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Adamo Bencivenga
DUE BUGIE PER UNA NOTTE
D’AMORE
Tallinn, Estonia,
inverno 2025
Il freddo è una bestia che
morde le ossa. Sono le dieci di sera e cammino per
le vie di questa città, con il vento che mi taglia
la faccia come una lama affilata. Il mio giornale mi
ha mandato qui, a raccontare la vita notturna di
Tallinn, un posto che suona romantico solo a chi non
ha mai messo piede in un inverno baltico...

Il freddo è una bestia che
morde le ossa. Sono le dieci di sera e cammino per le
vie di questa città, con il vento che mi taglia la
faccia come una lama affilata. Il mio giornale mi ha
mandato qui, a raccontare la vita notturna di Tallinn,
un posto che suona romantico solo a chi non ha mai messo
piede in un inverno baltico. Io, romano de Roma,
quarant’anni e un cuore ammaccato, sognavo un reportage
da qualche spiaggia esotica, con palme e mojito, ragazze
sorridenti e calde di sole e passione. Invece eccomi
qua, con il cappotto che non basta e le scarpe con la
suola sottile che scivolano sul ghiaccio delle strade
acciottolate.
Piazza Raekoja è uno spettacolo,
non lo nego. Le luci gialle dei lampioni oscillano sulla
neve, i tetti a punta delle case medievali sembrano
usciti da una fiaba. Eppure c’è qualcosa di malinconico
in questa bellezza. I volti delle persone che incrocio
sono chiusi, come se il freddo non fosse solo fuori, ma
dentro di loro. Le ragazze, soprattutto, mi
colpiscono: bionde, bellissime, con occhi chiari che
sembrano laghi ghiacciati. Camminano rapide, avvolte in
sciarpe e cappelli di lana, ma nei loro sguardi c’è una
tristezza che mi stringe il petto. Le vedo alla fermata
dell’autobus, che aspettano il bus strette nei loro
cappotti e le mani infilate nelle tasche profonde. Le
vedo fuori dai locali vestite da cameriere che fumano in
fretta oppure dietro le finestre delle loro case che
appannano i vetri con i loro fiati e fissano il vuoto,
come se cercassero risposte oltre i lampioni. È come se
la città intera trattenesse il respiro, sospesa tra il
silenzio della neve e il peso di un inverno infinito.
Forse è il buio che dura troppo, o forse è solo il mio
stato d’animo che proietta i miei pensieri su di loro.
“Maledetto il mio direttore” penso prima di
schiacciare la sigaretta ed entrare in un bistrot vicino
alla cattedrale di Aleksandr Nevskij, con le sue cupole
a cipolla che spuntano come funghi nella neve.
Finalmente un po’ di tepore! Il locale è caldo,
accogliente, con il profumo di caffè e cannella che mi
avvolge. Mi siedo vicino alla finestra e ordino un tè
bollente guardando la strada illuminata. Il locale è
affollato e il brusio educato mi fa quasi compagnia.
Mentre stringo la tazza tra le mani, i pensieri mi
riportano indietro. Quarant’anni, un matrimonio finito
male, un figlio che vedo troppo poco, rimasto con sua
madre. È per questo che ho scelto questa vita, sempre in
giro, da un angolo all’altro del mondo. Scrivere,
viaggiare, raccontare: è il mio modo di non pensare, di
tenere a bada i dolori dell’anima.
Sto
scribacchiando appunti sul mio tablet quando una voce mi
interrompe. “Sei italiano, vero?” Alzo gli occhi e la
vedo: una ragazza, poco più che ventenne, bionda, con un
rossetto rosso fuoco e un cappello di lana che le cade
un po’ di lato. Minigonna, stivali, e un sorriso che
potrebbe sciogliere il ghiaccio fuori. “Da cosa lo hai
visto?” Rispondo sempre inglese, con noncuranza, ma in
realtà sono sorpreso. Lei senza chiedere si siede,
come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Sei tu,
vero?” Insiste, guardandomi con gli occhi che brillano.
Non capisco. “Io chi?” Lei tira fuori il telefono dalla
tasca, armeggia un po’ e mi mostra delle foto. “Guarda,
sei tu?” Prendo il telefono per guardare meglio, ma le
immagini sono sfocate, un tizio di profilo, capelli
scuri, ma potrebbe essere chiunque. Guardo ancora
fintamente interessato, ma non sono io, ovvio. Sto per
dirglielo, ma c’è qualcosa in lei, nel suo entusiasmo
ingenuo, nella sua voce maliziosa, che mi fa esitare.
Forse sarà la solitudine, forse sarà il freddo,
forse sarà l’incazzatura per essere stato sbattuto alla
fine del mondo o forse è solo il bisogno di un po’ di
calore umano. Lei mi dice: “Scusa non mi sono
presentata, mi chiamo Maarja e circa un anno fa ho
conosciuto un italiano su una chat.” Mi dice scrutandomi
per essere sicura. Poi aggiunge: “Più o meno la stessa
tua età, più o meno gli stessi tuoi occhi, il viso...
Siamo rimasti in contatto per qualche mese, poi lui mi
ha detto che sarebbe venuto a Tallinn per conoscermi di
persona. Si chiama Giacomo. Sei tu, vero?”
Rimango in silenzio, la fisso e sorrido, poi, non so
perché, decido di stare al gioco. “Giacomo.” Dico,
allungando la mano per stringere la sua.” Il suo viso si
illumina. “Lo sapevo, cavolo! Sei qui per me, vero? Ma
perché non mi hai avvertita?” Oddio, un attimo di
imbarazzo, poi improvviso, con una facilità che mi
sorprende. “Volevo farti una sorpresa. Avevo paura che
ci avessi ripensato e rifiutassi di vedermi.” Lei ride,
una risata che scalda più del tè. “Ma come? Ti sei
dimenticato delle nostre serate insieme?” Immagino cosa
possa essere successo e sorrido ammiccando. Lei sempre
più curiosa mi chiede: “Come facevi a ricordarti di
questo posto? Quando fantasticavamo il nostro
appuntamento era proprio qui, te lo sei ricordato! Ti
amo!”
A quel punto si alza e si siede vicino a
me, la sua gonna è corta, ha due gambe bellissime, un
fisico da fare invidia alle modelle di Vogue. Le dico se
posso offrirle qualcosa…. Lei è radiosa, con quel
rossetto rosso fuoco che attira lo sguardo ogni volta
che sorride, e il suo entusiasmo è contagioso, ma non
riesco a rilassarmi. Sto impersonando un tizio che non
sono io, e ogni parola che dico potrebbe essere quella
sbagliata. “Giacomo.” Dice sporgendosi verso di me, i
suoi occhi chiari che brillano. “Non ci credo ancora che
sei qui! Sai quante volte ho pensato a questo momento?
Mille, duemila forse di più! E tu sei proprio come ti
immaginavo, anzi sei molto più carino dal vivo.” Ride,
poi si fa seria: “Ti ho pensato molto in questo periodo.
Mia madre mi chiedeva sempre di te, e poi per consolarmi
mi diceva – Dai non preoccuparti prima o poi ti farà una
sorpresa! – Ed aveva ragione, bisogna sempre dare
ascolto alle madri!”
Io sorrido con lei, ma
dentro di me c’è un groviglio di nervi. “Davvero mi
trovi carino? Beh, grazie.” Riesco a dire, cercando di
sembrare naturale. “Anche tu sei… wow, proprio come me
l’aspettavo.” Non è una bugia, in fondo. È bellissima,
con quel mix di grazia nordica e un’energia che sembra
scaldare l’aria intorno a lei. Ma il nome “Giacomo” mi
pesa come un macigno. Ogni tanto mi chiedo se dovrei
confessare, ma il suo entusiasmo mi blocca. Non voglio
spezzarle il cuore, almeno non ora.
“Ti ricordi
quando mi raccontavi di quella volta che hai bruciato la
salsa mentre parlavi con me?” Dice, ridacchiando mentre
mescola il tè con un cucchiaino. “Eri così buffo! Dai,
raccontami di nuovo, dal vivo è più divertente.” Merda.
Non ho idea di cosa stia parlando. La mia mente corre,
cercando di improvvisare senza tradirmi. “Oh, quella
volta…” Dico, ridendo in modo un po’ forzato. “Sai, ero
così distratto… la cucina era un disastro. Però, dai,
raccontami tu qualcosa. Tipo… com’è andata quella serata
che mi dicevi, in quel locale con le tue amiche?” La
domanda è generica spero di non sbagliare, del resto
devo deviare, guadagnare tempo.
Maarja non sembra
notare la mia goffaggine. Si illumina ancora di più.
“Oddio, dici quella volta del karaoke! Te l’ho
raccontato, vero? Eravamo in quel bar schifoso vicino
alla stazione, e Kati, la mia migliore amica, ha cantato
“My Heart Will Go On” come se fosse Celine Dion, ma era
così stonata che ci hanno quasi buttato fuori!” Scoppia
a ridere, coprendosi la bocca con una mano. “E io… beh,
io ho cantato una canzone estone, una di quelle vecchie,
sai, tipo quelle che cantavano le nonne. Tu l’avresti
adorata, Giacomo, sei sempre stato un romantico.
“Romantico? Beh allora questo Giacomo un po’ mi
assomiglia. Annuisco, cercando di sembrare coinvolto.
“Sì, mi piace il tuo modo di raccontare queste cose. È…
speciale.” Mi odio un po’ per quanto suono vago, ma lei
sembra pendere dalle mie labbra e bersi ogni parola.
Dopo un attimo si fa di nuovo seria. Temo il peggio!
Appoggia il mento sulle mani e guardandomi con
un’intensità che mi fa sudare mi chiede: “Comunque,
perché non mi hai scritto quando sei arrivato? Cioè, ok,
la sorpresa è carina, ma ero preoccupata! Pensavo ti
fossi dimenticato di me.” Fa una smorfia scherzosa, ma
c’è un’ombra di fragilità nei suoi occhi, come se
davvero temesse che questo fantomatico Giacomo potesse
svanire. Mi schiarisco la voce, sentendo il peso del mio
bluff, ma istintivamente le prendo la mano e la stringo.
“Sai, volevo… volevo che fosse tutto speciale, come una
favola, capisci? Tipo, incontrarti così, per caso, in
questo posto.” Indico vagamente il locale, con le sue
luci soffuse e il profumo di cannella che aleggia
nell’aria. “E poi, beh, ero un po’ nervoso. Non ero
sicuro di come avresti reagito vedendomi.” Non è del
tutto una bugia. Sono nervoso eccome, ma per motivi ben
diversi.
Maarja risponde alla stretta e si
scioglie in un sorriso. “Sei dolce, lo sai? Dai,
ordiniamo qualcosa da mangiare, sono affamata!” Chiama
il cameriere con un gesto disinvolto, e io colgo
l’occasione per respirare un attimo. Ordiniamo un piatto
di pelmeni, quei ravioli ripieni che profumano di casa,
e una ciotola di zuppa di barbabietola che lei insiste
per condividere. “Ti piace la cucina estone, vero?”
Chiede, con un sopracciglio alzato. “Me lo dicevi
sempre, che volevi provare tutto.” “Sì, certo.”
Rispondo, sperando che la mia vaghezza passi
inosservata. “Adoro provare cose nuove.” In realtà, non
ho idea di cosa piacesse a questo Giacomo, ma la zuppa
sembra invitante, e il profumo mi distrae per un attimo
dal panico. Mentre mangiamo, lei continua a
chiacchierare, raccontando aneddoti su Tallinn, sulle
sue giornate all’università, sui mercatini di Natale che
ama visitare. Ogni tanto mi lancia domande, e io
rispondo con frasi generiche, cercando di non
contraddirmi. “Ti ricordi quando mi dicevi che odiavi il
freddo?” Dice a un certo punto, ridendo. “E guarda, sei
qui, in pieno inverno estone! Sei proprio matto,
Giacomo, ma sono contenta… Lo hai fatto per me vero? Sei
il mio supereroe!” Rido, ma il cuore mi batte forte.
“Beh, sai, per te ne vale la pena.” Dico questa volta
sincero anche se mi pento di averlo detto. È troppo?
Troppo sdolcinato? Ma lei arrossisce leggermente e mi dà
un colpetto sul braccio. “Sei terribile.” Dice, ma il
suo tono è affettuoso. Si avvicina un po’ di più, e la
sua gamba sfiora la mia sotto il tavolo. Il contatto mi
fa quasi sobbalzare, e mi rendo conto che sto iniziando
a sentirmi a mio agio in questo gioco pericoloso. È
sbagliato, lo so, ma c’è qualcosa in lei, nel suo
entusiasmo, nella sua spontaneità, che mi fa venir
voglia di continuare, almeno finché riesco stare al
gioco e i sensi di colpa non mi trafiggono.
“Dai, raccontami di te.” Dice, finendo un pelmeno e
guardandomi con curiosità. “Com’è stato il viaggio?”
“Oh, il viaggio… lungo, sai, ma ne è valsa la pena.” Lei
per fortuna non mi chiede altro e si lancia in un
racconto su come ha passato l’ultimo mese a organizzare
una mostra d’arte con i suoi amici, e io ascolto,
annuendo. Ogni tanto mi chiedo: e se il vero Giacomo si
presentasse ora? Dio mio sai che figura! Mi guardo
intorno alla ricerca di un volto italiano, il locale è
tranquillo, e il tempo passa, tra le sue risate, i miei
mezzi sorrisi e il calore di questo angolo di Tallinn
che, per ora, sembra appartenere solo a noi due.
Finito di cenare si alza, la sua energia mi travolge,
usciamo dal bistrot e camminiamo fianco a fianco per le
vie di Tallinn. I suoi stivali scricchiolano sul
selciato, lasciando impronte che si intrecciano con le
mie, come se stessimo scrivendo una storia effimera
destinata a sciogliersi con il primo sole. Maarja parla
senza sosta, la sua voce è un flusso caldo che contrasta
con l’aria gelida, raccontandomi del suo piccolo
appartamento vicino al centro, delle piante che cerca di
non far morire, delle serate passate a disegnare con una
tazza di tè in mano. Io ascolto, annuendo, ridendo
quando lei ride, e per un momento il peso del mio
divorzio, delle notti insonni, della solitudine che mi
porto dietro come un’ombra, svanisce. È lei, con la sua
energia travolgente, a fare questo miracolo.
All’improvviso si ferma in fondo a un viale stretto,
dove i lampioni gettano cerchi dorati sulla neve. “Vieni
da me.” Dice, prendendomi la mano. Le sue dita sono
fredde, ma il suo tocco è deciso, quasi possessivo.
“Voglio passare la notte con te.” La sua schiettezza mi
colpisce come una raffica di vento. Non c’è calcolo, né
giochetti, solo una sincerità disarmante che qui, in
questa città sospesa tra fiaba e malinconia, sembra la
cosa più naturale del mondo. Io, che vengo da un mondo
di mezze parole e strategie, rimango spiazzato. Il cuore
mi batte forte, e non so se è per il desiderio o per il
terrore di essere smascherato.
Prima che possa
rispondere, lei si alza sulle punte, il suo cappello di
lana le scivola indietro. Si avvicina, e il suo respiro
caldo mi sfiora il viso. Poi mi bacia. È un bacio
improvviso, intenso, che sa di rossetto e di tè alla
cannella, di neve e di qualcosa di selvaggio, come se
stesse cercando di reclamarmi, di ancorarmi a questo
momento. Le sue labbra sono morbide e per un istante il
mondo si riduce a quel calore, a quel contatto che mi fa
dimenticare chi sono, o chi dovrei essere. Rispondo al
bacio, lasciandomi andare, le mie mani che trovano i
suoi fianchi sotto il cappotto, il suo corpo che si
preme contro il mio come se volesse fondersi con me.
È travolgente. Il suo entusiasmo, la sua passione,
la sua fiducia in questo “Giacomo” che non sono io, mi
risucchiano in un vortice. Dovrei fermarmi, dirle la
verità, confessare che non sono l’uomo che aspetta, che
non so niente delle loro serate in chat, delle loro
promesse. Ma non ci riesco. Il calore del suo bacio, la
sensazione delle sue mani che mi stringono il cappotto,
il modo in cui mi guarda quando si stacca appena, con
gli occhi che brillano di gioia e desiderio, mi tengono
prigioniero. “Lo sapevo che sarebbe stato così…”
Sussurra, la voce leggermente roca, il sorriso che le
increspa gli angoli della bocca. “Ti ho aspettato tanto,
Giacomo.” Il nome mi trafigge, ma invece di confessare,
sorrido, lasciando che il suo entusiasmo mi travolga
ancora. “Anch’io.” Dico, e la mia voce suona più sicura
di quanto mi senta. La bugia mi scivola fuori con una
facilità che mi spaventa, ma è come se non potessi fare
altro. Voglio restare in questo momento, in questa
versione di me che lei vede, che lei desidera. Voglio
essere Giacomo, almeno per stanotte, perché essere me
stesso, con il mio bagaglio di rimpianti e ferite, è
troppo pesante.
Riprendiamo a camminare, la sua
mano nella mia, e lei continua a parlare, a ridere, a
indicarmi angoli di Tallinn che ama. Io ascolto,
annuendo, ma dentro di me c’è una tempesta: il desiderio
di lei, la vergogna di essere scoperto, la pesantezza di
mentire, e sopra ogni cosa, la voglia disperata di non
spezzare questo incantesimo. La neve continua a cadere,
e ogni passo verso il suo appartamento mi sembra un
passo più lontano dalla verità, ma anche più vicino a
qualcosa che, per la prima volta in tanto tempo, mi fa
sentire vivo.
Il monolocale di Maarja è piccolo,
un nido caotico che racconta la sua vita: libri d’arte
ammucchiati su un tavolino basso, un divano con una
coperta di lana colorata. Lei si toglie il cappello di
lana lasciandolo cadere su una sedia: “Dai, mettiti
comodo.” Mi dice mentre la vedo volteggiare nel suo
ambiente: i suoi movimenti sono fluidi, naturali, come
se non ci fosse nulla di più normale che avermi lì, in
casa sua, in questa notte d’inverno. “Benvenuto nel mio
regno!” Dice girandosi verso di me. Si sfila il cappotto
rimanendo col suo maglione morbido e la minigonna che
lascia scoperte le gambe lunghe, fasciate dagli stivali.
C’è una sensualità in lei quasi involontaria, come se
non si rendesse conto dell’effetto che ha su di me. O
forse lo sa, e le piace giocarci. “Vuoi qualcosa da
bere? Ho del vino, o magari un tè… o qualcosa di più
forte?” La sua voce è leggera, ma c’è una nota roca, un
invito implicito che mi fa stringere lo stomaco.
Io sono ancora vicino alla porta, il cappotto ancora
addosso, le mani infilate nelle tasche come se cercassi
un appiglio. “Un tè va bene.” Dico con la voce incerta.
La verità è che sono titubante, intrappolato tra il
desiderio che mi brucia dentro e il peso della bugia che
mi porto dietro. Lei non è solo bellissima, è viva,
reale, e il suo entusiasmo mi fa sentire come se stessi
rubando qualcosa che non mi appartiene. “Giacomo.” Dice,
avvicinandosi con un’aria che è insieme dolce e
provocante: “Sei strano. Qualcosa non va?” Si ferma a un
passo da me. “Forse un po’.” Ammetto, cercando di
sorridere. “È che… sei ancora più bella dal vivo.” Non è
una bugia, e lei lo percepisce. Arrossisce leggermente,
ma il suo sorriso si allarga, e senza dire nulla si
avvicina ancora di più. Mi prende il cappotto dalle
spalle, le sue dita che sfiorano il mio collo, un tocco
casuale ma elettrico. “Rilassati.” Sussurra, appendendo
il cappotto a un gancio vicino alla porta. “Sei a casa
mia, ora.”
Si muove verso la piccola cucina,
accendendo un bollitore. Io mi guardo intorno, cercando
di calmare il battito che mi rimbomba nel petto. Sul
tavolino c’è un blocco da disegno aperto, schizzi di
volti e paesaggi tracciati a matita. Mi avvicino,
curioso, e lei lo nota. “Ti piacciono?” Chiede, tornando
con due tazze fumanti. “Disegno quando non riesco a
dormire. È il mio modo di… non so, di tenere a bada i
pensieri.” “Sono bellissimi e tu hai talento.” Dico,
e lo penso davvero. Lei si siede sul divano,
accavallando le gambe, e mi fa cenno di raggiungerla. Mi
siedo accanto a lei, la tazza calda tra le mani, ma il
calore che sento non viene dal tè. È lei, la sua
vicinanza, il modo in cui si sporge leggermente verso di
me, come se volesse accorciare ogni distanza possibile.
“Sai…” Dice, posando la tazza e guardandomi con
un’intensità che mi fa quasi tremare, “Quando parlavamo
in chat, immaginavo questo momento. Tu qui, io qui. Ma
ora che ci sei… è meglio di qualsiasi fantasia.”
Le sue parole mi travolgono, e il senso di colpa mi
stringe la gola. Dovrei dirle la verità, confessare che
non sono Giacomo, che non ero io in chat e non so nulla
delle loro conversazioni. Sarei ancora in tempo, penso,
ma lei si avvicina ancora, il suo ginocchio che sfiora
il mio, e il suo profumo mi avvolge. “Maarja…” Comincio,
ma lei mi interrompe posando una mano sul mio petto,
leggera ma decisa. “Shh...” Sussurra, e si sporge per
baciarmi di nuovo. È un bacio lento, questa volta, meno
impulsivo di quello in strada, ma più profondo, come se
stesse cercando di scavarmi dentro. Le sue labbra sono
morbide, calde, e il sapore di cannella e rossetto mi fa
perdere ogni pensiero coerente. Rispondo al bacio,
esitante all’inizio, ma il suo calore, la sua
insistenza, sciolgono le mie resistenze. Le mie mani
trovano i suoi fianchi, e lei si sposta, sedendosi a
cavalcioni su di me. Il suo peso è leggero, ma il suo
corpo contro il mio è una presenza che mi travolge.
“Giacomo.” Mormora contro le mie labbra, e quel nome mi
trafigge, ma non riesco a fermarmi. La voglio, e il
desiderio è più forte della colpa, almeno per ora.
Si stacca appena, il respiro corto, e si sfila il
maglione con un movimento fluido, lasciandolo cadere sul
pavimento. Sotto porta una canottiera nera, aderente,
che lascia intravedere la curva delicata del suo seno.
C’è una tenerezza in lei, una fragilità che mi colpisce:
la sua pelle è chiara, come porcellana, e il suo corpo
ha una grazia adolescenziale, con spalle strette e un
seno piccolo, perfetto, che si intravede sotto il
tessuto. È bellissima, ma c’è qualcosa di puro, quasi
infantile, nel modo in cui mi guarda, con quegli occhi
chiari pieni di fiducia. Mi sento un intruso, un
sacrilego, come se stessi profanando qualcosa di sacro.
“Sei sicura di volerlo?” Chiedo cercando un’ultima via
d’uscita, un modo per fermarmi prima di perdermi del
tutto. Lei ride piano. “Giacomo, smettila di
preoccuparti. Quante volte abbiamo immaginato questo
momento? Ricordi?” Si sfila la canottiera, e la sua
pelle nuda è un invito che non posso ignorare. È
perfetta, con una delicatezza che mi fa quasi paura: il
suo seno piccolo, i capezzoli rosei che si intravedono
nella penombra, la curva morbida della vita. Si china di
nuovo verso di me, i suoi capelli che mi sfiorano il
viso, e mi bacia ancora, più intensamente. “Ti voglio…
ti ho sempre desiderato…” Sussurra, e quelle parole sono
il colpo finale.
La sollevo, le sue gambe che si
stringono intorno ai miei fianchi, e la porto verso il
letto, un materasso basso coperto da lenzuola bianche e
un piumone sgualcito. La adagio con delicatezza, come se
temessi di romperla, ma lei non ha nulla di fragile nei
suoi movimenti. Si sfila la gonna, restando solo con gli
slip neri e gli stivali, che scalcia via con un gesto
impaziente. Quando si sdraia sul letto, con i capelli
sparsi sul cuscino come un’aureola dorata, sembra una
visione, un misto di innocenza e sensualità che mi fa
perdere la testa. Mi spoglio anch’io, goffamente,
sentendomi troppo grande, troppo sbagliato, ma quando
sento premere il suo corpo contro il mio ogni pensiero
svanisce. La bacio, assaporando ogni centimetro di lei:
la guancia, il collo, il seno e poi ancora oltre, dove
il suo piacere mi reclama. Lei geme piano e si inarca
verso di me, come se volesse fondersi con il mio corpo.
Le sue gambe si intrecciano alle mie, i suoi respiri
si mescolano ai miei, e ogni tocco, ogni bacio, è
un’esplosione di calore che scaccia il freddo di Tallinn
e ogni mia remora. C’è solo lei, il suo corpo che si
muove contro il mio, i suoi sussurri che si perdono nei
miei, il suo profumo, la sua pelle giovane che mi
avvolge. È tenera, appassionata, e ogni suo movimento è
un invito a perdermi in lei. Mi chiama “Giacomo” ancora,
e ogni volta quel nome è una pugnalata, ma la passione è
troppo forte, troppo reale, e io mi lascio andare,
incapace di resistere.
Ci amiamo con un’intensità
che mi spaventa, come se stessimo cercando di afferrare
qualcosa che potrebbe sfuggirci da un momento all’altro.
Lei è viva, vibrante, e il suo entusiasmo mi trascina,
mi fa dimenticare chi sono, o chi dovrei essere. “Sei
mio.” Il suo filo di fiato mi riempie la bocca. “E io
sono tua.” Aggiunge, con una risata giocosa, che mi fa
perdere ogni senso di controllo. La stanza si dissolve,
il soffitto, le pareti, il tempo, Tallinn, Giacomo,
tutto svanisce. C’è solo lei, Maarja, il suo respiro, il
suo profumo, il ritmo del suo corpo che si muove
scivolando contro il mio, come una danza, un invito
silenzioso a perdermi in lei.
Facciamo l’amore, e
il suo corpo è un fuoco che mi consuma. Mi invita dentro
di lei, nel suo paradiso senza alcun pudore, consapevole
che nulla al mondo in questo momento avrebbe più valore.
Come una regina che usa il suo suddito si mette sopra di
me, pretendendo la sua dose di maschio e offrendomi il
suo tesoro di femmina, ma l’emozione è troppa, la
guardo, la stringo forte per i fianchi, lei si muove
come una farfalla, finché geme più rapidamente e la
sento godere, una, due, tre volte. È un fuoco
interminabile e dopo alcuni minuti è ancora sopra di me.
È lei che mi guida, è lei che mi pretende, finché in
perfetta sintonia cediamo ancora al piacere.
Quando ci fermiamo, ansimanti, con la sua testa
appoggiata sul mio petto, il silenzio è rotto solo dal
nostro respiro. La luce dell’alba inizia a filtrare
dalla finestra, pallida e fredda, e il peso della verità
torna a schiacciarmi. La guardo, il suo viso rilassato,
gli occhi chiusi, le labbra appena socchiuse sembra un
angelo e la colpa mi travolge. Non ce la faccio. “Maarja
devo dirti una cosa.” La mia espressione è seria. Lei mi
guarda con i suoi occhioni pieni di apprensione. So che
le farò del male, ma non ce la faccio più a mentire. Di
colpo dico: “Non sono Giacomo!” La voce che trema. “Non
sono il tizio della chat. Mi dispiace, ho mentito.” Lei
mi guarda, sorpresa, ma poi sorride. “Non mi importa
nulla, italiano…” Dice, accarezzandomi il viso. “Ora sei
tu il mio amore.”
Vedo che vorrebbe finirla là,
ma io insisto: “Davvero, non ti importa nulla? Il tuo
entusiasmo mi ha travolto e non sono riuscito a dirti la
verità, scusami davvero.” Lei mi guarda con un mezzo
sorriso, quasi delusa, e con tutta calma mi dice: “Non
c’era bisogno che me lo dicessi.” Non capisco e le
chiedo il motivo. Lei alza la testa dal cuscino, si
avvicina e mi bacia: “È stato bello no?” Cerco di
dire qualcosa, ma lei me lo impedisce appoggiando
delicatamente il suo dito sulle mie labbra: “Lo sapevo
che non eri lui, me ne sono accorta mentre mi avvicinavo
al tuo tavolo. Ma eri così bello in quel locale, così
solo, così tenebroso, così italiano, che ho deciso di
continuare per conoscerti. Ho fatto male?” Ridiamo, una
risata liberatoria: eh già, due bugie per una notte
d’amore.
|
Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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IA
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TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
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