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I RACCONTI DI ARTE PASSIONE
 
Agostina Segatori
La musa del Tambourin
Parigi, 1887. Al numero 62 di Boulevard de Clichy, il Café du Tambourin vibrava di vita, arte e di passione che travolse la bella marchigiana e Vincent van Gogh...



 
Parigi, 1887. Al numero 62 di Boulevard de Clichy, il Café du Tambourin vibrava di vita ed arte. Le sue seggiole a forma di tamburello, le cameriere vestite con costumi marchigiani e l’aria impregnata di tabacco e assenzio ne facevano un angolo d’Italia trapiantato nel cuore della Ville Lumière.
Al centro di tutto, c’era lei: Agostina Segatori, la donna che tutti chiamavano “la bella Italiana”. La sua bellezza bruna, gli occhi profondi come il mare di Ancona e il portamento fiero catturavano gli sguardi di chiunque varcasse la soglia del suo bistrot.
Vincent van Gogh, un olandese dal cuore inquieto e gli occhi pieni di tempeste, era arrivato a Parigi l’anno prima, nel 1886, ospite del fratello Theo. La città lo aveva travolto con i suoi colori, le sue luci, i suoi eccessi. Ma fu in una sera di primavera, tra il fumo e il chiacchiericcio del Tambourin, che il suo mondo si fermò. La vide per la prima volta mentre lei si muoveva tra i tavoli, con la grazia di una danzatrice e l’autorità di una regina. Indossava un abito tradizionale italiano, il corpetto stretto che esaltava le sue curve mediterranee, i capelli neri raccolti in una treccia che le scivolava sulla spalla.
Non era più giovane, ma Vincent, seduto in un angolo con una tela abbozzata e un bicchiere di vino in mano, sentì il cuore battere come non gli accadeva da tempo. Era abituato a dipingere paesaggi, girasoli, nature morte, ma quella donna era un quadro vivente, un’esplosione di vita e sensualità che chiedeva di essere immortalata.

Vincent non era uomo da convenevoli. Con il suo cappello di paglia sgualcito e i vestiti macchiati di pittura, si alzò e si avvicinò al bancone, dove Agostina stava servendo un cliente. “Signora Agostina.” Disse con voce rauca, il suo accento olandese che tradiva una forte emozione. “Mi chiamo Vincent van Gogh. Sono un pittore e vorrei… vorrei dipingervi.”

Lei lo scrutò, un sopracciglio inarcato, abituata agli sguardi degli uomini e alle loro vane promesse. Ma in quegli occhi azzurri, tormentati e sinceri, vide qualcosa di diverso: un fuoco che non era solo desiderio, ma fame di bellezza, di verità. “Dipingerete me?” Rispose Agostina, con un accenno di ironia. “E cosa vi fa pensare che io abbia tempo per posare, monsieur?” Ma il suo sguardo si soffermò su di lui, su quel volto scavato, sulle mani nervose che stringevano un carboncino. C’era qualcosa in quell’uomo che la incuriosiva, una fragilità nascosta dietro la sua intensità, ma lei rimase vaga e non si impegnò.

Agostina era approdata nella capitale francese ventisei anni prima nel 1860, a soli diciannove anni, grazie a Jean-Baptiste Corot, folgorato dalla sua bellezza durante un viaggio in Italia. Il maestro della luce fu il primo a ritrarla trovando in lei una musa viva dall’eleganza sobria. Il nome di Agostina iniziò a circolare nei caffè parigini e poco dopo quelle tele attirarono l’attenzione di Édouard Manet. Lui affascinato dalla sua presenza scenica, la scelse come modella per uno dei suoi lavori cogliendo in lei una donna che non si limitava a posare, ma che partecipava attivamente al processo creativo.

Dopo Corot e Manet, Agostina posò per Jean-Léon Gérôme, l’amante dell’esotismo e dei dettagli minuziosi. In quei dipinti, Agostina divenne una figura quasi mitologica, una musa che incarnava un ideale di bellezza lontana, ma l’amore travolgente arrivò con Édouard Joseph Dantan, un pittore parigino che incontrò nel 1873. Con Dantan, Agostina non fu solo una musa, ma una compagna, una fiamma che accendeva il fuoco dell’arte misto a passione e tormento. Lui la rappresentò in un medaglione di cera esposto al Salon del 1874, ma la loro storia d’amore fu tutt’altro che serena. Nel 1873 nacque il loro figlio, Jean-Pierre, che porterà il cognome Segatori, poiché Dantan non lo riconobbe ufficialmente.
Quando, nel 1884, Agostina sposò Pierre Gustave Julien Morière, il figlio venne riconosciuto legalmente da quest’ultimo, segnando la fine definitiva della relazione con Dantan.

Posare per questi artisti fu per Agostina un modo per affermare la propria identità. Ogni pittore vedeva in lei qualcosa di diverso: per Corot è la poesia, per Manet la modernità, per Gérôme l’esotismo, per Dantan l’amore. Eppure, in ogni ritratto, Agostina rimase se stessa: una donna che non si piegava, che usava la sua bellezza come un’arma e la sua intelligenza come uno scudo.

Con il passare degli anni, però, Agostina capì che la giovinezza non era eterna. Le prime rughe, il mutare del gusto artistico e la sua natura irrequieta la spinsero a cercare una nuova strada. È così che, mettendo a frutto il suo carisma e la sua esperienza, decise di aprire il Café du Tambourin, trasformandosi da musa a mecenate, da modella a protagonista della scena parigina.

Ed era proprio in quel bistrot che Vincent tornava ogni sera. Portava con sé schizzi, tele, colori. Agostina, inizialmente divertita, alla fine accettò di posare per lui. Seduta a uno dei tavolini con una tazza di caffè davanti e lo sguardo perso in lontananza, divenne pian piano la sua musa.

Vincent dipingeva con i pennelli che danzavano sulla tela come se volessero catturare non solo la sua bellezza, ma la sua essenza femminile. Lei, dal canto suo, si lasciava guardare, consapevole del potere che il suo fascino esercitava su di lui. Ogni tanto, un sorriso malizioso le increspava le labbra, e Vincent arrossiva, incapace di nascondere l’effetto che lei aveva su di lui.

Una sera di maggio, quando la primavera parigina profumava di glicine e il Café du Tambourin si era svuotato, Vincent rimase fino a tardi. Agostina stava sistemando il retro del locale, una stanzetta ingombra di bottiglie e tele accatastate, illuminata solo da una lampada a olio. Lui la seguì, con la scusa di mostrarle un nuovo schizzo. L’aria era densa, carica di tensione. “Agostina…” Mormorò Vincent, posando il disegno sul tavolo. Lei si voltò, i loro volti si avvicinarono. “Cosa vuoi da me, Vincent?” Chiese, mentre i suoi occhi pieni di vita vissuta lo sfidavano.

Non ci furono altre parole. Vincent, spinto da un impulso che non poteva controllare, si chinò verso di lei, e le loro labbra si incontrarono. Fu un bacio goffo, quasi disperato, come se lui temesse che quel momento potesse svanire. Agostina, sorpresa, si irrigidì per un istante, poi si abbandonò, lasciando che la passione di quell’uomo la travolgesse. Le sue mani, abituate a posare per artisti, scivolarono sul suo viso, accarezzando la barba ruvida e rossa. Era un bacio che sapeva di vino, di pittura, di desideri repressi. Nel retro del Tambourin, tra le ombre e il profumo di legno e assenzio, i loro mondi si fusero per un istante.

La relazione tra Agostina e Vincent si trasformò presto in un connubio di arte e passione. Lei, con il suo spirito imprenditoriale, decise di trasformare il Café du Tambourin in una galleria per le opere di Vincent. Le pareti del locale si riempirono di tele dai colori vividi, nature morte con girasoli e paesaggi. Fu a tutti gli effetti la prima esposizione parigina di Vincent, un evento che attirò l’attenzione di artisti come Toulouse-Lautrec ed Émile Bernard.

Agostina, orgogliosa, camminava tra i tavoli, indicando i dipinti ai clienti con un sorriso che mascherava il tumulto interiore. Per Vincent, quel café divenne un tempio, un luogo dove la sua arte trovava finalmente una casa, grazie alla donna che lo ispirava. Lei posava per lui con una sensualità naturale, senza artifici. Nei ritratti che Vincent le dedicò, come quello in cui appare seduta al tavolo del Tambourin, c’era qualcosa di più della sua bellezza fisica: c’era la sua forza, la sua malinconia, il peso di una vita vissuta senza paura. Vincent la dipinse anche nuda, ritratti in cui cercava di catturare insieme la potenza e la fragilità di Agostina. Lei, dal canto suo, si sentiva viva e desiderata sotto il suo sguardo, come se ogni pennellata fosse una carezza.

La loro storia d’amore fu un incendio che bruciò ogni attimo della loro passione. Tutte le sere dopo che il café aveva chiuso e la luna illuminava il Boulevard de Clichy, Agostina e Vincent si ritrovavano nel retro del locale. Non c’era più spazio per parole o esitazioni. Lei, con un gesto lento scioglieva i lacci del corpetto, offrendo ai baci di Vincent il suo seno nudo e lasciando che il tessuto scivolasse a terra. Vincent la guardava, il respiro corto, il cuore che batteva come un tamburo. “Sei bellissima.” Le sussurrava ogni volta. Agostina sorrideva, un sorriso che era insieme dolce e selvaggio.

Il loro amore rifletteva le loro anime: lui, tormentato, affamato di bellezza e di redenzione; lei, libera, sensuale, incapace di piegarsi alle convenzioni. Erano momenti di fusione totale, in cui il mondo fuori dal Tambourin cessava di esistere. Ma anche in quegli istanti di passione, c’era una sfumatura di malinconia, come se entrambi sapessero che il loro amore era destinato a bruciare troppo in fretta.

L’estate del 1887 portò con sé crepe nel loro rapporto. Vincent, con la sua mente tormentata e il suo carattere instabile, si scontrava con l’indipendenza di Agostina. Lei, che aveva conosciuto altri amori tempestosi, non era disposta a sacrificare la propria libertà. Le discussioni divennero frequenti. Alla fine, decisero di separarsi, senza drammi, come due anime che si erano sfiorate troppo intensamente per restare unite. Agostina tenne per sé tutte le tele di Vincent, esposte al Tambourin. Vincent lasciò Parigi l’anno successivo, inseguendo il sole di Arles e la sua follia.


Agostina, invece, affrontò un destino più terreno: il Café du Tambourin chiuse i battenti, i debiti la travolsero, e la sua bellezza si spense lentamente, consumata dalla povertà e dalla malattia. Morì nel 1910, sola, in una Parigi che non aveva più posto per la sua luce. Ma in quelle tele, nei ritratti che Vincent le dedicò, Agostina vive ancora: una donna che osò, che amò, che bruciò come una cometa nel cielo di Montmartre. E in ogni pennellata, c’è il ricordo di un amore che, per quanto breve, fu eterno.




IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
 






 
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