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LiberaEva
A che serve un uomo?
"Camminavo in equilibrio sopra il filo dei pensieri, rassegnata m’allontanavo
dalle tante speranze che oramai strascicate mi pareva calpestare, come ombre sotto i piedi, come foglie sotto i tacchi.
"







Photo Andrew Chemerys

 



Camminavo in equilibrio sopra il filo dei pensieri, rassegnata m’allontanavo dalle tante speranze che oramai strascicate mi pareva calpestare, come ombre sotto i piedi, come foglie sotto i tacchi. M’allontanavo da quell’incrocio di strade, dove un pino storto ed insecchito faceva da spartitraffico, dove una pioggia d’aghi e di resina appiccicava i minuti, fermando il tempo nell’istante dove il prima e il dopo non avevano ancora un taglio netto, dove un frullatore nel cervello non distingueva i pensieri dai ricordi.
Arrancavo come se un elastico mi risbattesse indietro al punto di partenza, come se uno sputo contro il cielo tornasse gelido nella bocca. M’era crollato il mondo addosso ed io ero crollata addosso al mondo, sballottata dallo scarno rimbombo di parole, che non erano più d’amore, che penose annunciavano una fine.
Avevo visto nei suoi occhi il freddo bianco del mattino, quando senza più riparo ti penetra le ossa e ti lega cuore e carne come retina per l’arrosto. Testarda non m’era bastato un messaggio al cellulare, che per il modo e il mezzo era già più che sufficiente, ma ostinata avevo voluto quell’incontro, una sorta di prolunga che mi lasciasse qualche dubbio, qualche stupida incertezza per passare qualche notte.
M’ero messa quanto di meglio avevo trovato nell’armadio, quanto di disponibile c’era ancora nella mia testa, illusa che appena vista mi schiacciasse contro il muro, mi sgualcisse gonna e labbra come aveva fatto altre volte. Avrei desiderato un solo bacio, uno di quelli carichi di saliva, scambiata tra le labbra tra passione e pentimenti, ma non ci toccammo che per stringerci la mano, per dirci cose finte, vere solo in quei momenti, quando cerchi un appiglio o quando il cielo nero nero copre quella che credevi la tua stella.

Feci solo qualche passo e già mi sentivo sprofondare, come se lavori in corso m’avessero risucchiata nelle viscere, dove nessuno ascolta le tue grida, dove solo la tua voce ti ritorna disperata. Solo due passi e mi sentivo senza fili, brutta e rifiutata per chissà quale troia, che ora dietro l’angolo si sbatteva l’unica ragione, la sola mia risorsa per passare indenne quei minuti.
Ancora un altro passo e mi sentii chiamare con un nome sconosciuto, mi voltai come se qualsiasi mugugno fosse stato da richiamo, come se uno starnuto fosse stato la mia salvezza. Non vidi nessuno che mi sapesse di familiare e dispiaciuta continuai incontro ad un domani con le ore sfilacciate, finché un altro nome mi fece alzare ancora gli occhi tra quel poco di mascara che non s’era perso nel dolore.

Era un uomo, ma non era il mio, mi seguiva dal balcone con lo sguardo passo passo come un angelo senza ali, come un faro nella notte. Lo rimproverai d’avermi trascurata, per sua distrazione mi ritrovavo lì da sola. Non capì e mi chiese la ragione. Mi sorpresi a pensare come un angelo possa avere altri lavori, possa essere così impegnato da scordarsi il mio destino. Gli chiesi di farmi salire per cambiare direzione, per sentirmi dire che ero ancora bella e mai da quell’istante m’avrebbe lasciata più da sola.

Salii quelle scale col desiderio di annullarmi, di disintegrarmi cuore e mente perché causa e ragione del malessere che provavo. Volevo solo sfiancare i miei pensieri, perché convinti che l’unico mio posto sarebbe stato su qualunque precipizio affidando la mia vita e il suo contrario ad un’impercettibile vertigine.
Giunta al primo piano m’accorsi che non vestiva di celeste e i suoi capelli biondo cenere erano diventati quasi bianchi, ma aveva grandi mani, capienti e protettive, che s’adagiarono sulle mie spalle senza chiedere permesso. Non le chiesi nulla, perché nulla in quel momento avevo desiderio di sapere, tranne d’essere trasportata sulle sue ali invisibili, sulla sua voce che di colpo s’era addolcita per incanto.
Mi disse quanto già sapevo, che i nostri destini s’erano incrociati perché simili e contrari, come se la mia bocca imbronciata avesse esattamente la forma del sue pene, o come le sue mani la forma del mio seno.
Entrai come se già conoscessi quella casa, quei tappeti alla rinfusa che m’avrebbero ospitata senza un attimo di sconcerto, quelle tende che avrebbero coperto solo parte del bisogno di non essere da sola. Entrai come se già sapesse che avevo urgenza di conforto, occorrenza di riempire i vuoti di quelle ore, per arrivare alla prima alba senza sprofondare.

Non mi chiese quale dei tanti nomi fosse quello vero, ne scelse uno adatto alla mia rughe incavate di rancori che correvano indipendenti squarciandomi la fronte. Mi sbottonò con lo sguardo un fiacco residuo di pudore, sicuro che avrei continuato senza bisogno d’altro invito. Così feci e così avrei fatto davanti a qualsiasi uomo in quel momento, a qualsiasi angelo o persona che m’avesse consentito di scalzare il mio passato con qualsiasi presente.
Squillò il mio cellulare e non risposi, squillò di nuovo e sfilai il reggiseno. M’avvicinai con un gesto naturale cercando la sua bocca, come se un seno nudo avesse sempre bisogno del suo ciuccio, d’essere inumidito prima che passione vera esploda incontrollata. Ma rimase arido come aride le mie labbra s’accontentarono dell’aria, mossa dalle sue dita che rimasero a distanza.
Risi, come quando non si capisce il motivo, perché mai la sua mano si sostituisse alla mia saliva che calda non avrebbe chiesto altro, che abbondante avrebbe fatto il suo dovere.

Lo chiamai senza che ne conoscessi il nome, lo invitai quasi goffa ed inesperta perché nuda e disponibile non mi era mai successo, d’assistere al piacere rimanendone ai bordi. Lo pregai di non andare oltre e fermare la sua mano, di non disperdere il suo fiume, a goccia a goccia, sul tappeto, ma di trattenerlo fino a foce dentro il mare che allargavo.
Mi ricordò sorridente che ero salita solo in cerca del mio angelo, e per questo impalpabile, e per questo qualunque mia fessura avrebbe accolto solo aria, profumo che solo il naso poteva avvertirne la presenza. Cercai d’avvicinarmi strofinandomi sul tappeto, convinta che quel gioco non sarebbe durato tanto a lungo, che quell’uomo a poco a poco avrebbe diluito la mia passione, come acqua dentro un filo d’amarena, come fumo dentro una bottiglia.
Lo invogliai a risalire la corrente strofinandomi le dita, come se tra le mie cosce avesse trovato davvero mare aperto o un fiume d’acqua dolce dove i salmoni depongono le uova. Oramai a contatto col suo odore chiusi gli occhi all’attesa, certa di sentirlo dove peluria diventa carne viva, dove nessun’altra medicina sarebbe stata efficace per distruggermi il dolore.
Ero nuda davanti al suo piacere che imperterrito lievitava facendo a meno del mio calore. Ero nuda di fronte al suo giudizio, spoglia di ricordi che ti danno un contegno, spoglia di mutande calate come lune, fino alle caviglie.

M’accarezzò dolcemente come un parente al capezzale, mi sfiorò i capelli ben lontano dalla mia voglia, dall’ostinazione che oramai a carponi s’era impossessata di qualsiasi buon senso. Mi baciò la fronte soffiandoci parole, mi inumidì un seno arrivando ad un niente dal mio capezzolo, che oramai, unica mia meta, mi sarei accontentata facendone tesoro.
Mi disse che erano anni che non si congiungeva con una donna, che anche in quel momento ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché ogni volta dentro un sesso c’era un dolore da estirpare, strazi che si annidavano in posti irraggiungibili.
Perché dentro un buco da riempire facilmente, c’erano solo negazioni dove altri ci avevano sguazzato lasciandoci inguaribili ferite. Per troppo tempo s’era sentito solo un guaritore, di anime femmine in sofferenza che s’aprivano all’istante come porte di saloon, come finestre a temporale quando soffia e tira vento. Per anni come sturalavandini, aveva liberato colli intasati da spasimi e da pene, per anni come adesso, mentre fissava le mie cosce gonfie di piacere, le mie vergogne sparse sul tappeto ammonticchiato.

In un attimo mi sentii più spoglia di un sesso rifiutato. Null’altro avrei potuto offrire, se non una donna che si concede facilmente per tutti i motivi che m’aveva rinfacciato, per tutti i rifiuti che erano rimasti a distanza. Null’altro se non d’essere penetrata per arrivare senza sforzo al centro dei miei pensieri, alla fonte del mio male dove s’incagliavano giorni inutili e rabbie troppe vive. Null’altro avrei potuto scambiare con quell’uomo, che ora estraneo s’avvicinava sfiorandomi le labbra. S’avvicinava facendomi sentire l’odore del suo sesso, chiedendomi ragioni e sperando che per questa volta non fosse solo pompa di drenaggio. M’alzai raccogliendo i miei vestiti, domandandomi a cosa mai possa servire un uomo a cui ti concedi facilmente.
Lo fissai negli occhi abbozzando un cenno di comprensione, mentre le parole mi riempivano la bocca. Ne uscì solo aria mista a convinzione che dentro quella stanza non c’era altro motivo, altra ragione perché una donna senza amore possa concedersi così in fretta. “Perché mai?” Dissi solamente, coprendomi alla buona le voglie ancora intatte che avrebbero fatto a meno di qualsiasi risposta. “Perché mai?”




FINE

 





 
 
 


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