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REPORTAGE
 
 
Giulia Trigona
La tragica storia della bella nobildonna
Amore e morte ai tempi della Belle Époque...
Era il 1877 quando Giulia Tasca Lanza vide la luce, figlia di una principessa e di un conte. Siamo nella Palermo della Belle Époque, dove tutta la vita mondana ruotava intorno alla famiglia Florio...
1877 - 1911


 

Era il 1877 quando Giulia Tasca Lanza nasceva a Palermo, figlia della principessa Giovanna Filangeri di Cutò e del conte Lucio Mastrogiovanni Tasca Lanza. Siamo nella Palermo della Belle Époque, dove tutta la vita mondana ruotava intorno alla famiglia Florio.
Ultima di quattro sorelle, Giulia fece il suo ingresso in società ancora adolescente, incantando tutti con la sua brillantezza. La sua eleganza e il suo fascino la resero presto una figura di spicco nei salotti aristocratici palermitani, particolarmente ammirata durante gli sfarzosi ricevimenti dei Florio. In seguito, il suo prestigio la portò a diventare dama di corte della regina Elena, consolidando il suo ruolo nell'élite dell'epoca.

Conobbe il suo futuro marito, il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia, in uno di questi ricevimenti. Si sposò all’età di diciotto anni, ebbe due figlie e un buon rapporto coniugale per almeno dieci anni.

Poi però durante una lunga malattia scoprì suo malgrado una relazione clandestina tra suo marito e un’attrice della compagnia di Scarpetta. Da quel momento un profondo dolore e un grande desiderio di rivalsa si impadronirono di lei e l’11 agosto del 1909 durante un ricevimento dei Florio a Villa Igiea, conobbe il barone Vincenzo Paternò del Cugno, bello, affascinante e aitante tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei.

Tra loro scoppiò immediatamente una passione travolgente, ma fu un amore tragico e fatto di mille escamotage pur di vedersi e, anche, di liti furiose dovute all’assurda gelosia del bel tenente.

Spesso si incontravano nei salottini privati di Villa Igiea, lontano dai fasti dei ricevimenti, dove le luci soffuse e gli angoli nascosti offrivano un’illusione di intimità. Altre volte, si vedevano in una piccola dimora di campagna nei dintorni di Palermo, proprietà di un fidato amico del barone, circondata da uliveti e lontana da sguardi indiscreti. Qui, tra i profumi della macchia mediterranea, i loro incontri si accendevano di passione: momenti rubati, fatti di sguardi ardenti, carezze furtive e promesse sussurrate, ma anche di discussioni accese, quando la gelosia di Vincenzo esplodeva in accuse che ferivano Giulia. Talvolta, si ritrovavano nei giardini di Villa Malfitano, tra siepi intricate e sentieri ombrosi, fingendo casuali passeggiate per scambiarsi lettere o brevi attimi di intimità. Ogni incontro era un’audace danza tra desiderio e rischio, con Giulia che, avvolta in mantelli scuri per non essere riconosciuta, si affidava a complici servitori per raggiungere il suo amante.

Dopo alcuni mesi però la loro relazione era sulla bocca di tutti, nacquero pettegolezzi e lettere anonime che, recapitate a palazzo Trigona, scatenarono l’ira del marito Romualdo. Il conte a quel punto scacciò la moglie di casa, ma poi, su pressioni della famiglia, fu costretto a riaccoglierla a casa dopo che la stessa Giulia fece la promessa, non mantenuta, di interrompere la storia col Paternò.

Nonostante le difficoltà, la passione tra Giulia e il barone continuò a bruciare, rendendo ogni incontro un misto di estasi e tormento, un fuoco che né il decoro né gli scandali potevano spegnere.

L’unico desiderio della donna era quello di vivere con l’amante covando il desiderio di separarsi dal marito, ma per problemi economici, decise prima di tutto di vendere un feudo di proprietà della sua famiglia che le avrebbe garantito la propria indipendenza economica.

Purtroppo però il barone Vincenzo Paternò non era propriamente uno stinco di santo. Si parlava di lui come un brillante ufficiale, ma anche di un tombeur de femmes e un farfallone dai modi galanti dedito a saltare da un letto all’altro di mogli insoddisfatte. Ma visto che le disgrazie non vengono mai da sole Paternò era anche un tipo violento che viveva di debiti e di espedienti, dominato dalla passione per i cavalli e per il gioco. Senza contare che, nonostante provenisse da una famiglia nobile, le sue risorse finanziarie erano a dir poco insufficienti, tanto che, più volte chiese soldi alla stessa Giulia avendo come obiettivo principale il ricavato del feudo che Giulia aveva venduto.

Quella relazione clandestina andò avanti per circa due anni fino a quanro, Giulia, nonostante fosse innamorata, iniziò a dare segni di stanchezza. Sfinita per le deliranti scene di gelosia dell’amante, voleva riacquistare la propria libertà chiudendo quella relazione e per cancellare ogni traccia rientrare in possesso delle lettere che aveva spedito all’amante. Fu così che la mattina del 2 marzo del 1911, dopo una breve visita alla Regina Elena al Quirinale, decise di troncare la relazione, ovviamente contro il volere del suo amante.

Quella mattina Paternò, in procinto di partire per Napoli a seguito del suo reggimento, aveva chiesto a Giulia un ultimo appuntamento. La donna, seppure a malincuore, aveva acconsentito. L’incontro fu fissato alle ore 12 all’Hotel Rebecchino nei pressi della Stazione Termini di Roma, luogo consueto per i loro appuntamenti segreti. Resosi conto che la donna voleva lasciarlo, in preda ad un’ossessione amorosa lungo la strada che lo conduceva all’appuntamento, fece una breve sosta in un negozio di armi sito in via dei Crociferi, dove acquistò un coltello da caccia grossa. Alle 12 in punto giunse all’Hotel Rebecchino e chiese una camera matrimoniale, la stanza numero otto.

La stanza era semplice: un letto in ferro battuto, tende pesanti che schermavano la luce del giorno, un piccolo tavolo con una brocca d’acqua e un armadio di legno scuro. L’atmosfera era carica di segretezza, come sempre nei loro incontri. Vincenzo, ancora in uniforme da tenente, si tolse il cappello e attese, il coltello nascosto nella tasca interna della giacca.
Poco dopo, Giulia fece il suo ingresso. Indossava un abito sobrio ma elegante, di seta grigio perla, con un cappello a tesa larga che le ombreggiava il viso per non attirare sguardi indiscreti. Quando varcò la soglia della stanza numero otto, i loro occhi si incontrarono, e per un istante il mondo esterno svanì. Ma l’aria tra loro era densa di tensione.

Si abbracciarono con foga, come se volessero cancellare il tempo e le circostanze che li stavano separando. Le mani di Vincenzo si intrecciarono nei capelli di Giulia, mentre lei, con un misto di desiderio e amarezza, si abbandonava a quell’ultimo momento di passione. I loro corpi si cercarono con un’intensità disperata, ogni bacio e ogni carezza intrisi di un amore che sapeva di addio.

Ma quella passione non era più solo amore: era venata di rabbia e rancore. Vincenzo, sentendo la determinazione di Giulia a chiudere la loro storia, alternava momenti di dolcezza a scatti di collera. Le parole si fecero affilate: “Mi stai abbandonando!” disse lui con voce rotta, mentre le sue mani stringevano le sue con troppa forza. Giulia, con gli occhi lucidi, replicò: “Non è abbandono, Vincenzo. È sopravvivenza.”

La stanza, che per un attimo era stata un rifugio, divenne il teatro di un confronto doloroso. Quel coltello, ancora nascosto nella giacca di Vincenzo appesa all’armadio, divenne un’ombra silenziosa. La passione si mescolò a un senso di perdita irreparabile: ogni stretta di lui era un tentativo di trattenere ciò che stava per perdere.

Dopo circa un quarto d’ora una cameriera che passava nel corridoio, attratta dalle grida soffocate, che giungevano dalla camera numero otto, spiò dal buco della serratura e vide prima l’uomo colpire ripetutamente col coltello la donna e poi prendere la sua pistola d’ordinanza e spararsi alla tempia. La cameriera diede subito l’allarme e la polizia trovò sul letto imbrattato di sangue il corpo senza vita della donna con indosso un solo bustino lilla e un paio di mutandine bianche. Poco più in là, disteso sul pavimento, l’uomo col viso sfigurato.
La rivoltella era sul tappeto insieme a centinaia di lettere che i due amanti si erano scritte in quei due anni. Tra le quali una che la bellissima Giulia aveva scritto al suo affascinante tenente: “Nel tuo affetto ho trovato tutte le dolcezze, tutte le consolazioni che credevo perdute per sempre!“ Vincenzo Paternò, soccorso immediatamente, si salvò, e fu accusato di omicidio premeditato.

Fu arrestato e nel corso dell’istruttoria, nonostante la richiesta di semi infermità di mente, venne riconosciuto sano di mente e fu condannato all’ergastolo. Il verdetto fu pronunciato la sera del 28 giugno 1912.  Nel 1942, a 62 anni Paternò ricevette la grazia. Riacquistata la libertà si sposò ed ebbe un figlio. Morì nel 1949.

 


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 FONTI:
http://www.enciclopediadelledonne.it/
biografie/giulia-trigona/
https://www.ilsicilia.it/la-tragica-storia-
della-bella-nobildonna-vittima-di-un-
femminicidio-ante-litteram/
https://www.harpersbazaar.com/it/cultura/
costume/a31895335/giulia-trigona-storia-omicidio/
https://www.museocriminologico.it/index.php/2-non-
categorizzato/121-omicidi-caso-trigona-paterno








 
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