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REPORTAGE
 
JOHATSU
Tokyo, la città dei fantasmi evaporati
Intervista a una johatsu, una di quelle persone che in Giappone, aiutate da agenzie specializzate, scelgono di “evaporare”, sparendo senza lasciare traccia e tagliando così i ponti con un passato insostenibile...



 
Tokyo, la città dei fantasmi evaporati
Di Davide Costanzo Penna, inviato a Tokyo


È una sera umida a Tokyo, l’aria sa di pioggia e yakitori grigliati. Sono seduto in un piccolo izakaya nel cuore di Asakusa, un locale angusto con lanterne di carta e il brusio di salarymen che si sciolgono in sakè dopo una lunga giornata.
Sono qui per incontrare un fantasma, o meglio, una johatsu, una di quelle persone che in Giappone scelgono di “evaporare”, sparendo senza lasciare traccia dalla loro vita precedente. Non si tratta di un crimine, né di un mistero da romanzo noir: è una fuga volontaria, un atto intenzionale per tagliare i ponti con un passato insostenibile.

Il mio contatto, un investigatore privato di nome Satò, mi ha messo in contatto, ovviamente dietro un generoso compenso, con questa fantomatica signora. Si fa chiamare Aiko Tanaka ora, un nome comune, quasi banale, scelto con cura per non attirare attenzioni. Satò mi ha avvertito: “Non si fiderà subito. Sii paziente.”

Quando Aiko entra nel locale, la riconosco immediatamente, anche se non l’ho mai vista prima. È una donna sulla quarantina, elegante, ma discreta, con un viso che tradisce una bellezza affilata, come se il tempo e le scelte difficili avessero scolpito i suoi lineamenti. Indossa un tailleur sobrio, i capelli raccolti in uno chignon impeccabile. Il suo sguardo è guardingo, come quello di chi è abituato a scrutare ogni angolo per paura di essere riconosciuto.

Come concordato con Satò apro il mio taccuino tenendo in mano una penna rossa e quando la donna si avvicina pronuncio in inglese la mia parola d’ordine: “È una serata umida, vero?” Lei a quel punto si siede e immediatamente dice: “Non sono abituata a parlare con estranei. Perché vuole sapere di me?”
Le spiego che sono un giornalista, che sono stato mandato dalla mia redazione per capire il fenomeno dei johatsu, che la sua storia potrebbe aiutare a far luce su una realtà tanto affascinante quanto nascosta. Lei sorride, ma è un sorriso teso, come se stesse soppesando ogni mia parola. “Non sono una storia da copertina. Non voglio che qualcuno mi trovi.”

Satò mi aveva avvertito e allora ordino tè verde per due. Ci vuole tempo, perché Aiko inizi a rilassarsi. Poi con gli occhi fissi sulla tazza dice: “Non sono sparita per un capriccio, mi creda. Non è una cosa che fai a cuor leggero. È una porta che chiudi per sempre e speri che la nuova non sia altrettanto peggiore.”

Le chiedo se può accennarmi alla ragione per cui ha fatto questa scelta. Lei a quel punto racconta una storia che inizia con uno stalker. “Al tempo ero una manager di una società finanziaria e lui era un collega, all’inizio sembrava innocuo. Messaggi, regali, attenzioni non richieste. La mia colpa è stata quella di accettare quel corteggiamento, ma poi lui è diventato ossessivo. Mi seguiva, sapeva dove abitavo, conosceva i miei orari, le mie amicizie. Quando ha cominciato a minacciarmi, mi sono rivolta alla polizia, ma loro non potevano fare molto senza prove concrete. Mi creda la mia vita era diventata un incubo.”

Beve un sorso di tè e poi riprende: “La vergogna era insopportabile. In Giappone, ammettere di essere vittima di stalking significa attirare giudizi, domande, sospetti ed io non volevo essere vista come una debole, come una che non sa gestire la propria vita. Così ho deciso di sparire.”

Con l’aiuto di una yonigeya, un’agenzia specializzata in “fughe silenziose”, Aiko ha lasciato Tokyo in una notte senza luna. “Mi hanno portato in una piccola città a nord, lontano da tutto. Hanno organizzato tutto: un appartamento, un nuovo lavoro, persino documenti con un nuovo nome. Ho pagato tanto, ma era il prezzo della mia libertà.”

Le chiedo come operano queste agenzie. “Gli spostamenti avvengono perlopiù di notte, trasferendo i clienti in nuove località senza destare sospetti. Ma non ci sono solo casi di stalker, come il mio, i motivi possono essere diversi tipo violenza domestica, debiti schiaccianti, fallimenti professionali, vergogna sociale o il peso insopportabile delle aspettative familiari, ma anche la depressione, la dipendenza da droghe o alcol, o per sfuggire alle sette religiose e a situazioni familiari difficili. Nei casi più estremi, qualcuno richiede interventi di chirurgia estetica per rendere il distacco ancora più definitivo. Insomma ogni motivo è buono per spegnere le luci e uscire di scena.”

Le chiedo quanto qui in Giappone sia diffuso il fenomeno degli evaporati: “Tutto è iniziato negli anni Sessanta, ma è aumentato negli anni Novanta, quando il paese si è trovato in una grave crisi economica. Qui evaporare è facile, perché il Giappone ha delle leggi sulla privacy molto stringenti. Di conseguenza è molto difficile rintracciare qualcuno che si è allontanato volontariamente.”

Ora Aiko vive a Yokohama, non svolge più mansioni da manager, ma lavora in una piccola azienda sempre nel settore finanziario, un impiego stabile che le permette di mantenere un profilo basso e dignitoso. Ha un marito, un uomo gentile che lavora nell’edilizia, e due figli piccoli. “Non sanno niente del mio passato.” Confessa, abbassando lo sguardo. “A lui ho detto che sono orfana, che non ho famiglia. È più semplice così. Non voglio che sappia chi ero.”

Ora la vedo più leggera come se si fosse liberata di un peso, mi dice: “A me è andata più che bene! Molti Johatsu cadono in miseria, mentre altri finiscono nelle mani del crimine organizzato. La Yakuza, la mafia giapponese, è sempre pronta a sfruttare qualsiasi disperazione, recluta molte di queste persone scomparse per lavori illeciti, molte donne poi finiscono nei locali notturni.”

Mentre parla, Aiko sembra oscillare tra sollievo e rimpianto. È una donna nuova, ma il peso di ciò che ha lasciato indietro è ancora lì, come un’ombra che si allunga sul tatami del locale. “A volte mi chiedo come stanno i miei genitori, i miei vecchi amici. Ma tornare indietro significherebbe riaprire vecchie ferite. Non posso permettermelo.”

La sua voce è ferma, ma nei suoi occhi c’è una fragilità che tradisce il costo della sua scelta. Le chiedo se è felice. Lei ride, un sorriso amaro. “Felice? Non lo so. Però sono libera, questo sì. Ma la libertà ha un prezzo. Vivo ogni giorno sapendo che la mia vita è costruita su una menzogna, ma è una menzogna che mi tiene al sicuro.”

Quando ci salutiamo, Aiko si alza con grazia, come se stesse recitando un ruolo che ha imparato a memoria. Mi ringrazia per il tè, ma mi fa promettere di non rivelare dettagli che possano identificarla. “Non sono un’eroina, né una vittima.” Dice prima di andare. “Sono solo una che ha scelto di evaporare.”

Mentre la guardo scomparire tra la folla di Asakusa, penso a quanto il fenomeno dei johatsu sia più di una curiosità culturale. È un riflesso delle crepe di una società che venera l’onore e la perfezione, ma lascia poco spazio al fallimento o alla debolezza umana. Aiko, con il suo nuovo nome e la sua nuova vita, è il simbolo di chi ha scelto di riscrivere la propria storia, anche a costo di lasciarsi tutto alle spalle. Ma in questa città di luci e ombre, quanti altri fantasmi stanno ancora evaporando, nascosti tra le pieghe di un Giappone che non fa domande?




IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
 






 
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