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  RACCONTI
 
  Adamo Bencivenga
 Oltre la grata c’è il mare
 Sotto una grata che la imprigiona, una donna 
			senza nome, rapita e sola, si aggrappa ai ricordi di una vita libera 
			e di un amore fugace con un misterioso francese. Tra il rumore del 
			mare, le urla in una lingua straniera e il terrore della notte, la 
			sua mente oscilla tra rimpianti, sogni infranti e una disperata 
			voglia di ritrovare se stessa...
 
 
 
  
 
 
 
 
				
					| Sono sola 
	  al mondo, se muoio adesso nessuno stasera mi terrà compagnia. Questa grata 
	  m’impedisce di uscire, questa finestra troppo in alto m’impedisce di 
	  vedere, ma lo so che c’è il mare, sento la brezza carica di sale, lo sento 
	  non è poi distante. Ogni tanto qualche sparuto gabbiano si ferma e 
	  riparte, non mi degna di uno sguardo, non ho niente da offrirgli, neanche 
	  una mollica di pane per farmi un amico! Sento delle voci, parlano una 
	  lingua straniera, danno calci sui muri, ogni volta che tento di riposare, 
	  e poi ancora urla, arabe, maschili che fanno paura di giorno, terrore di 
	  notte.
 
 Stanotte sarà l’ennesima notte, non voglio ancora pensarci, 
	  ho paura degli insetti, di chiunque apra la porta e mi ordini senza 
	  ragione, perché la ragione ha un senso solo quando esiste decoro e la 
	  dignità o qualcosa di simile io l’ho persa strada facendo, inseguendo 
	  questa crepa sul muro che sbatte al soffitto e scompare oltre la porta e 
	  mi riporta nella mia città, al mio lavoro, ai miei vestiti leggeri, ai 
	  miei rossetti delicati, ai miei capelli freschi di shampoo.
 
 Ancora 
	  giovane aspettavo il mio principe azzurro, Dio come era bello nella mia 
	  fantasia, e com’erano belli i suoi occhi chiari, così sorpresi per non 
	  avermi incontrato prima, così innamorati da accettarmi per quella che ero. 
	  Apparentemente riflettevo spensieratezza e voglia di vivere, ma dentro 
	  covavano rimpianti e rimorsi di delusioni provate a catena. Si ammassavano 
	  nelle tante occasioni, uomini piccoli o grandi soltanto una notte, oppure 
	  non fatti di niente perché niente era pur sempre qualcosa. Mi sentivo come 
	  l’acqua che scorreva in cerca di una bottiglia per prendere forma, ma ogni 
	  giorno il tragitto non si fermava che al mare.
 
 Vivevo in una 
	  mansarda in centro, affittata momentaneamente da un mio amico fotografo 
	  che al tempo lo davano dalle parti dell’India, quando una sera in un 
	  vicolo buio fui rapita dal mio assassino. Vidi soltanto due occhi tra il 
	  viola e l’azzurro e come ipnotizzata cancellai in un attimo la mia vita 
	  passata, i sogni rimasti notturni e i desideri che non avevano mai avuto 
	  una forma. Lo annusai più volte, sapeva di pelle e di creta, sapeva di 
	  maschio e di mare, e senza alcun dubbio mi abbandonai nelle ore del primo 
	  mattino alla sua calda passione.
 
 Era affascinante il mio francese, 
	  Alen o qualcosa di simile, e senza un cognome, una casa, un lavoro, un 
	  passato e un passaporto girava il mondo e si guadagnava da vivere facendo 
	  l’amore, perché altro non sapeva fare, perché di meglio non poteva esserci 
	  altro. Si stabilì nella mia mansarda come se ci fosse sempre stato. Alla 
	  sera tornavo a casa dall’ufficio con il fiato grosso, per le scale a 
	  quattro a quattro e per il dubbio che ci fosse ancora.
 
 Ma sì, lui 
	  era sempre lì ad aspettarmi, a fare l’amore. Nel suo italiano incerto mi 
	  raccontava di storie slegate che non finivano mai bene, mai un legame, un 
	  affetto, una famiglia, un gatto, un biscotto che finisce nella tazza del 
	  latte, ma soltanto furbizie e tirare a campare, mezzi, modi e schifezze 
	  per arrivare fino a domani o farsi passare i crampi della fame. Oddio, una 
	  specie di sentimento lo avvertivo quando le sue parole incontravano il 
	  mare, come questo mare che ora sbatte e fa rumore oltre la grata che non 
	  posso più vedere. Solo gabbiani che gracchiano e hanno fame e questa 
	  brezza che entra, ma è umida e fredda e non fa per niente piacere.
 
 Trascorsero pochi giorni e devastata da quel fascino intrigante e latino 
	  mi accorsi come la mia vita vuota fosse solo un susseguirsi di 
	  preoccupazioni ed insicurezze. E così mi licenziai, e così lo seguii 
	  perché non avevo radici e nemmeno un geranio da annaffiare. Trascinata da 
	  quell’uomo che cercava solo aria nuova da respirare mi trovai senza più i 
	  miei vestiti leggeri, il rossetto in tinta, la calza velata alla moda e 
	  soprattutto senza più quel lavoro che finora mi aveva dato immagine, 
	  sostegno e ruolo. Nella toilette di un treno di notte varcammo la 
	  frontiera e poi ancora rotaie e binari fino a una città che parlava 
	  francese e sapeva di mare. Alloggiammo in una pensione che chiamarla in 
	  quel modo non rendeva l’idea, era simile a questo buco dove ora sono 
	  reclusa, puzzava di piscio come i gabinetti per strada.
 
 Passarono 
	  pochi giorni per rendermi conto di dove fossi finita, ma amavo quell’uomo, 
	  il suo sapore anarchico di delinquenza e libertà, che ogni giorno 
	  purtroppo diventava sempre meno mistero e sempre più reale. Lui conosceva 
	  quella città e non ci pensò due volte a farmi sentire di troppo come una 
	  pesante zavorra che viveva solo nell’attesa del suo ritorno. Non sapevo 
	  dove passasse le sue giornate, non conoscevo i suoi amici, lui andava e 
	  veniva senza nessuna ragione e senza mai giustificarsi, ma quando la notte 
	  si concedeva a me era un perfetto amante, m’affamava e mi saziava 
	  lasciandomi ogni volta quel senso d’incompiuto dove aspettava solo il 
	  momento di ricominciare. Durante quelle notti tornava leggero e potente 
	  come il raggio viola e azzurro dei suoi occhi, che mi spaccavano come un 
	  laser o come quel coltello che geloso custodiva nel fianco.
 
 Passò 
	  altro tempo, non mi accorsi che venne Natale e poi la bella stagione, 
	  finché una sera mi confessò che aveva giocato alle carte perdendo i suoi 
	  ed i soldi del capo. Certo io non sapevo chi fosse il suo capo e non 
	  sapevo come avesse fatto a perdere soldi visto che finora avevamo vissuto 
	  solo con i miei pochi risparmi. Mi confessò che sarebbe voluto scappare, 
	  fuggire di nuovo, ma questa volta da solo, senza di me, ovvero la sua 
	  palla al piede, perché a suo dire avevo la colpa di averlo fatto 
	  innamorare e che per me si era messo nei guai. Parlò per tutta la notte e 
	  fu bravo a farmi sentire in colpa, finché tra le lacrime, che al tempo 
	  credevo vere, mi pregò di aiutarlo ovviamente con la sola merce che potevo 
	  offrire.
 
 Ci pensai fino all’alba, poi dissi di sì e nel giro di 
	  qualche settimana vennero uomini d’ogni tipo e misura, slavi assassini e 
	  colombiani che sapevano di coca e frontiera; bambini arabi con la faccia 
	  da vecchi, turchi di montagna e ucraini di mare che non avrebbero 
	  rispettato neanche le loro figlie. Ogni giorno e ogni notte accoglievo 
	  dentro quella stanza quei sessi insaziabili, in astinenza per mesi di 
	  mare. Nel mio sesso scaricavano voglie, fantasie e frustrazioni per lungo 
	  tempo covate dentro cessi di nave o miseri buchi maschili. Senza più 
	  regole gli offrivo tutto quello che il mio corpo ridotto a carta velina 
	  poteva offrire con la speranza di azzerare quel debito di gioco e 
	  ricominciare a vivere la mia vita col mio uomo.
 
 Alen veniva al 
	  mattino presto e alla sera sul tardi, sempre a corto di soldi mi incitava 
	  a fare meglio, oltre i limiti evidenti di quel corpo ormai volgare e 
	  carico di mestiere che solo una infinita astinenza e una fertile fantasia 
	  potevano ancora gradire. Alen voleva essere il primo a cogliere la mia 
	  voglia e l’ultimo a finirmi, ed io rispondevo ai suoi desideri come una 
	  vergine tremante illudendomi di essere ancora incontaminata d'amore e 
	  aspettando impaziente il suo desiderio come fosse l’unico.
 
 Passarono altri giorni e mesi e russi e polacchi finché mi resi conto che 
	  il mio sesso non avrebbe mai potuto sanare quel debito. Quando Alen iniziò 
	  a diradare la sua presenza e il suo amore, mi chiesi più volte se davvero 
	  quel debito ci fosse mai stato, finché la padrona della pensione, 
	  impietosita da tanta fatica, mi confessò che quei soldi guadagnati con la 
	  mia sola carne scivolavano impietosamente nella borsetta di un’altra 
	  donna. Mi guardai allo specchio, ero brutta, smagrita e piena di lividi, 
	  distante anni luce dalla femmina che lo aveva fatto innamorare, e mi 
	  convinsi che qualsiasi altra donna avrebbe potuto offrire al mio uomo 
	  quanto io non avrei mai più potuto.
 
 Un giorno vidi quella donna 
	  dalla finestra della pensione sottobraccio al mio Alen. Era bella, 
	  giovane, elegante e bionda con un rossetto di fuoco e le calze di seta, 
	  con i lunghi capelli lavati da poco e le unghie laccate. Stavano ridendo 
	  ed io mi chiesi quanto dei miei soldi fossero serviti a comprare quel 
	  meraviglioso vestito rosso e quel cappello alla moda. Chiusi la persiana e 
	  piansi a dirotto.
 
 
 
 *****
 
 
 Ora sono qui che piango 
	  ancora quelle lacrime, e piango me stessa e il mio bel francese, ma quel 
	  coltello, nella sua tasca, era troppo a portata di mano quando la sera 
	  venne a trovarmi. Puzzava di femmina calda e senza avere l’accortezza di 
	  lavarsi mi scaraventò sul letto e m’infilò il suo sesso. Non ci vidi più e 
	  afferrai quel coltello. La lama entrò nella sua carne come in un burro e 
	  mentre lo trafiggevo alla schiena lo sentii irrigidirsi dentro di me, mi 
	  fece godere, ma a lui non rimase il tempo per farlo.
 Poi tutto un 
	  ricordo sbiadito, polizia, sbarre di ferro, catene pesanti, giustizia e 
	  domande straniere. Ho detto sempre sì, perché chi muore ha sempre ragione 
	  ed io ero morta d’amore varcando la frontiera e inseguendo il mio 
	  assassino.
 
 Ora sono qui sola, oltre la grata c’è il mare, oltre il 
	  mare la vita che non mi è più permesso giudicare. Sono sola al mondo, se 
	  muoio adesso, stasera nessuno mi farà compagnia.
 
 
 
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