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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE

Venere in pelliccia
Il racconto di Wanda von
Dunajew Avvolta in raso
rosso e ermellino, con un frustino in mano, ho dominato il mondo e
la mente di Leopold von Sacher-Masoch, ma a caro prezzo. Questa è la
storia di come sono diventata la sua dea crudele e di come, alla
fine, ho scelto di liberarmi....

Mi chiamo Wanda von Dunajew,
ma un tempo ero solo Angelika Rümelin Aurora, scrittrice
e traduttrice, nata nel 1845 a Graz, in Austria. La mia
vita, però, ha preso una piega che nessuno avrebbe
potuto immaginare, nemmeno io, quando incontrai Leopold
von Sacher-Masoch. Oggi, mentre il sole di Firenze
accende di riflessi dorati le stanze della nostra
dimora, ripenso a come tutto è iniziato, a come sono
diventata la Venere che lui venerava, armata di frustino
e avvolta in una veste di raso rosso bordata di
ermellino.
Era un pomeriggio di primavera, a
Graz. Leopold era venuto a chiedermi un parere sui suoi
scritti. Lo ricevetti nel mio salotto, severa e
composta, con i capelli raccolti e un abito nero che
sottolineava il mio portamento austero. Lui, con i suoi
occhi inquieti e la voce incerta, sembrava quasi
intimorito. “Signorina Aurora.” Esordì. “Ho letto i
vostri articoli. La vostra penna è affilata, diretta.
Vorrei un vostro giudizio sincero sul mio ultimo
manoscritto.” Gli risposi con un sorriso freddo: “Non
amo le lusinghe, signor von Sacher-Masoch. Mi mostri il
suo lavoro, e vedremo se merita il mio tempo.” Quello fu
l’innesco della nostra storia.
Leopold non
cercava solo un parere; cercava una musa, una donna che
incarnasse il suo ideale di crudeltà e bellezza.
Passammo ore a parlare, e più il tempo passava, più lui
si apriva, rivelando una filosofia di vita che ruotava
attorno al piacere e al dolore. “Il vero godimento.” Mi
disse, con una luce febbrile negli occhi. “Si trova
nella sottomissione, nell’abbandono totale a una donna
che domina senza pietà.” Sorpresa replicai: “E lei,
Leopold sarebbe disposto a piegarsi a tal punto?”
“Assolutamente, Aurora. Vi chiamerei Wanda, se me lo
permetteste. Siete la mia Venere, la mia dea. Vi offro
la mia devozione, la mia obbedienza. Tutto.”
Avevo avuto altre esperienze prima di lui, ma mi ero
accorta di non essere una donna incline ai
sentimentalismi. L’idea di un amore convenzionale mi
annoiava. Così, quando Leopold mi propose di convivere
per un anno, per “verificare la nostra compatibilità”,
accettai. Non per amore, ma per curiosità sondando un
terreno a me sconosciuto. E forse per il piacere di
vedere fino a dove potevo spingerlo. Così iniziammo la
nostra storia e quando, alla fine di quell’anno, mi
chiese di sposarlo, posi una condizione: “Se devo essere
la tua Venere, Leopold, lo sarò a modo mio. Non
aspettarti dolcezza da me.” “Non la voglio.” Rispose
lui, con un fervore che mi fece quasi sorridere. “Voglio
che siate crudele, inflessibile. Voglio essere vostro,
completamente.”
Fu allora che mi presentò il
contratto. Un foglio scritto di suo pugno, in cui
rinunciava a ogni diritto personale, dichiarandosi mio
schiavo. “Potete fare di me ciò che volete, Wanda.” Mi
disse, porgendomi la penna. “E se lo desiderate, potete
persino togliermi la vita.” C’era una postilla, in cui
parlava di suicidio, come a liberarmi da ogni vincolo
morale. Notai che in quel contratto non vi era alcuna
sua richiesta tranne che indossassi una pelliccia,
specialmente nei momenti in cui la mia crudeltà si
manifestava. “Una pelliccia?” Chiesi, quasi
divertita. “E perché mai?” “Perché è regale,
sensuale. È il simbolo della vostra potenza.”
Ci
trasferimmo a Firenze, lontano da occhi indiscreti. Qui,
Leopold divenne “Gregor”, il mio servo assoluto. Io,
Wanda, mi trasformai nella femme fatale che lui aveva
sognato. Ricordo una sera, mentre camminavo per i
corridoi della nostra villa, avvolta in una veste di
raso rosso, l’ermellino che accarezzava la mia pelle e
la giarrettiera che si intravedeva dallo spacco. Tenevo
in mano un frustino, e lui mi seguiva, gli occhi bassi,
in attesa. “Gregor.” Lo chiamai, con un tono deciso e
tagliente. “Hai lucidato le mie scarpe come ti ho
ordinato?” “Sì, padrona.” Rispose, con un tremito
nella voce. “Fammi vedere.” Mi avvicinai, ispezionando
il suo lavoro. Poi, senza preavviso, alzai il frustino e
lo colpii sulla spalla. “Non è abbastanza. Rifallo. E
questa volta, non deludermi.” Il suo sguardo si
accese di una strana gratitudine. Era felice, in un modo
che non riuscivo a comprendere fino in fondo. Ma io
presi sul serio il mio ruolo. Le punizioni divennero più
severe, le umiliazioni più raffinate. Lo legavo, lo
costringevo a guardare mentre flirtavo con altri uomini,
lasciando che il dolore e la gelosia lo consumassero.
Lui non si ribellava mai. “Grazie, Wanda.” Sussurrava,
anche quando il frustino lasciava segni sulla sua pelle.
Leopold aveva una collezione di pellicce e
giarrettiere che custodiva come reliquie. Ogni tanto, mi
chiedeva di indossarne una specifica. “Questa.” Diceva,
porgendomi una pelliccia di volpe argentata. “Vi rende
ancora più divina.” Io acconsentivo, del resto era
l’unico campo in cui lui poteva esprimere una sua
opinione.
Poi arrivò il momento in cui decisi di
ampliare ancora di più i confini del nostro gioco. Fu
una mia scelta, un capriccio dettato dalla voglia di
spingere Leopold oltre ogni limite, di vedere fino a che
punto la sua devozione potesse resistere. Durante un
ricevimento a cui avevo deciso di presenziare da sola,
tra i lampadari di cristallo e i calici di vino,
incontrai Matteo. Era un attore italiano, con occhi
grandi scuri e un sorriso disarmante. Alto, con un
portamento elegante ma disinvolto, era l’antitesi di
Leopold. Dove mio marito era fragile, tormentato dalla
sua stessa mente, Matteo trasudava una sicurezza che
rasentava l’arroganza. Mi corteggiò per tutta la serata,
sfiorandomi il braccio, cingendomi i fianchi con una
familiarità calcolata, sussurrandomi complimenti che
erano più provocazioni che lusinghe.
“Signora
Wanda, una donna come voi non dovrebbe mai passare
inosservata. Siete un fuoco che brucia chiunque osi
avvicinarsi. ”Sorrisi, sfidandolo con il mio sguardo. “E
tu, Matteo, sei il tipo d’uomo che si lascia bruciare?”
Lui rise, un suono caldo e pericoloso. “Provatemi, e lo
scoprirete.” Quella sera, senza consultare Leopold,
decisi di invitarlo a casa nostra. Prima di andare
velatamente lo misi al corrente delle inclinazioni di
mio marito e lui divertito accettò senza battere ciglio.
Non era solo un gioco per stuzzicare mio marito; era un
modo per reclamare il mio potere, per ricordare a me
stessa che ero io a dettare le regole e perché no, per
sentirmi femmina vera.
Quando entrammo nella
villa, l’aria era densa di tensione. Leopold, o meglio
“Gregor”, come lo chiamavo in quei momenti, era in
salotto. Indossavo la mia veste di raso rosso,
l’ermellino che scivolava morbido sulle spalle e la
giarrettiera che si intravedeva dallo spacco ogni volta
che mi muovevo. “Gregor.” Dissi, con voce ferma, mentre
Matteo, accanto a me, mi sfiorava la schiena con una
mano possessiva. “Ti presento il nostro ospite.” Leopold
si alzò lentamente, il volto pallido, gli occhi che
oscillavano tra reverenza e un’ombra di angoscia. Matteo
lo squadrò. “Questo è il tuo servo, Wanda? È patetico.”
“È mio.” Risposi. “E fa tutto ciò che voglio. Non è
vero, Gregor?” Leopold annuì e Matteo mi baciò
lentamente. Sentii il respiro di Leopold accelerare, un
suono soffocato che tradiva la sua lotta interiore.
“Dimmi, Wanda.” Sussurrò Matteo, ormai immerso nel
gioco. “Cosa ci fai con un uomo del genere? Potresti
avere chiunque, e scegli un cane che ti lecca i piedi?”
“Un cane fedele ha il suo valore.” Replicai, girandomi
verso Leopold. “Non è così, Gregor? Dimmi, cosa provi a
vedermi con lui?” Leopold esitò, le mani tremanti. “Io…
sono felice se voi lo siete.” Matteo rise di nuovo,
questa volta più forte, e si voltò verso di lui.
“Felice? Guardati, sei ridicolo. Siediti lì e guardaci,
se hai il coraggio.”
Lui obbedì e si sedette
sulla poltrona con lo sguardo fisso su di noi. Presi il
frustino dal tavolo, mentre Matteo, lasciando che le sue
mani scendessero lungo il mio fianco, mi accarezzava.
Ogni suo gesto era calcolato per ferire Leopold, per
alimentare quella miscela di gelosia e adorazione che lo
consumava. E io, in piedi tra loro due, mi sentivo come
una regina, una Venere crudele che orchestrava ogni
emozione nella stanza. “Gregor.” Dissi, con un tono che
era al contempo dolce e tagliente, “Ti piace o
preferiresti che Matteo se ne andasse?” Lui non ci
pensò due volte: “No, padrona. Voglio… voglio che resti.
Se è ciò che desiderate.” Matteo scosse la testa,
sconcertato. “Che creatura patetica. Wanda, sei sprecata
con lui.” “Forse.” Risposi, lasciando che il frustino
accarezzasse il palmo della mia mano. “Ma è proprio la
sua debolezza a rendermi potente.”
Quella notte,
mentre Leopold rimaneva nell’ombra, legato alla sua
sedia dalla mia volontà, io e Matteo continuammo il
nostro gioco, ci unimmo carnalmente davanti a lui. E
ogni bacio, ogni carezza, era un colpo inferto al cuore
di Leopold, e lui lo accettava, lo bramava persino. Non
disse nulla, non emise alcun suono ma sentivo quanto
quel rapporto fosse esattamente l’apoteosi del suo
desiderio, il culmine della sua fantasia realizzata, e
io, la sua Venere in pelliccia, ero più che felice di
dargli ciò che bramava. Ma, in fondo, mi chiedevo se
fosse davvero lui a controllare il gioco, o se fossi io,
con il mio potere, a plasmare ogni dettaglio di quella
danza perversa.
Il nostro rapporto, tra ordini,
frustini e una processione di uomini che allietaano le
mie serate e alimentavano le perversioni di Leopold,
continuò per anni. Io, Wanda, la Venere in pelliccia,
dominavo ogni scena, avvolta nel mio raso rosso e
nell’ermellino, con il frustino che scandiva il ritmo
delle nostre giornate. Ma, sotto la superficie, qualcosa
in me cominciò a incrinarsi. Quel ruolo, che all’inizio
mi aveva intrigata per la sua audacia, iniziava a
pesarmi come una pelliccia troppo pesante sotto il sole
di Firenze.
Nel 1873, stanca di essere il
riflesso della sua ossessione, decisi di porre fine al
nostro matrimonio. Non fu una decisione improvvisa, ma
il risultato di momenti che, come gocce cinesi, avevano
scavato una voragine tra noi. Uno di questi momenti
avvenne una sera d’autunno, quando organizzai una cena
per un ristretto gruppo di artisti e intellettuali di
Firenze. Leopold, come sempre, interpretava il suo ruolo
di “Gregor”, il servo silenzioso che serviva il vino e
abbassava lo sguardo quando gli ospiti lo ignoravano.
Tra gli invitati c’era un pittore, Lorenzo, un uomo dai
modi gentili, ma dallo spirito ribelle, che non aveva
alcun interesse per i giochi di potere che Leopold
adorava. Durante la serata, Lorenzo mi prese da
parte, lontano dagli occhi di mio marito, e mi parlò con
una sincerità che mi colse impreparata. “Wanda.” Disse,
guardandomi dritto negli occhi. “Sei una donna
straordinaria, ma sembri intrappolata in una recita.
Perché ti nascondi dietro questa maschera di crudeltà?
Non sei stanca di vivere per compiacere le fantasie di
un uomo?” Sorrisi, come facevo sempre, per dissimulare
il turbamento. “Non vivo per compiacere lui, Lorenzo.
Sono io a comandare.” “Forse.” Rispose, con un’ombra
di compassione nello sguardo. “Ma una regina non ha
bisogno di un frustino per essere potente.” Quelle
parole mi perseguitarono per giorni. Ero davvero una
regina, o solo l’attrice principale nel teatro di
Leopold? Più ci pensavo, più sentivo che il mio ruolo di
Venere, che un tempo mi aveva fatto sentire invincibile,
stava diventando una prigione.
Un altro episodio
che segnò il mio percorso avvenne qualche mese dopo,
poco prima del nostro divorzio. Una mattina, mentre
passeggiavo da sola lungo l’Arno, mi fermai a osservare
il riflesso dell’acqua. Ripensai alla ragazza che ero
stata a Graz, Angelika Rümelin Aurora, piena di sogni e
ambizioni, e mi chiesi dove fosse finita. Leopold mi
aveva trasformata in Wanda, la sua Venere, ma a quale
costo? Quella sera, tornata a casa, trovai Leopold
intento a scrivere una nuova storia, un altro capitolo
della sua ossessione. Gli chiesi, senza preamboli:
“Leopold, ti sei mai chiesto chi sono io, oltre alla tua
padrona?” Lui alzò lo sguardo, sorpreso. “Sei Wanda. Sei
tutto ciò che desidero.” “Ma io non sono solo
questo.” Replicai, con una calma che mi sorprese. “E non
voglio più essere solo questo.” Quella conversazione fu
il punto di rottura. Capii che, per quanto Leopold fosse
dipendente dalla mia dominazione, io non potevo più
vivere come il suo ideale. Il nostro matrimonio,
costruito su un contratto di sottomissione, non aveva
spazio per la donna che volevo tornare a essere. Nel
1873, dopo battaglie legali che furono tanto estenuanti
quanto il nostro rapporto, ottenni il divorzio. Lasciai
Leopold alle sue pellicce, ai suoi frustini e alle sue
amanti crudeli, e me ne andai, portando con me solo il
ricordo di una Wanda che, per un po’, aveva regnato
sovrana, ma che ora voleva essere libera. Lui però
non guarì mai, seppi anni dopo che continuò a cercare
donne che lo dominassero, che lo umiliassero. La nostra
passione si era spenta, ma non la sua sete di
sottomissione.
Mentre cammino per le strade di
Firenze, sola, con il frustino ormai riposto, ripenso a
quegli anni. Ero davvero la Venere che Leopold vedeva in
me? O ero solo il riflesso dei suoi desideri? Forse non
lo saprò mai. Ma una cosa è certa: in quelle stanze,
avvolta in raso e pelliccia, ero la padrona del suo
mondo. E, per un po’, anche del mio.
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GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA


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