e i maiali, e scendano le maschere, i trucchi coi pagliacci, e tutti insieme ballino, i sani con i malati, i giusti con i furbi, i grassi con i magri. Ecco immagina una giostra e croccanti e noccioline, orecchini e messa in piega, alcol e nicotina, e la notizia come fama corra senza fiato, e valichi montagne e solchi ogni mare, ed ogni piazza principale sia un grande carnevale, e chiasso, passatempi, colori e confusione, perché una troupe televisiva manda l’evento, e in ogni zona della terra nasca un focolaio, ed ogni piccolo paese diventi un circo equestre, e attecchisca dove trova fertile la noia, dove l’albero dell’uggia finora ha dominato, il normale sul diverso, il metodo sull’imprevisto, e tutto il mondo conosciuto ne venga contagiato ed in tutto l’universo si propaghi quel batterio, quel germe di follia finalmente liberato, finché una luce nuova li sorprenda tutti insieme, e la noia sia sconfitta e l’abitudine repressa, ed un sorriso luminoso, grande quanto sia un sole, possa all’orizzonte finalmente albeggiare, possa ogni sera dire: “Vestiti che usciamo”, possa ogni giorno essere, per sempre Capodanno.
  

   







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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo    Mojlo

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