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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Tutto in una notte 2

 

anna koudella


 



CAPITOLO IV


Fuori piove, apro l’ombrello. Non prendo la macchina, in questo momento non potrei mai sopportare gli spazi vuoti e le colonne mute del garage condominiale. Mi fanno venire in mente brutte storie di cronaca nera: uomini in agguato vestiti con impermeabili di pelle nera, rumore di passi, ombre sui muri, lame di coltelli affilati che luccicano al buio, stridio di pneumatici… No, no forse non dovrei vedere più certi film!
Comunque è meglio che vada a piedi. In fin dei conti la casa di Cecilia dista poco meno di un chilometro da qui. Piove e non c’è anima viva, solo un’insegna verde intermittente di una farmacia notturna e un tombino che si lamenta.

Cammino sul marciapiede rasentando le serrande chiuse dei negozi. Ora davvero vorrei essere invisibile, quantomeno trasparente per non dare il fianco al mio nemico. Cerco di nascondermi tra la fila delle auto parcheggiate, procedo a zigzag per non essere un facile obiettivo!
Dio sarà la pazzia che incombe! Oramai sono davvero ossessionata, tesa come una corda di violino. Anche un gatto mi farebbe saltare!

D’un tratto si materializza da lontano un’ombra più scura. Rallento e cerco di mettere a fuoco. Ecco ora lo vedo, è un signore con il cane, fermo all’angolo del primo isolato.
Oddio e se fosse lui il maniaco? In effetti indossa un impermeabile con il bavero alzato! Ma un maniaco può portare a spasso un cane? E il cane può accompagnare un maniaco? Forse l’uomo vuole confondersi. Ecco sì è al telefono, magari sta telefonando proprio a me!

Rallento. Che faccio? Se cambio marciapiede si accorge che ho paura, se cammino dritta gli passo a pochi metri e diventerei una preda abbordabile per il mio violentatore.
Prendo il cellulare, è spento, ma parlo, anzi faccio finta di parlare. Il cuore mi batte. Sono a pochi passi da lui, fintamente rido, ma è un suono isterico, quasi urlo, pronuncio chiaramente le parole, invento nomi, Stefano, Marco, Elisabetta, luoghi, un appuntamento a breve, una cena per domani sera, scandisco bene il nome della strada e il numero civico…

L’uomo è sempre lì, si volta, dice qualcosa al cane, porta un cappello nero e dei guanti di pelle neri o marroni. Oddio sarà proprio lui il maniaco. Cerco di notare almeno una cicatrice, un particolare che mi dia la prova provata che sia un maniaco!

Ecco ora mi ha vista, si muove, viene verso di me, rallento ancora, pronta ad attraversare la strada oppure a scavalcare il cancello di ferro, non molto alto, di un deposito di un supermercato.
Vedo ombre sul viso, mi paiono cicatrici. E’ lui il maniaco! E sfacciatamente mi viene incontro. Ora lo vedo meglio, avanza con difficoltà con il cane al guinzaglio, è leggermente claudicante. Anzi direi piuttosto zoppo. Se dovessi scappare non avrebbe alcuna possibilità di riprendermi.
Tiro un sospiro di sollievo.
Mi rassicuro. Proseguo. Passandogli vicino mi accorgo che è un signore molto anziano e non mi degna di uno sguardo, né lui e né tanto meno il cane che è tutto occupato ad annusare la base di un tronco.

Sospiro. Tiro fuori tutta l’aria dai miei polmoni. Mi guardo intorno. Ora sento solo i miei passi. Nessun’altra anima viva nel giro di cento metri. Nessun altro maniaco o presunto tale. Mi volto ancora indietro, ma il pericolo è passato e la casa di Cecilia è ormai a pochi metri.
Devo solo attraversare al prossimo incrocio, percorrere venti metri di una strada privata, lasciarmi a destra la grande magnolia e sono arrivata.
Ma un rumore assordante mi blocca, mi giro di soprassalto! E’ il camion della nettezza urbana che si ferma a pochi passi.
“Che sbadata!” Ho ancora in mano il sacchetto dell’immondizia! Quasi rido.
Faccio per buttarlo nel cassonetto.
“Dia a me signora…” Mi dice gentile l’addetto.
Ecco mi serviva davvero questo sorriso, penso tra me e me, ora mi sento più serena, oltrepasso il cancello, percorro il vialetto. Qualche lampioncino acceso, tutto intorno è buio. Sento di nuovo il cuore che batte, ma questa volta non è per il maniaco, penso a Cecilia e spero soltanto che non mi prenda a male parole.

Ho il fiatone. Mi guardo intorno. A pochi passi da me una coppia giovane amoreggia dentro una macchina sportiva.
Cecilia vive in un comprensorio di quattro palazzine immerse in un grande giardino. INTERNO 7. Sul citofono nessuna targhetta. Premo il pulsante.
Lei mi risponde immediatamente. Strano.
“Marianna ma che ci fai qui?” Il motore appena acceso della macchina sportiva copre quasi totalmente la sua voce.
“Disturbo?” Dico senza aver capito.
“Marianna, ma stai bene, cosa succede?” Ecco ora la sento, dalla voce squillante mi rendo conto che non dormiva, meno male!
“Sì, sì, tutto bene…” Balbetto.
“E allora?”
“Scusa Cecilia, posso salire su da te?”
Silenzio. La sento perplessa.
“Dai sali che ti spiego…”

Mentre salgo mi chiedo: “Oddio avrò rotto le uova nel paniere? Strano, mi ha risposto immediatamente, ma no, forse si era alzata solo un attimo… Magari per bere dell’acqua.
E se c’è qualcuno in casa? Dio potevo almeno telefonare… Che stupida che sono, ma cosa vado a pensare! E poi in quel caso non mi avrebbe detto di salire…”
Del resto è tutto insolito, io che citofono a quest’ora di notte, lei che mi deve spiegare, ma cosa?

Faccio le scale in fretta. Mi accoglie sul pianerottolo. Indossa un vestito a pois bianco e nero, scarpe col tacco, rossetto rosa antico, trucco perfetto, niente vestaglia, niente camicia da notte con le papere gialle, niente ciabatte. Ora ho la conferma: non dormiva! Aspetta qualcuno o è già in casa?
“Marianna cosa ti succede?” Quasi urla sottovoce.
Dio devo essere stravolta, i capelli zuppi e la faccia da violentata!
Lì sul pianerottolo, appoggiata al corrimano delle scale, in quindici secondi cerco di spiegarmi, gli squilli, il maniaco, i rumori al piano di sopra, mio marito…
“Entra dai, sei tutta bagnata! Così mentre ti asciughi ti faccio una camomilla e mi spieghi con calma!” Mi dice apprensiva.
“Ma io non voglio disturbare…”
“Tu non disturbi mai!”
“Scusami ancora Cecilia, mi sono fatta prendere dal panico ed ho pensato di venire qui.” Le rispondo facendo attenzione a non far sgocciolare l’ombrello.
“Mettilo nella doccia del bagno grande!”

Dal corridoio sbircio in sala da pranzo. La tavola è apparecchiata! Addirittura un candeliere sopra un centrotavola di raso nero, calici e le posate d’argento! A quest’ora di notte! Oddio ho fatto davvero una stupidaggine a venire qui e sicuramente ho interrotto qualcosa di importante! Cecilia, Cecilia, mai avrei pensato…
“Tuo marito è ancora a Bruxelles vero? Dico evasiva.”
“Senti, Marianna, è proprio questo che volevo dirti al citofono. Christian mi ha chiamato dall’aeroporto, tra meno di mezz’ora sarà qui.”
Tiro un sospiro di sollievo. Avevo già iniziato a pensare male… Lei riprende fissandomi negli occhi.
“Comunque puoi rimanere qui a dormire. Tu sai che per me non c’è nessun problema e neanche per lui visto che ti vuole un mondo bene.”
Già mi vuole un mondo di bene… ripeto col pensiero.
“Ma stasera gli dei ce l’hanno con me!” Mi fermo in mezzo al corridoio.
“Mari, non ti fare problemi, ti prego. Ora ti asciughi, ti metti tranquilla, prendiamo una camomilla e poi te ne vai buona buona a nanna nella stanza degli ospiti.”
“No, Cecilia, assolutamente no!”
Lei non capisce la mia ostinazione, ma io sì!
“Non accetto repliche. Anzi aiutami a prendere dall’armadio le lenzuola pulite. Dentro il secondo cassetto trovi i miei pigiama.”
Mi blocco.
“Non insistere Cecilia, ora mi sento già meglio. Vado a casa e sicuramente prenderò immediatamente sonno! Eh domani è un altro giorno…”

Rimaniamo qualche minuto a conversare sedute sul divano. La guardo. E’ bellissima. Questo vestito a pois le sta un amore.
“E se insistessi?” Mi prende il viso con tutte e due le mani.
“Non farlo, anzi mi spiace averti disturbato e soprattutto di averti bagnato tutto il parquet con questo ombrello!”
Ridiamo.
“Sì, sì, ti vedo decisamente meglio, prima mi hai spaventata sai?” Mi rassicura sui maniaci, generalmente non mandano una cartolina d’avviso.
“Davvero sto meglio, anzi fammi andare, recupero qualche minuto di sonno.”
“Ma davvero non vuoi rimanere? Christian lo sai sarebbe strafelice di vederti qui.”
“Lo so Cecilia, ma non vi vedete da mesi! E’ anche logico che vogliate stare un po’ tranquilli. Cosa hai preparato di buono?” Domando guardando la tavola.
“Al telefono mi ha detto che ha una fame da lupo. Non farti ingannare dalla tavola apparecchiata, è semplicemente una cena rimediata con le cose che avevo in casa… praticamente nulla! Ride
“Va bene dai, avrete sicuramente altro a cui pensare…” Questa volta rido io.

Sulla porta mi abbraccia. “Dio quanto mi dispiace Marianna, proprio questa sera!”
“Dai non importa, ora davvero sto meglio. Mi fa sempre bene parlare con te. Grazie”
“Ci sentiamo domani mattina, ti chiamo presto.” Mi dice mentre scendo le scale. “Lo sai che puoi sempre contare su di me!”

Sento chiudere la porta. Madonna mia che sfiga! Lui torna sì e no due, tre volte l’anno… Ma dico io, proprio ora doveva tornare? Stanotte davvero non ne va una dritta! Scendo di fretta, ora non è più la paura del maniaco, ma quella di incontrare Christian. Quasi corro.
Fuori non c’è anima viva. Meno male!
Sparisco nel buio.




CAPITOLO V


Dio, se mi vedesse Christian che esco dalla sua casa a quest’ora di notte, sai che imbarazzo! La storia è lunga, mentre cammino mi vengono in mente quei giorni subito dopo la separazione con Fabio. Christian fu molto carino, veniva a trovarmi quasi ogni pomeriggio dopo il lavoro. Rimaneva ore a parlare. Cercava di distrarmi con mille argomenti anche se il mio pensiero fisso era sempre lo stesso e ci tornavo ogni volta. Lui al tempo lavorava a Roma, al Ministero degli Esteri. Certe volte, addirittura, prendeva dei permessi per venirmi a trovare di nascosto.
Nonostante si comportasse in maniera impeccabile sapevo che Cecilia era completamente all’oscuro di questi incontri. Nacque tra noi una sintonia affettiva, ma non sfiorammo mai l’argomento Cecilia. Forse per pudore o forse perché avremmo dovuto in qualche modo definire quella strana amicizia.

Andammo avanti così per circa un mese, lui mi aiutava a coltivare le mie rose in balcone ed a sbrigare alcuni lavoretti in casa. Non si presentava mai a mani vuote, qualche cd, qualche piantina grassa e piccoli regalini da bancarella, finché un pomeriggio mi disse:
“Sai Marianna, non credo sia il caso di vederci ancora qui da te.” L’allusione a Cecilia era chiara, anche se da parte mia, nonostante non avessi alcun dubbio sull’innocenza di quegli incontri, mi ero guardata bene dal riferire la cosa a Cecilia.
Consideravo Christian un amico e mi faceva bene parlare con lui e non volevo metterlo in imbarazzo nei confronti della moglie. Beh sì ogni tanto mi chiedevo quali fossero le sue vere intenzioni, ma fino allora non mi aveva dato modo di pensare ad altro. In fin dei conti, chiosavo, non facciamo nulla di male, mi sta solo aiutando ad uscire fuori dalla mia depressione.

La prima volta fuori casa facemmo una lunga passeggiata lungo i viali di Villa Borghese. La seconda prendemmo un aperitivo su una meravigliosa terrazza con vista sui tetti di Roma. Il panorama era incantevole e lui come la volta precedente si comportò in maniera a dir poco perfetta. Ero entusiasta di quell’amicizia senza nulla in cambio, mi chiedevo sorpresa come fosse possibile. Da una parte mi convincevo e dall’altra però mi domandavo cosa ci fosse dietro l’angolo.
Lo scoprii una settimana dopo circa, quando ci incontrammo in un circolo privato molto elegante, immerso in ettari di prato all’inglese, vicino al Foro Italico. Parlammo, come al solito del più e del meno, davanti a due analcolici arancioni con tanto di bandierine e ombrellini variopinti. Poi lui analizzò il nostro rapporto sperticandosi in elogi a non finire.
“Vedi Marianna, mai mi era capitato di stare così bene! Tu sei una donna splendida e non riesco a rendermi conto come il tuo ex abbia potuto preferire un’altra a te!”
Sentii da lontano un piccolo allarme tipo una sirena, mi irrigidii. Iniziavo ad avere le idee più chiare e non era affatto difficile individuare il posto esatto dove sarebbe andato a finire.

Dopo qualche minuto Christian adagiò una chiave delicatamente sul tavolo. La guardai come fosse un corpo estraneo, mi guardai intorno, in effetti quella struttura non era solo un bar e un centro ricreativo… Mi voltai verso destra ed vidi una scala di marmo rossiccio che portava ai piani superiori. Fissai Christian negli occhi e di colpo si accese nella mia mente la classica lampadina.
“Marianna, decidi tu, se vuoi rimaniamo qui, nessun problema, ma sappi che mi farebbe un enorme piacere ora stringerti tra le mie braccia…”

Silenzio, gelo, addirittura, nonostante la distanza, riuscivo a sentire il traffico ovattato sulla statale. Quella proposta mi aveva davvero sconvolta, ma era partita ed ora aleggiava sulle nostre teste. Tentai con tutte le mie forze di non farla planare, come se non fosse mai stata detta.
Christian del resto era un bell’uomo, sensibile e pieno di premure, e soprattutto era stato molto carino con me, ma in quel momento vidi il volto di Cecilia, la mia cara amica e purtroppo sua moglie!
Fu un tutt’uno, non dire nulla, sentirmi avvampare di delusione, alzarmi, prendere la via dell’uscita, accendermi una sigaretta, attendere vicino alla sua macchina e pregarlo gentilmente di riaccompagnarmi a casa.

Naturalmente non finì lì. Lui per po’ non si fece né vedere, né sentire. Mi mancavano quegli incontri, quasi segreti, sicuramente complici, e poi il suo sorriso e le poesie di Carducci che recitava a memoria.
Ero completamente stonata, la ferita di Fabio aveva ripreso a sanguinare. Scene di sesso e d’amore si alternavano nei miei sogni notturni. Più volte ripensai a quella volta. Non so forse era stata la vista di quella chiave, se lui si fosse proposto più delicatamente, se a quell’incontro fossero seguiti altri… Forse mi sarei adattata all’ineluttabilità di quella scala di marmo, all’alcova al primo piano e alla convinzione che tra un uomo e una donna non esiste amicizia.
E chissà come sarebbe andata se avessi accettato. Nella mia mente rividi più volte quella chiave, l’impazienza delle sue mani…
O forse davvero voleva solo parlare in intimità, stringermi tra le sue braccia, forse gli facevo pena o solo tenerezza, forse davvero voleva ricreare la stessa atmosfera che si era creata negli incontri qui a casa. Ma forse mi illudevo soltanto, quella chiave parlava da sola. Apriva una sola stanza!
Non poteva che andare così. Sicuramente ero stata troppo brusca, sarebbe bastato rifiutare cortesemente e dirgli che non era il caso…
Forse avrai salvato la nostra amicizia ma dovevo purtroppo constatare che quella chiave aveva interrotto ogni tipo di comunicazione.

Passarono altri giorni, cercai di pensare ad altro… Mi ripetevo: “Marianna non sei in attesa di nessuna telefonata!” In effetti sentivo il peso di quell’assenza, mi mancava.
Mi guardavo alla specchio e mi davo della scema. Nella mente girava sempre lo stesso dubbio: forse davvero desiderava solo un po’ di intimità, ma nulla a che vedere col sesso, del resto ne avrebbe potuto approfittare tutte le volte che era rimasto qui in casa mia.

Aspettai ancora qualche giorno, alla fine lo chiamai io. Era in ufficio, fu gentile come al solito. Al telefono parlammo del più e del meno, ma sentivo dalle sue parole un retrogusto di maschio e soddisfazione.
Gli parlai dei miei incontri con l’avvocato e gli aspetti legali della separazione, lui mi parlò del suo lavoro, era in procinto di accettare una missione di qualche anno a Bruxelles che inevitabilmente avrebbe dato una svolta alla sua carriera, ma nel contempo lo avrebbe allontanato da casa e da Cecilia.

Ci vedemmo il pomeriggio nello stesso circolo. Era una bella giornata di sole, questa volta notai i campi da tennis, la piscina e il green per il mini-golf. Ci sedemmo ai tavolini all’aperto. Il riflesso degli ombrelloni gialli coloravano i nostri visi.
Lui non mi chiese il motivo della telefonata ed io non dissi nulla quando rividi tra le sue mani la chiave della stanza. Forse era la stessa, forse un altro numero, di sicuro lui si alzò, mi sorrise, mi prese sotto braccio, entrammo e lentamente salimmo quella scala di marmo rossiccio.
Ero consapevole, sapevo che non sarebbero state solo parole intime o pretesti del genere. Lui mi strinse i fianchi e mi baciò delicatamente sul collo. Poi mi prese la mano come per guidarmi.
Stavo salendo le scale verso una camera ad ore, con un uomo in procinto di trasferirsi a Bruxelles, sposato e per giunta con la mia migliore amica!

La stanza era vicina alle scale e non mi diede tempo di pensare oltre. La porta si aprì immediatamente e noi scivolammo dentro veloci come due ombre cinesi. Fu meraviglioso, ma sapevamo tutti e due che sarebbe stato soltanto uno sfizio, un regalo per entrambi dopo tutti quei giorni densi a parlare fittamente delle mie ombre mentali e delle mie angosce. O meglio quelle furono le intenzioni che ci sbloccarono su quel letto permettendoci così di volare oltre quella finestra, oltre quelle chiome di pini, oltre i campi da tennis e quel prato che in lontananza appariva come una lunga distesa di quiete.

Lui fu adorabile, cercò in ogni modo di assecondarmi. Seduto sul bordo del letto si voltò quando tolsi la gonna ed aspettò pazientemente fino a quando le coperte tolsero ogni imbarazzo.
Non ci furono preliminari, forse perché tutti e due avevamo timore di qualche ripensamento, lui scivolò nel mio corpo senza attrito come fosse un atto dovuto e senza alcun impatto mentale e fisico riuscimmo nel breve giro di qualche secondo a decollare tra le gole profonde di un delicato benessere.

Rimanemmo muti e immobili per qualche minuto, poi la passione ci travolse, lui salì in cattedra ed io obbedii come una allieva diligente. Fu straordinario. Questa volta in libertà, senza premure e inibizioni. Ci lasciammo alle spalle tutte le remore precedenti. Mi baciò tra le gambe e nell’anima tutta e fu un tumulto dei Ciompi, un subbuglio di canne agitate dal vento, uno scompiglio di sensi, una gazzarra d’ali di fagiani al decollo, un strepitio di parole struggenti.
Fu passione quella vera, sofferenza e piacere, un incontro d’amanti clandestini e segreti. Venne sera e poi notte senza che ci staccammo un secondo, poi dormimmo e poi ci amammo ancora nell’alone della luna, nei piccoli led di milioni di stelle.

Non le chiesi se avesse avvertito Cecilia, non le dissi di avvertirla semmai non l’avesse fatto. Sinceramente non me ne importava nulla, anzi quel nome, in quel momento, mi lasciava del tutto indifferente. Non avvertivo sensi di colpa, né verso di lei né verso me stessa. In fin dei conti non le stavo togliendo nulla, perché nulla stavo rubando. Come avevo immaginato non era un atto d’amore, ma un bellissimo rapporto estemporaneo vissuto come un ringraziamento, un regalo dovuto che andava a colmare in parte la sua pazienza infinita.
Ecco, era esattamente uno scambio di regali. Nulla più.

Tornammo a casa alle prime luci dell’alba, ci lasciammo a qualche centinaia di metri di distanza dalle nostre abitazioni. Entrambi vivevamo già nella memoria. Sapevamo di aver vissuto qualcosa di straordinario e soprattutto di irripetibile.
Assonnata aprii lo sportello e scesi dall’auto, senza baciarlo, senza salutarlo.

Il giorno dopo mi mandò un messaggio, aveva accettato il trasferimento a Bruxelles ed in cuor mio pensai che fosse stata una saggia decisione.



CAPITOLO VI


“Marianna, Marianna…” Da dentro un taxi, una voce maschile mi chiama. Mi volto di scatto. La sfiga mi perseguita stanotte! Sono praticamente davanti al portone con la chiave nella toppa!
“Marianna!” Scende.
“Ma che ci fai qui a quest’ora?” Non dico nulla, rimango come inebetita, non mi escono le parole.
“Sto tornando da Bruxelles. In Belgio domani è festa nazionale e ne ho approfittato per respirare un po’ di sano Ponentino.” Si ferma un attimo e mi guarda attentamente: “Ma cos’hai? Hai la faccia stravolta. E’ successo qualcosa?”
Dio, sarò inguardabile!
“Lo so che stai tornando ora da Bruxelles, me l’ha detto Cecilia.”
“Sei stata da lei fino ad ora? Una cenetta tra amiche? Strano al telefono non mi ha detto niente!”
“No, sì… no, niente cenetta, diciamo di passaggio.” Cerco di prendere tempo, non voglio dirgli quello che sta succedendo stanotte! E poi qui sotto la pioggia, a quest’ora, in piedi, non mi sembra il caso. Ma i suoi occhi s’illuminano. Ha un’idea.
“Aspettami un attimo.” Va verso il taxi, paga e prende i bagagli. “Dio che pioggia, fammi entrare un attimo.”
Poi senza dirmi nulla, prende il telefono e chiama.
“Cecilia, sono ancora qui in aeroporto, devo ancora ritirare i bagagli. C’è uno sciopero in atto da parte del personale addetto. A dopo amore.”
Lo guardo, fulminandolo con gli occhi.
“Ma sei pazzo!”
“Sì, ma di te!”
“Christian non fare stupidaggini, vai immediatamente a casa!” Quasi grido.
“Ormai non posso più!” Ride.

Sono due anni che non ci vediamo, da quel fatidico incontro! Non è cambiato per niente… Ostenta sicurezza, come quella volta al motel con la chiave della stanza in mano!
Prendiamo l’ascensore, un attimo di imbarazzo, poggia la valigia a terra e le sue mani sono dappertutto, poi mi bacia il collo, i capelli, il naso, la bocca. Cerco di resistere…
“Christian!!! Ma che fai? Sei impazzito? Cecilia ti sta aspettando!” Cerco di divincolarmi.

Ora sono sul divano, non so proprio come ci sia arrivata! Lui è sopra di me, guardo la valigia appoggiata sul pavimento vicino alla porta. Il telefono di casa continua a squillare, ma nessuno parla. Lui sembra non badarci. E’ troppo preso, mi chiama, mi grida sottovoce che non ha mai scordato quella volta in quel circolo, che sono sempre nei suoi pensieri ed intanto mi alza il vestito, mi sento violentata, ma non faccio nulla per impedirglielo.
Chissà se il maniaco si sarebbe comportato diversamente. In fin dei conti ci sono maniaci e maniaci, forse a me sarebbe capitato un maniaco gentile. Ma esistono?
Christian intanto lotta con il mio reggiseno, poi con le mutandine. Non dico nulla, non faccio nulla, ho perso praticamente tutte le forze. Forse è la reazione di non sentire più l’angoscia del maniaco.

Ecco ora ha vinto! E da vincitore si prende tutto il premio. Non so da quanto sia in astinenza, ma a giudicare dalla foga sicuramente dall’unica volta che l’abbiamo fatto insieme, quindi due anni fa. Cerco di resistergli, accenno a tutti gli avvenimenti accaduti finora, neanche la notizia che mio marito a breve sarà qui lo smonta!
Lui continua, è un ossesso, un maschio indemoniato, alla fine cedo. Che stupida! Cedo perché sono preoccupata che stia facendo tardi, cedo perché Cecilia lo sta aspettando, cedo perché ha detto una balla colossale sullo sciopero e da parte di Cecilia ci vorrebbe davvero poco per smascherarlo, cedo per fare un favore ad una amica, cedo per la tavola apparecchiata, i calici di cristallo, il vestito a pois, le posate d’argento e sicuramente una bottiglia di champagne in frigo!

Dio non è possibile, penso!
“Dai Christian, è tardi, tua moglie ti aspetta!” Lui non sente. Mi rendo conto di essere uno sfogo, una cura, oppure un deposito dove scaricare le voglie accumulate, niente di più! Non riesco a vederci neanche un pizzico di trasgressione. È tutto squallido così. Tutto così in fretta, improvviso! Lui si impegna, ci mette tutto il suo fisico e la sua potenza, ma io non sento nulla, ho bisogno di coccole, di preliminari per carburare. E soprattutto ho bisogno di affetto, ma qui non c’è sentimento, nessuna tenerezza, mi sento solo un recipiente… un secchio sotto la pioggia.
E’ tutto diverso rispetto all’altra volta. Praticamente mi sta stuprando e soprattutto sta violentando quel dolcissimo ricordo! Ma forse pretendo troppo, lui non conosce il concetto d’amore, come ogni altro uomo conosce solo quello dell’opportunismo.

Mio marito diceva sempre che ero un diesel, ma una volta in pista mi scateno, ma ora no, guardo il soffitto, la classica crepa, in attesa che tutto finisca a breve.
Suda, mi chiama amore, ma so che non è vero, mi chiama tesoro, ma questa volta non c’è nulla di delicato, questa volta non scivola tra le pareti di una gola come un aliante, ed io non lo devo ringraziare di nulla.
Poi accelera, rallenta e riparte, lo sento, forse in un momento di coscienza, capisce la situazione. E’ tardi cavolo! Cecilia lo aspetta, i calici e le posate d’argento.
“Dai Christian, ti prego...!”
Accelera ancora, spinge il pedale, l’autostrada è vuota, ora è concentrato alla guida, stringe le mani sul volante che poi sono i miei fianchi, eccolo ora è in dirittura d’arrivo. Unico concorrente, unico vincitore. Finalmente viene, viene senza creanza, senza curarsi minimamente se io abbia provato il minimo piacere, goduto o non goduto, partecipato o meno. Viene urlando, quasi un rantolo a bocca aperta, un rombo d’aereo all’atterraggio, proveniente naturalmente da Bruxelles!

Ecco ora è soddisfatto. Calma piatta, il respiro grosso è quasi più insostenibile del rombo di prima. Ora è pesantemente adagiato su di me, mi sta schiacciando, i suoi respiri si confondono con gli squilli del maniaco. Ma quello è solo un telefono… il maniaco è qui!!! Mi ha appena violentata. Ha due occhi e una bocca. Non è vero che i maniaci abbiamo sempre l’impermeabile e le mani in tasca! Questo è appena sbarcato a Fiumicino.

Sorrido amaramente. Nella mia bocca si crea una patina di saliva densa. Nausea, schifo, mentre lui si alza senza dire nulla, per prima cosa guarda l’orologio, si mette una mano sulla fronte come per dire che è davvero tardi! Anch’io guardo l’orologio dentro la vetrinetta dei souvenir. Incredibile! Da quando abbiamo chiuso la porta alle nostre spalle e mi ha scaraventata sul divano sono passati appena undici minuti. Undici minuti tutto compreso! Quasi uno sconto al supermercato! Credo neanche un prostituta riceva questo trattamento!

Poi ci pensa, si rende conto, fa per dire qualcosa, ma gli metto delicatamente una mano sulla bocca. “Zitto, ti prego, non parlare, prendi la tua valigia e vai, anzi corri!”

Sento l’eco della porta, è uscito di corsa, sento i suoi passi veloci per le scale. Dio mio! Che notte! Guardo il soffitto, poi fisso un punto a caso della carta da parati. Vedo strane figure, alberi che camminano, gnomi che inseguono, mostri verdi e streghe nere, lingue incomprensibili, una luce intensa all’orizzonte, una strada di notte che corre.
Seguo un filo di fumo, sono cerchi giocosi, ora lingue infernali, vedo fiamme ovunque, sono circondata, una foresta che brucia, sento caldo. Ma è solo il mio viso, avrò le guance rosse! Spero che non mi venga la febbre, ma questo delirio non mi fa pensare a nulla di buono.

Mi vengono in mente figure dell’infanzia, una bimba e una donna che corrono su una spiaggia deserta, si tengono per mano, è alba e tramonto, è sole e pioggia, notte e giorno. La donna e la bimba si somigliano, ma non sono madre e figlia. Quelle figure sono io, ambedue hanno la mia faccia, sono l’eterno desiderio di non voler crescere o di non essere mai cresciuta, oppure di ritornare ogni volta al punto di partenza e ricominciare evitando i tanti errori fatti finora.
Sono l’eterna possibilità di avere un’altra prova, un’altra chance per essere adulta. Come ho potuto! Mi chiedo, quasi urlo. Trattengo le lacrime, non servirebbero. Non ho bisogno di autocommiserazione!

Sono di nuovo sola, ma con un peso in più! Mi sento più sola di tutte le volte che mi sono sentita sola! Oddio tutto stanotte, tutto insieme! I tuoni, la pioggia, gli squilli del telefono, Fabio che ha perso le chiavi e chissà se è già venuto e non trovandomi è andato via. Magari gli squilli che ho sentito prima era proprio lui. E poi Cecilia, Christian e questi rumori sopra il soffitto nell’appartamento disabitato…

Mi abbandono sul divano, sono esausta. Cerco di non guardarmi, mi faccio pena e provo vergogna. Il vestito stropicciato è arrotolato sui fianchi. Le scarpe chissà dove.
Sotto sono nuda, le mutande sul pavimento, il reggiseno sul bracciolo della poltrona, le gambe aperte, il sesso disfatto, umido di piacere, ma non è il mio! Sa di maschio e di stupro consenziente, visto che non ho posto alcuna resistenza!
“Marianna ma ti rendi conto cosa hai fatto?” Penso, mi domando. Veramente non me ne sono accorta. Neanche il tempo di chiedermelo. Forse sono colpevole perche non me lo sono chiesto. Praticamente un auto stupro. Esiste?

Per un attimo cerco di aggrapparmi alle mie cose, di pensare al momento quando mi sono coricata ieri sera e cucirlo al mio presente sforbiciando queste ultime ore. “No, no, non è successo nulla. Niente squilli, niente maniaco conosciuto o sconosciuto… solo un brutto sogno, tutto qui.” Dovrei vestirmi per essere più credibile.

Ma non è così!
La fronte scotta e sento pruriti e fastidi nel basso ventre, fanno male quanto un ricordo indelebile.
Non ho la forza di alzarmi, rimango sul divano, esattamente nella posizione dove mi ha lasciata Christian. Immobile, qualsiasi movimento ora, sarebbe un indizio, in qualche modo accettare quello che è successo, un segno di vita, ma io non voglio essere viva. Faccio le prove, trattengo il respiro, ma non dura che qualche secondo.
Mi addormento…




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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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