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GIALLO PASSIONE 
Maria Martirano Fenaroli
Il delitto di via Monaci
Roma, settembre 1958,
una bella signora di 47 anni viene trovata morta nel suo
appartamento di via Ernesto Monaci 21, una tranquilla strada vicino piazza Bologna...

Le strade di Roma puzzavano di pioggia vecchia e
sigarette umide, quel tipo di odore che si attacca alla
pelle come un rimpianto. Era il 10 settembre 1958, e la
radio mandava Volare urlata da Domenico Modugno che
quell’anno aveva vinto Sanremo. I più giovani invece
ascoltavano Diana di Paul Anka e lo strillone di Tony
Dallara con “Come prima, più di prima ti amerò…”
Via Ernesto Monaci, una strada nel quartiere
Nomentano, proprio dietro il palazzo delle Poste di
piazza Bologna, era uno di quelle vie dove i borghesi
fingevano di essere felici, con le persiane socchiuse e
i sogni di ricchezza che filtravano dalle fessure. Al
numero 21, al primo piano, Maria Martirano viveva la sua
vita di esilio dorato: quarantasette anni, originaria di
un Sud polveroso e dimenticato, con un passato che
sussurrava di incontri a pagamento prima di diventare la
signora Fenaroli.
Infatti negli ’30 come
risultava dagli schedari della Buoncostume la donna
aveva esercitato la professione in una casa chiusa. Il
suo matrimonio con l'imprenditore mostrava da tempo
delle crepe vistose: il marito Giovanni, un geometra con
le mani sporche di cemento e debiti, tornava a Roma solo
nei fine settimana, il resto della settimana lo passa a
Milano, in Via del Gesù, nell’Ufficio della sua Ditta di
costruzioni, la “Fenaroli Imprese”, tra affari, debiti,
cambiali e amanti.
Moglie e marito erano di fatto
separati da cinquecento chilometri di rotaie, rancori e
un matrimonio arrivato al capolinea. Comunicavano solo
per telegrammi e telefonate fredde, lei a Roma con i
suoi silenzi, lui a Milano con i suoi calcoli sempre in
rosso.
Quella notte del 10 settembre, l'aria era
pesante, carica di un silenzio che anticipava il tuono.
Maria era sola avvolta in un’elegante vestaglia a fiori.
Sempre curata e ancora desiderosa di sguardi maschili
fumava una sigaretta dopo l'altra, lasciando mozziconi
sul pavimento della casa come briciole di una favola
ancora da scrivere. Stava ascoltando la radio quando
qualcuno bussò alla sua porta…
******
La
mattina seguente la domestica Maria Teresa arrivò alle
8:27 con in mano la borsa della spesa con una busta di
latte e un chilo di bollito comprato dal macellaio lì di
fronte. Suonò. Una volta. Due. Tre. Il campanello
rimbalzò come il rumore di una pallottola in una stanza
vuota. Nessuna risposta. Pensò che la signora quella
notte avesse esagerato con il sonnifero e aspettò seduta
sulle scale.
Dopo una decina di minuti provò
ancora e a quel punto spazientita suonò al campanello
della porta accanto: “Signor Alfredo, mi apre?” Alfredo
Ruggieri, ex carabiniere in pensione e vedovo da un
anno, aprì la sua porta: “Che succede Maria Teresa?”
Disse con indosso una vestaglia da camera. “La
signora non risponde. Sono preoccupata.” Ruggieri non
fece domande. Rientrò in casa, uscì nella chiostrina e
scavalcando il piccolo divisorio di vetro che divideva i
due balconi entrò in casa della signora Fenaroli.
L’odore lo colpì subito: tabacco freddo, profumo di
violetta e qualcosa di più acre, di metallico. Poi la
vide. Maria Martirano era lì in cucina, supina, tra il
tavolo e il frigorifero. La vestaglia a fiori
slacciata, una gamba, fasciata da una calza nera,
ripiegata sotto il corpo come se si fosse addormentata
di colpo. Ma purtroppo non stava dormendo. Il collo era
una mappa di lividi viola. Gli occhi aperti, vitrei,
fissavano il soffitto. Un filo di saliva secca
all’angolo della bocca.
Ruggieri si chinò. Non
toccò nulla. La casa era in disordine, la moca ancora
sui fornelli. La porta di casa era chiusa a chiave.
“Chiama i carabinieri. Qui è tutto in disordine.
Sicuramente una rapina!” Gridò. La domestica, che era
rimasta sul pianerottolo, bianca come il latte che aveva
comprato, non si mosse. L’ex carabiniere aggiunse: “Era
viva ieri sera. Alle undici l’ho sentita parlare al
telefono. Ho sentito la voce attraverso il muro. Molto
probabilmente qualcuno è entrato dopo.” Guardò la porta.
Nessun segno di scasso. Solo silenzio.
Roma, 11
settembre 1958, ore 12:45. Squadra Mobile, via San
Vitale. Ugo Macera, ispettore capo, aveva la cravatta
allentata, la fronte sudata e il pacchetto di Nazionali
già mezzo vuoto. Sul tavolo, il rapporto preliminare:
tre fogli dattiloscritti, macchie di caffè, impronte di
pollice. “Riassumiamo.” Disse, senza alzare lo sguardo.
“Donna strangolata. Nessun segno di scasso. Marito a
Milano, alibi di ferro.” Pensò ad una rapina. Nicola
Scirè, il vice, disse: “Capo, questo è un ladro molto
particolare, bussa, si fa aprire da una donna sola in
casa, entra, uccide, rovista tutti i cassetti, poi
chiude a chiave la porta di ingresso e se ne va col
mazzo di chiavi della vittima.”
Macera scosse la
testa. “Tutto troppo lineare. Qualcosa non va. E la
Martirano?” Scirè rispose: “Da quanto sappiamo era una
donna timorosa, l’anno scorso aveva subito un tentativo
di furto e da quel giorno non apriva nemmeno al lattaio
di giorno figurarsi a uno sconosciuto a mezzanotte!”
Silenzio. Macera guardò di nuovo le foto della scena del
delitto. La vittima era distesa sul linoleum, il collo
viola, le dita ancora contratte. “Guarda qui!” Indicò il
polso sinistro. “Segni di manicure fresca. Unghie
laccate. Ma il medio è spezzato. Si è difesa. Ha
graffiato.” Scirè si sporse. “E allora perché non c’è
sangue sul pavimento? Solo un filo di saliva.
L’assassino era uno che sapeva dove mettere le mani. Un
professionista, non un topo d’appartamento!” Macera
accese un’altra sigaretta. “Chiamiamo il marito. Diciamo
che vogliamo solo chiarire un paio di dettagli.”
Milano, 11 settembre 1958, ore 14:12. Giovanni
Fenaroli era nel suo ufficio in via Turati, dietro una
scrivania ingombra di fatture e bollette rosse. Il
telefono squillò. “Signor Fenaroli, parla l’ispettore
Macera dalla Questura di Roma.” “Ho saputo. Una
tragedia. Sono sconvolto!” La voce calma con un’ombra di
tremore. Deve venire a Roma. Domani. Occorre
procedere con l’identificazione della vittima. Una
formalità.” “Certo. Prendo il treno delle 19.” Poi
si informò se la vittima tenesse in casa dei gioielli e
dei contanti.
Roma, 11 settembre 1958, ore
16:45. Lo stesso giorno l’ispettore capo tornò in via
Monaci nel pomeriggio. La Scientifica aveva finito:
nessuna impronta diversa da quelle della vittima e della
domestica, nessuna traccia dei gioielli, quindi un
ladro, ma la cosa strana è che non era stata ritrovata
alcuna impronta sul telefono all’ingresso, neanche della
vittima! Quindi il ricevitore era stato pulito.
Macera sul pavimento del corridoio notò un mozzicone di
sigaretta Nazionali col filtro schiacciato a metà! “La
Martirano fumava Alfa senza filtro…” Disse Scirè. Macera
si chinò. “Strano questo ladro che fuma, ripulisce il
telefono e chiude la porta a chiave.”
L’ispettore si grattò la nuca. “Se non ci sono chiavi in
giro è evidente che l’assassino le ha portato con sé.”
Scirè più dubbioso del capo disse: “Quindi l’assassino
non aveva un duplicato, quindi la vittima gli ha aperto.
La testimonianza del carabiniere, vicino di casa, ha
confermato che la signora alle undici era viva, quindi
non mi spiego come una signora così timorosa abbia fatto
entrare in casa sua uno sconosciuto a quell’ora.”
Macera a quel punto ebbe un lampo di genio: “E se
qualcuno l’avesse avvisata con quella telefonata?”
Spense la sigaretta sul pavimento. “Controlliamo le
chiamate di ieri sera, tra le 22:30 e le 23:30.”
L’addetto della SIP ci mise dieci minuti per
controllare. A quell’utenza risultava una sola chiamata.
Da Milano, cabina pubblica di via Manzoni. Alle 23:07.
Durata: 42 secondi. Macera chiuse il taccuino. “Il
marito dice di aver chiamato dall’ufficio alle undici.
Ma l’ufficio chiude alle otto.” Scirè fischiò piano.
“Bingo.” Macena guardò fuori dalla finestra: Roma era
già buia, le luci gialle dei lampioni sembravano candele
funebri. “Domani arriva Fenaroli…”
Roma, 12
settembre 1958, ore 17:03. Questura, stanza 12.
Giovanni Fenaroli sedeva su una sedia di legno in
penombra, le mani intrecciate come in preghiera. Aveva
gli occhi arrossati: “Mia moglie… era tutto per me, l’ho
chiamata alle 23:05 per dei documenti che avevo lasciato
qui a Roma. Ero in ufficio. Poi sono andato a casa. Alle
23:45 ero già a letto.” Macera non batté ciglio:
“Strano. Il centralino della Fenaroli Impresa chiude
alle 20. E la guardia giurata dice che alle 20:15
l’ufficio era buio.” Fenaroli deglutì. “Allora… forse
dalla cabina di via Manzoni. Sì, ricordo. Pioveva, ho
preso un taxi.” Macera accese una sigaretta. “Taxi preso
alle 22:58, arrivato in via Manzoni alle 23:02. Chiamata
alle 23:07. Durata 42 secondi. Troppo breve per parlare
di documenti, troppo lunga per dire “buonanotte.”
Fenaroli si asciugò una lacrima con il dorso della
mano. “Dovevo solo comunicarle che sarebbe passato un
corriere, un certo Rossi. Per ritirare dei documenti
urgenti.” Scirè alzò lo sguardo poi chiese. “Ci
racconti la telefonata.” “Composi il numero di casa e
Maria mi rispose con la voce assonnata. Le dissi che
sarebbe passato un ragazzo fidato, un certo Raul, e che
poteva tranquillamente aprire e consegnargli i
documenti. Tra l’altro lei conosceva avendolo incrociato
ad una festa aziendale. Lei mi disse che era tardi, ma
io gli risposi che erano documenti importanti per
l’assicurazione e che doveva solo aprire la porta e
consegnarli. Tutto qui. Non più di dieci secondi.”
Scirè fissò l’uomo: Quel racconto era troppo dettagliato
da sembrare preparato e l’alibi era troppo perfetto da
sembrare falso. A quel punto Macera congedò
Fenaroli: “Si tenga a disposizione e non lasci per
nessun motivo la città.”
Non appena Scirè rimase
solo interpellò la questura di Milano e venne a sapere
dopo circa due ore che Fenaroli, già attenzionato per
dei movimenti contabili non puliti, conduceva una vita
parallela. Aveva ben tre donne ufficiali: l’amante
storica, Clara, segretaria in ditta in tacchi a spillo;
la sorella del suo socio, Luisella, venticinque anni,
bionda, sposata, ma disponibile e ultima una ballerina
dello Shocking Blue con il nome d’arte di “Lulù”,
innamorata persa. Interrogate, tutte e tre sapevano di
Maria e del loro matrimonio in crisi. Una sera, Clara
gli aveva chiesto: “Quando la lasci?” Fenaroli aveva
riso: “Quando smette di valere.”
Roma, questura,
17 settembre 1958. Macera sfogliava il fascicolo di
tutti i dati del caso raccolti finora: Tre amanti. Due
polizze vita stipulate il 3 marzo 1958 a favore di Maria
Martirano ma firmate dal marito. Beneficiario lo
stesso Giovanni Fenaroli. Capitale: 150.000.000 di
lire. Clausola doppia indennità in caso di morte
violenta. Debiti Fenaroli Impresa: 42 milioni.
Scadenza mutuo: 30 settembre. Banca pronta a
pignorare. Scirè chiosò: “Amanti e debiti: Ora
abbiamo il movente, ma ci manca l’assassino… Un
sicario?”
Roma, 17 settembre 1958, ore 11:03.
Fenaroli venne di nuovo convocato e nel corso
dell’interrogatorio spuntò il nome del ragioniere della
ditta, Egidio Sacchi che Fenaroli indicò come testimone.
Milano, 17 settembre 1958, ore 17:06. Gli
investigatori milanesi non persero tempo, si
presentarono in azienda e misero sotto torchio il
ragioniere. E proprio il testimone a discarico divenne
la persona chiave per districare la matassa. Nel corso
dell’interrogatorio venne fuori un biglietto di volo
aereo Milano-Roma delle ore 19,35 a nome Wolfango Rossi,
un nome sotto copertura che rispondeva a Raul Ghiani,
nato a Sassari nel 1930, residente a Milano, operaio
specializzato nella ditta di Fenaroli. Il ritorno a
Milano con il vagone-letto delle 00:45 era previsto per
le 06:12. Con timbratura in fabbrica alle 06:45. Alibi
perfetto!
Roma, 17 settembre 1958, ore 16:44.
A quel punto Macera ricostruì ogni dettaglio di quella
giornata: Ciampino. Wolfango Rossi, posto 14A,
imbarco ore 19:20. La hostess disse: “Ricordo un uomo
magro, cappotto scuro, cappello calcato sugli occhi,
fumava nervosamente. Ha chiesto un whisky prima del
decollo. Ma non posso confermare che fosse proprio lui.”
Rossi alias Raul Ghiani scese dal taxi davanti al civico
21 di Via Monaci. Suonò il campanello dell’interno 3.
Una volta. La porta si aprì di uno spiraglio. Maria, in
vestaglia, la catena ancora infilata. “Sei Raul?”
“Sì, signora. Mi manda il signor Fenaroli.” Lei tolse la
catena ed aprì la porta. L’ingresso era stretto,
illuminato da una lampadina da 25 watt. Ghiani entrò e
chiuse la porta con la chiave che lei aveva lasciato
nella serratura. Un giro secco. Maria si voltò di
scatto. “Che fai?” Le mani di lui scattarono come molle.
Dita callose che si chiusero come una morsa d’acciaio
intorno al collo sottile di lei. Non una parola. Maria
scalciò. Lui strinse più forte. Trenta secondi al
massimo. Il corpo si afflosciò. Ghiani lo lasciò cadere.
Poi mise in scena il secondo atto: Entrò in camera
da letto. Aprì l’armadio con furia calcolata: cassetti
rovesciati, camicie sul pavimento, due borsette aperte,
una collana d’oro strappata dal portagioie, un anello
con perla ficcato in tasca.
Guardò il corpo. Le
unghie di Maria ancora contratte, il medio spezzato.
Pulì il ricevitore del telefono con il fazzoletto.
Schiacciò il mozzicone di sigaretta sotto la scarpa. Ore
23:58. Uscì dalla porta principale, chiave in mano. La
chiuse dall’esterno. Corse giù per le scale. Fece
qualche metro a piedi e salì su un taxi a Piazza
Bologna: “Stazione Termini. Presto.”
Arrivò a
Milano la mattina seguente e alle ore 06:45 timbrò il
cartellino alla Fenaroli Impresa, reparto montaggio.
Fenaroli era lì ad aspettarlo. In fondo al capannone.
“Fatto?” Ghiani annuì. Fenaroli gli diede una pacca
sulla spalla. “Bravo. Ora dimentica tutto.”
******
La notizia corse più rapida del treno
Roma-Milano: Prima pagina del Messaggero: “STRANGOLATA
PER UN PACCO DI DOCUMENTI: IL MARITO ORDINÒ L’OMICIDIO,
L’ALIBI PERFETTO SI SCIOGLIE” Sotto, una foto: Fenaroli
in manette, Sacchi con il cappotto sulla testa, Ghiani
che sale sul cellulare della Polizia. Macera chiuse il
giornale. “Troppo perfetto!” Mormorò. “È sempre lì che
cascano.”
Ghiani fu prelevato e portato a Roma.
In questura negò ogni addebito: “Commissà non so di cosa
parla, io non so nulla del delitto.” Silenzio. Le prove
erano troppo schiaccianti! Macera fece un cenno.
“Portatelo via.”
Roma, 7 marzo 1961, ore 14:47.
Palazzo di Giustizia, aula 21. Il sole entrava a lame
dai finestroni alti, tagliando il fumo delle sigarette
in strisce di luce polverosa. Giovanni Fenaroli stava
in piedi, mani dietro la schiena, camicia bianca.
Accanto a lui, Raul Ghiani, più magro, occhi fissi sul
banco dei giudici. Il presidente della Corte concluse la
lettura della sentenza: “…Per il delitto di omicidio
volontario pluriaggravato, articolo 575, commi 2 e 4… in
concorso… il tribunale condanna Giovanni Fenaroli e Raul
Ghiani alla pena dell’ergastolo.” Un boato…
Giornalisti che si alzavano in piedi, flash che
esplodevano, avvocati che si stringevano le mani.
Fenaroli non batté ciglio. Ghiani abbassò lo sguardo
incredulo. Quell’alibi era stato un capolavoro di
orologeria. Ma si era sbriciolato come un biscotto
secco.
Paese Sera uscì in edizione
straordinaria. Titolo a nove colonne: ERGASTOLO PER IL
DELITTO MONACI. FENAROLI E GHIANI COLPEVOLI: 150 MILIONI
PER UNA MOGLIE STRANGOLATA. Gli strilloni correvano tra
i tram, voci stridule: “Ergastolo! Ergastolo! Fenaroli e
il sicario all’ergastolo!” Un vigile fermò il
traffico. Una vecchietta si fece il segno della croce.
Un ragazzo comprò il giornale e lo lesse sotto un
lampione a voce alta: “…la Corte ha ritenuto provato il
nesso tra il mandante e l’esecutore, demolendo l’alibi
del Ghiani…”
Poi arrivarono le conferme della
Corte d’Appello nel 1962 e della Cassazione nel 1964,
ma, qualche tempo prima, esattamente il 9 marzo del
1961, le rotative di Paese Sera sputarono inchiostro e
dubbi con un titolo a mezza pagina, sotto il verdetto:
“MA I GIOIELLI DOVE SONO?” Un cronista aveva fiutato la
crepa. Due anni dopo, nel 1963, la crepa divenne una
vera e propria voragine. L’avvocato di Fenaroli lesse la
clausola della polizza assicurativa ad alta voce: “Art.
12 – Esclusione responsabilità. In caso di morte
violenta per dolo di terzi o del beneficiario, la
Compagnia è esente da ogni obbligo di pagamento.”
Traduzione per chi non avesse capito: Fenaroli, anche se
fosse stato dichiarato estraneo ai fatti non avrebbe
riscosso una lira una! Quindi niente movente!
Dal
carcere i presunti assassini continuarono a dirsi
innocenti e il giallo non finì mai. Restò lì, tra le
pieghe di un’Italia che voleva credere alla giustizia,
ma alcune ricostruzioni successive parlarono di un
delitto perpetrato da agenti del Sifar per recuperare
certi documenti compromettenti con i quali Fenaroli
avrebbe ricattato l'Italcasse, l'Eni e alcuni esponenti
della Democrazia Cristiana. Per evitare lo scandalo, si
ritenne che i servizi segreti militari fossero
intervenuti e la sera del 10 settembre, agenti segreti
si sarebbero recati a casa di Fenaroli per trattare con
la moglie, Maria Martinaro. La trattativa sarebbe poi
degenerata, portando all'omicidio della donna. Dopo il
delitto, per giustificare il cadavere e coprire le
proprie tracce, gli agenti avrebbero deliberatamente
depistato le indagini, costruendo indizi e prove
schiaccianti contro Fenaroli e il suo collaboratore
Ghiani.
Colpito da un male incurabile, Giovanni
Fenaroli morì nel 1975, nel reparto urologico del
Policlinico di Milano. Raul Ghiani sopravvisse e nel
1984 venne graziato dal presidente Pertini. Andò ad
abitare in una casa popolare nel comune di Firenze, si
mise a fare l’elettricista in un’azienda di filati e
soprattutto si dichiarò sempre innocente!
Il
delitto di Via Monaci rimane un mistero ancora tutto da
chiarire.
|
IMMAGINE GENERATA DA IA A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
www.misteriditalia.com www.poliziaedemocrazia.it
http://www.zetema.it/ www.bdp.it www.stile.it www.la7.it


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